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Vieste – QUEL PALAZZO STILE «ANDY WAHROL» (si fa per dire!) IN PIENO CENTRO

 

Potrebbero salvarsi (pelo, pelo, ma a stento non si riderebbe comunque) dicendo di essersi ispirati ad Andy Warhol, icona della pop-art. Ma avete mai avuto notizia di un condominio viestano che delibera di ridipingere lo stabile alla Andy Warhol?  Macchè, dunque niente assoluzioni.
Ci sono poche o nessuna spiegazione plausibile per quella «terrificante» intonacatura verde-pisello-giallastro recentemente indossata da uno stabile della centralissima via Santa Maria di Merino (a pochi passi dall’incrocio monstre con via Firenze-lungomare Europa-lungomare Vespucci, il padre di tutti gli intasamenti).

Una visione, non certo celestiale, che irrita le pupille di pletore di passanti ed abitanti della zona, e si qualifica come una stonatura da guinness dei primati. Tanto più dopo che la comparsa del «dolce stil rosa» del Vieste Palace Hotel aveva contribuito non poco a riabilitare «dolcemente» la vista di tutto il quartiere, guadagnandosi sperticati elogi per aver sepolto l’ex Albergo Aurora e il suo abito da fine seconda guerra mondiale.
Ci toccasse vederlo solo a noi, passi pure, abituati come siamo al culto del brutto in questa città. Il problema è che quando arriverà anche da noi la Google Map interattiva, si faticherà a non irritare i megapixel del satellite e degli schermi a servizio di occhialuti navigatori Internet, curiosi di dare una sbirciatina alla nostra città. Ma vit d’ che c’lor hann fatt cudd palazz addà!, mormorerà la zia Adelaide da Adelaide (Australia), quando il figlioletto gli mostrerà via webcam a 20mila chilometri di distanza come si è trasformato il centro di Vieste negli anni.
Ebbene sì, spiace ammetterlo, ma come sempre nella nostra città in fatto di soluzioni estetico-architettoniche, è tutta una gara ad iscriversi per primi ai casting del «festival del brutto», in servizio permanente.
Il caso dello stabile in via S. Maria di Merino dipinto di verde-pisello-giallastro è solo la punta dell’iceberg in un mare di nomination. Fa notizia, perché si scorge in pieno centro, e rappresenta la deriva «centrista», del «è brutto ciò che è brutto». Ma a guardarsi in lungo e in largo in tutta la città e dintorni, il bello rappresenta l’eccezione al brutto e non viceversa, come dovrebbe essere in un paese che si dice turistico.
In un qualsiasi condominio, in qualsivoglia facciata è tutto una nota stonata rispetto a basilari canoni di decoro estetico e di armonia visiva. E’ tutto un bianco anticorodal al terzo piano che si distingue dalle persiane verdi (e di legno) di secondo e primo piano. E poi vetrate, ripostigli installati a casaccio e con la prepotenza del «di casa mia faccio quello che voglio io». E poi roof garden che hanno solo il roof (tetto) e zero garden, ringhiere informi, deformi e difformi dal resto del palazzo; tende da sole, rifacimenti di balconi, terrazze e verande che danno tutti il loro «disonesto» contributo al festival del brutto. Sempre più specchio di un’anima cittadina che, in mezzo a cotanto Eden, non può che predisporsi, anche lei, sempre più incline al fascino del brutto.