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Storia, il Nord voleva una «Guantanamo» per la gente del Sud

Per battere il brigantaggio, i piemontesi volevano aprire una «Guantanamo» in cui deportare tutti i meridionali. Le prove sono contenute nei Documenti diplomatici conservati presso l’Archivio storico della Farnesina.

 

 Per quasi dieci anni, fino almeno al 1873, il Governo italiano le tentò tutte pur di avere un lembo di terra dalle potenze straniere per internare i meridionali ribelli. Subito chiese agli inglesi di impiantare una colonia di deportazione nel Mar Rosso. Trovando però le prime difficoltà, il 16 settembre 1868, il presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, Luigi Federico Menabrea, si rivolse al ministro a Buenos Aires, della Croce, perché sondasse la disponibilità del Governo argentino a cedere l’uso di un’area «nelle regioni dell’America del Sud e più particolarmente in quelle bagnate dal Rio Negro che i geografi indicano come limite fra i territori dell’Argentina e le regioni deserte della Patagonia».

Secondo Menabrea (che era nato nell’estremo Nord Italia, a Chambéry, oggi in territorio francese), la «Guantanamo dei meridionali» doveva sorgere in terre «interamente disabitate».
Il 10 dicembre di quell’anno, Menabrea diede anche istruzioni all’agente e console generale a Tunisi, Luigi Pinna, di «studiare la possibilità di stabilire in Tunisia una colonia penitenziaria italiana».

Il tentativo fallì per l’opposizione dei tunisini e allora i Piemontesi tornarono alla carica con gli inglesi. Obiettivo: spuntare l’autorizzazione a costruire un carcere per i meridionali sull’isola di Socotra (che è al largo del Corno d’Africa, tra Somalia e Yemen) oppure, quantomeno, avere il loro appoggio affinché l’Olanda concedesse analoga autorizzazione nel Borneo.

Il 3 gennaio 1872 il Governo inglese però fece sapere di non vedere di buon occhio il progetto piemontese di fare «uno stabilimento penitenziario» nel «Borneo o in un altro territorio dei lontani mari». E il 3 maggio, il lombardo Carlo Cadorna, ministro a Londra, scrisse al ministro degli Esteri, Emilio Visconti Venosta (milanese e mazziniano della prima ora; nella foto a sinistra), che era stata bocciata «la richiesta italiana di acquistare l’isola di Socotra come colonia penitenziaria».
Il 20 dicembre di quell’anno anche l’Olanda espresse i suoi timori: i deportati meridionali avrebbero potuto evadere mettendo a rischio i suoi possedimenti nel Borneo.

Intanto, le carceri dell’Italia Unita traboccavano di meridionali e i briganti continuavano a combattere. L’11 settembre 1872, il “Times” pubblicò una lettera giunta da Napoli che metteva in luce la recrudescenza del brigantaggio in Italia. Il “Times” ci aggiunse un articolo di fondo in cui non si risparmiavano sferzate ai Piemontesi per l’incapacità di «eradicare completamente una così grave piaga».

È PEGGIO DELLA FORCA
Convinto che la paura della deportazione in terre lontane avrebbe spaventato i meridionali più di qualunque tortura e perfino della morte, il ministro degli Esteri, Visconti Venosta, decise di mettere alle strette gli inglesi. Il 19 dicembre 1872, a Roma, incontrò il ministro d’Inghilterra Sir Bartle Frere e gli parlò chiaro. Il suo discorso è ancora agli atti, negli Archivi della Farnesina. Disse: «Se ci ponessimo in Italia ad applicare la pena di morte con un’implacabile frequenza, se ad ogni istante si alzasse il patibolo, l’opinione e i costumi in Italia vi ripugnerebbero, i giurati stessi finirebbero o per assolvere, o per ammettere in ogni caso le circostanze attenuanti».

«Bisogna dunque pensare – disse il ministro della neonata Italia – ad aggiungere alla pena di morte un’altra pena, quella della deportazione, tanto più che presso le nostre impressionabili popolazioni del Mezzogiorno la pena della deportazione colpisce più le fantasie e atterrisce più della stessa pena di morte. I briganti, per esempio, che sono atterriti all’idea di andar a finire i loro giorni in paesi lontani, ed ignoti, vanno col più grande stoicismo incontro al patibolo».

Sir Bartle Frere prese tempo ma i piemontesi non si arresero. È del 3 gennaio 1873 un documento confidenziale in cui Cadorna ragguaglia Visconti Venosta sul colloquio avuto col Conte Granville relativamente alla «cessione di una parte della Costa Nord Est dell’isola di Borneo». Il rappresentante del Governo italiano disse al ministro degli Esteri inglese che i briganti «avvezzi a mettere la loro vita in pericolo, resi più feroci dalla stessa lor vita, salgono spesso il patibolo stoicamente, cinicamente (esempio tristissimo per le popolazioni!). Invece la fantasia fervida, immaginosa di quelle popolazioni rende ad essi ed alle loro famiglie terribile la pena della deportazione. In Italia, e massime nel Mezzodì, ove è grande l’attaccamento alla terra, ed al proprio sangue, il pensiero di non vedere più mai il sole natale, la moglie, i figli, di passare, e finire la vita in lontano ignoto paese, lontani da tutto, e da tutti, è pensiero che atterrisce».
Granville però fu irremovibile: l’Inghilterra non avrebbe aiutato l’Italia a deportare i Meridionali.

MIGLIAIA IN CARCERE
Ma quanti erano i detenuti del Sud che marcivano nelle galere italiane? Secondo la rivista «Due Sicilie» (bimestrale diretto da Antonio Pagano), un’indicazione si trova in una lettera del savoiardo Menabrea, al ministro della Marina, il nizzardo Augusto Riboty. Menabrea sostiene che sarebbe stato «utile e urgente» trovare «una località dove stabilire una colonia penitenziaria per le molte migliaia di condannati» che popolavano gli stabilimenti carcerari.

A proposito della Marina militare, la Forza armata si prestò ad esplorare una serie di luoghi adatti alla deportazione dei meridionali. Il Borneo e le isole adiacenti, innanzitutto. ma anche – secondo documenti pubblicati da «Due Sicilie» – «l’est dell’Australia».

Il Sud ha pagato i buchi di bilancio del Nord

Checché ne dicano i «Padani», storicamente è stato il Sud a doversi accollare i debiti del Nord. La dimostrazione – dati contabili alla mano – fu data alle stampe già nel 1862. Si tratta della ficcante analisi del barone Giacomo Savarese, intitolata «Le finanze napoletane e le finanze piemontesi dal 1848 al 1860» ed oggi ripubblicata dalla casa editrice partenopea «Controcorrente».

Si scopre così che, nel 1860, le casse dei piemontesi erano ben vuote, se paragonate a quelle del Regno delle Due Sicilie. Tre guerre in 10 anni pesavano sui bilanci cavouriani. Eppoi lo Stato Sabaudo aveva un sistema monetario che era un mezzo bluff. Essendo basato sulla carta moneta, ad ogni banconota messa in circolazione dalla Banca nazionale degli Stati Sardi, doveva corrispondere un equivalente valore in oro o in argento. Invece, il metallo pregiato era stato speso (in armamenti) e per la valuta c’era un problema di «convertibilità».

Il Regno delle Due Sicilie emetteva soltanto monete d’oro e d’argento (oltre alle polizze notate e alle fedi di credito, il cui esatto controvalore era versato nelle casse del Banco delle Due Sicilie). Quindi, un soldino meridionale valeva già di per sè, essendo di metallo prezioso, mentre la valuta piemontese era carta e, in parte, carta straccia.
La ricca «dote» dei Meridionali servì a coprire i «buchi» della neonata Italia mentre il «vizietto» di stampare banconote senza copertura continuò a essere tollerato fino a quando, nel 1892, esplose un tale scandalo che il capo del Governo, Giovanni Giolitti, dovette rassegnare le dimissioni.

Ma torniamo ai debiti del Nord pagati dalla gente del Sud. Dati alla mano, Savarese sostiene che nel 1860 non c’era manco un «buco» nel bilancio del Regno di Napoli. Anzi, quell’anno era previsto un avanzo di quasi 314 mila ducati (circa 680mila euro attuali) che sarebbero stati destinati «ad opere per il porto di Brindisi, aiuti ai censuari del tavoliere delle Puglie, a bonifiche del bacino del Volturno».

Inoltre, i piemontesi avevano il «debito facile»: tra il 1848 e il 1859, il Regno del Sud aveva emesso titoli che costavano annualmente all’erario 5 milioni e 210.731 lire e 98 centesimi; mentre quello del Nord ne aveva per 58 milioni 611mila 470 lire e 3 centesimi. Quindi ogni cittadino del Mezzogiorno era gravato da un onere annuo di circa 55 centesimi per pagare gli interessi per i debiti dello Stato, mentre ogni abitante del Nord doveva pagare per lo stesso scopo 11,7 lire. Ogni piemontese pagava venti volte di più.

Con l’Unità d’Italia, il mastodontico debito pubblico dei Settentrionali si sommò al risibile debito pubblico duosiciliano e ai Meridionali toccò farvi fronte sotto forma di nuove tasse.

A proposito d’imposte e gabelle, grazie al barone Savarese (che era stato anche ministro sotto Francesco II) c’è la prova che, storicamente, sono stati i governanti del Nord i più propensi a spremere i contribuenti. Infatti, pare che, tra il 1848 e il 1861, Napoli non impose alcuna nuova tassa; Torino, invece, alle vecchie ne sommò 22 nuove.
Secondo Savarese l’errore di base era nei principi economici dei piemontesi che, a botte di tasse e debito pubblico, deprimevano l’economia. Invece, secondo lui «le risorse finanziarie dello Stato non bisogna cercarle né nel debito, né nei nuovi tributi, ma esclusivamente nell’ordine e nella economia. Perché veramente il miglior governo è quello che costa meno».

Parole (sante) d’un alto funzionario del Sud, barone e borbonico, di cui nessuno ha sentito parlare per quasi 150 anni.

"Chi" erano i briganti

marzo 1861: con la proclamazione dell’Unità d’Italia, si dà coronamento politico alla guerra vinta dagli eserciti franco- piemontesi. Il Regno delle Due Sicilie (che comprendeva anche Puglia e Basilicata) è stato battuto. La Penisola è conquistata ma l’Italia è «fatta» solo sulla carta. Il Sud è in rivolta e «Brigantaggio» è il termine (dispregiativo) con cui è stato definito il braccio armato dello scontento meridionale.

Ma «chi» erano i briganti? Difficile a dirsi, visto che stiamo parlando d’un fenomeno che è durato, mutando, per circa dieci anni. Briganti e brigantesse sono sì i braccianti affamati ma anche borghesi e ufficiali, ex-garibaldini delusi, fedelissimi dei Borbone e appartenenti al disciolto esercito di Francesco II. C’erano pendagli da forca, è vero. Ma anche idealisti. C’erano banditi che razziavano sventolando la bandiera bianca gigliata borbonica e ma anche combattivi esempi di ricostituito esercito «duosiciliano».

Sembra acclarato che loro alleati (e finanziatori occulti) fossero sia i reazionari borbonici, sia la Chiesa cattolica. Tantissime le azioni paramilitari che furono operate grazie agli ex ufficiali e soldati dell’Esercito delle Due Sicilie e numerose le insurrezioni popolari concordate e/o supportate. Ma anche le stragi, le torture. Come le sevizie patite da 16 giovani Cavalleggeri di Saluzzo catturati dai briganti vicino Melfi il 12 marzo 1863. Soltanto sei di loro ne uscirono vivi. Il loro comandante, il milanese Giacomo Bianchi, ancora moribondo, fu decapitato e la testa esposta sul tetto d’una masseria per vendicare l’uccisione, avvenuta qualche giorno prima, di 9 briganti.

La situazione divenne così grave che, grazie alle pressanti richieste della Sinistra, nel 1863, fu istituita una commissione parlamentare d’inchiesta sul Brigantaggio. Nelle conclusioni, pur riconoscendo che era la miseria dei contadini ad alimentare il fenomeno, si decise di usare la forza. Il 15 agosto 1863 con la Legge Pica (rimasta in vigore fino al 31 dicembre 1865), il Sud fu letteralmente preso d’assedio. Furono inviati oltre 120mila soldati. Vennero istituiti tribunali militari. E rastrellamenti di massa, per acciuffare i giovani maschi meridionali renitenti alla leva obbligatoria piemontese.

Decine gli eccidi, di cui resta traccia negli Archivi statali e comunali. Città e paesi venivano conquistati e liberati ora dagli uni, ora dagli altri. Guardia Nazionale, Regi Carabinieri, Bersaglieri fucilarono migliaia di briganti. Spesso si facevano fotografare con le loro «prede» dagli occhi sbarrati. I corpi senza vita, anche di brigantesse (come Michelina De Cesare che fu esposta nuda; si vedano le foto in questa pagina), venivano sistematicamente mostrati nelle piazze, come monito. Fu vera guerra. Guerra fratricida. Così si «fece» l’Italia.

MARISA INGROSSO