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IL MERCATO DEL WELFARE

L’interpretazione italiana del cosiddetto “terzo settore”
Negli ultimi tre decenni, accanto alle formule tradizionali dell’associazionismo sociale, delle fondazioni e delle iniziative a carattere sociale degli ordini religiosi, si è diffusa, in Italia, una formula interessante ed originale: la cooperazione sociale.
Oltre che nella crisi del modello pubblico del welfare, le ragioni dello sviluppo in Italia della cooperazione sociale vanno ricercati nell’opportunità di gestire, in modo imprenditoriale e democratico, servizi aventi una certa complessità organizzativa.
Il freno alle nuove assunzioni nel pubblico impiego, cui si è assistito nel corso degli anni Ottanta, ha certamente contribuito allo sviluppo della cooperazione sociale, spingendo alcuni pubblici amministratori a optare per una gestione delegata dei servizi di solidarietà.
E’, però, dagli inizi degli anni Novanta che la cooperazione sociale comincia ad essere osservata come un credibile strumento per attuare politiche di depubblicizzazione dei servizi sociali.
Le politiche del welfare, in Italia come all’estero, non hanno, infatti, risposto pienamente alle attese dei cittadini. Gli interventi del welfare hanno, talvolta, finito per favorire le “classi medie”, meglio attrezzate a conoscere i vantaggi e le opportunità offerte dal modello “tuttopubblico” di Stato sociale. Nel volere garantire prestazioni a tutti i cittadini, si è finito per fornire servizi troppo standardizzati.
La formula vincente della cooperazione sociale sta nel “rendere produttiva la spesa sociale”, impegnando in attività produttive persone svantaggiate, diversamente destinate a pesare sulla collettività; favorendo l’integrazione sociale di adolescenti “difficili”, che potrebbero finire per delinquere e, quindi, per accrescere i costi di polizia e di detenzione; sensibilizzando e coinvolgendo famiglie e comunità locali nel prendersi carico dei più diversi bisogni sociali; permettendo a giovani e donne, considerati come fasce deboli del mercato del lavoro, di acquisire competenze ed assumere il rischio d’impresa.
Il criterio guida del welfare leggero (cioè non “statocentrico”) è quello di mettere i fruitori in grado di cavarsela autonomamente, facendo, ove possibile, venir meno le ragioni dell’intervento solidale. Ed infatti, garantire un reddito minimo o un assegno di disoccupazione senza un impegno lavorativo socialmente utile può portare all’indolenza.
Il fenomeno della cooperazione sociale (su cui si è occupata anche la “Fondazione Giovanni Agnelli” di Torino, pubblicando, nel 1997, un pregevole volume, intitolato Imprenditori sociali) è oggi una realtà molto tangibile: le cooperative sociali sono presenti un po’ in tutte le regioni d’Italia. Pur se il fenomeno si manifesta particolarmente laddove è più forte la tradizione cooperativa (Lombardia, Trentino, Veneto, Emilia Romagna), si registra una significativa presenza anche in altre regioni d’Italia, quali la Sicilia, la Sardegna, il Lazio, il Piemonte e, pìù recentemente, la nostra Puglia, ove la cooperazione sociale si sta affermando, giorno dopo giorno, con enorme successo.
Secondo le rilevazioni Istat (riferite al 2005), il maggior numero di cooperative sociali ha sede in Lombardia (1.191 unità, pari al 16,2% del totale nazionale); seguono il Lazio (719), la Sicilia (589), l’Emilia-Romagna (584), il Veneto (564) e la Puglia (545). Le regioni con una minore presenza assoluta di cooperative sociali sono quelle di dimensioni più piccole: Valle d’Aosta (32), Molise (67) e Umbria (104).
Rispetto al 2003, il numero di cooperative sociali aumenta in molte delle regioni italiane; in particolare, in Sardegna (64,1%), Calabria (53,6%), Liguria (53,2%), Campania (23,7%) e Lazio (21,7%).
Sempre secondo l’Istat, le cooperative sociali attive al 31 dicembre 2005 erano 7.363, mentre 652 erano quelle che, alla data di riferimento della rilevazione, non avevano ancora avviato l’attività o l’avevano sospesa temporaneamente. Rispetto alla rilevazione precedente, riferita al 2003, le cooperative sociali sono aumentate del 19,5%; rispetto alla prima rilevazione del 2001 l’incremento è stato del 33,5%.
Nelle cooperative sociali sono impiegati circa 244 mila lavoratori retribuiti (di cui 211 mila dipendenti, 32 mila lavoratori con contratto di collaborazione e poco più di 1.000 lavoratori interinali) e 34 mila non retribuiti (30 mila volontari, 3 mila volontari del servizio civile e circa 700 religiosi). Il 71,2% delle risorse umane è costituito da donne. Dal punto di vista economico, le cooperative sociali realizzano una produzione di circa 6,4 miliardi di euro (fonte Istat).
E’ un modo socialmente utile di fare impresa: eroga servizi diffusi (sociali, sanitari od educativi) e crea preziose opportunità di occupazione per quanti sono penalizzati dai meccanismi di un mercato del lavoro sempre più selettivo.
  
Alfonso Masselli