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Andrea Pazienza, genio e regolatezza dalla Puglia

Andrea Pazienza: venti anni senza di lui, venti anni pieni di lui. A partire dalla sua scomparsa, il 16 giugno 1988, non viene dimenticato e poi riscoperto, alla stregua di Francis Scott Fitzgerald. Paz è un segno indelebile. Soprattutto il naso di Zanardi, un fendente tra i due millenni.
Con Penthotal, Pompeo, Enrico Fiabeschi e gli altri, dai pennarelli di Paz sono uscite icone delle arti figurative contemporanee. Del resto, Andrea operava per eredità genetica del padre Enrico, acquerellista ineffabile che attende scoperta. E gli si avverò sulla pelle di artista la maledizione cinese «che tu possa vivere in tempi interessanti».
Troppo giovane per il ‘68 e già maggiorenne nel ‘77. Crebbe nutrendosi di letteratura e di cinema, non di video, CD-ROM e playstation, come i fratelli minori e i nipotini. Dai quadri ai fumetti, cercava i parametri di uno spessore impalpabile, scomparso nell’attuale inciviltà dell’immagine. Assente finanche nella letteratura dei più anziani, che inseguono un presunto gusto giovanile in realtà confezionato a tavolino per rincorrere il sogno impossibile di rialfabetizzare schiere predisposte dalla mutazione strutturale del XXI secolo solo alla lingua dell’«infotainment», l’informazione spettacolo, la melassa elettronica. Nulla di più lontano dalle tavole di Andrea, che non aveva bisogno di supporti multimediali per far confluire nelle sue tavole suggestioni e citazioni. Perché in proprio possedeva qualcosa che riguarda nello specifico i lettori pugliesi.
Benché Andrea Pazienza fosse nato a S. Benedetto del Tronto ed avesse studiato a Pescara e a Bologna, consumò il nucleo centrale e formativo dell’esistenza a San Severo, città (non paese) del Tavoliere, dove vivevano e lavoravano i genitori. Andrea definisce San Severo nei suoi tre poli più incisivi: la borghesia, la classe contadina e la comunità di artisti cui lui stesso appartenne.
A ciò si aggiungeva la cultura, shackerata dai vortici ormonali che l’adolescenza scatenava nei ragazzi del passato prossimo. Dall’art déco a Proust (accostamento proposto nell’82 da un coetaneo che scriveva di Pazienza sulla rivista di Oreste Del Buono «L’Eternauta», entrambi scomparsi come Andrea) con certe spudorate confessioni personali che divengono lirismo, dal tratto selvaggio del fumetto «Trase» al Raymond Radiguet di «Le Diable au corps», dalle avanguardie storiche (Breton, Picasso, i dadaisti) a Joyce che reinventa sulla pagina l’argot e i fondali delle proprie origini (San Severo come Dublino, San Menaio come la spiaggia di Sandymount), dalla pop art e e dagli abitatori del crepuscolo – «biazanott», masticatori di notte si dice a Bologna – disegnati con reminiscenze di Edward Hopper agli universi disperati e metropolitani targati Raymond Chandler.
Di Paz andrebbe sviscerato meglio il nucleo di una poetica molto semplice da condensare: il taglio personalissimo della rappresentazione, la galleria dei caratteri e lo sberleffo del linguaggio, che dal dialetto sanseverese assurge a invenzione. Tre caratteristiche in grado di vaccinare chiunque dal rischio di invecchiare, nel senso di calarsi della convenzione. Anche se fosse ancora vivo, Andrea avrebbe conservato la freschezza di una gioventù che non cede il passo a ciò che il meccanismo dei consumi prevede per la generazione successiva.
«Nell’80 andai negli Stati Uniti per cercare il segno ‘80, perché pensavo non potesse essere riconducibile alla logica del triangolo: via i cerchi, via i triangoli, mi sembrava un sistema abbastanza puerile. Sono tornato senza aver trovato nulla che mi interessasse…». Eccolo qui l’artista non più delimitato dal quadro di un’epoca. Pazienza dimostra di inseguire un proprio disegno interiore che va ben oltre i grafismi accattivanti per i giovani che magari, tra gli anni ‘70 e gli anni ‘80, arrivavano alle riviste «intellettuali» a fumetti senza essere passati per la letteratura, anticipando l’analfabetismo elettronico dei surfisti di Internet. Andrea no. Lui citava Hemingway, Proust, Melville e William Blake perché li aveva letti, li conosceva dall’interno. E lo stesso per i suoi rimandi alla storia dell’arte: «Con Caravaggio si è entrati in quella che è la disciplina del rapporto con i materiali e cioè si disegna bene un materiale solamente se si decide di conoscere il materiale che si sta disegnando, bisogna in pratica avere una comprensione del metallo, del legno, della posizione degli oggetti…».
Una lucida e nel contempo appassionata capacità di pensare e metabolizzare l’espressione per immagini lontana mille miglia dai gerghi di chi credeva che il mondo delle storie di Pazienza potesse ridursi solo agli appartamenti da universitari e a un sottobosco di settantasettini. Da queste sue parole traspare una formazione rigorosa, definibile con un paradosso: genio e regolatezza.

Enzo Verrengia