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Gioventù Studentesca così don Luigi Giussani svelò alla Chiesa il valore dell’ esperienza.

Oggi a Bari (ore 18, Aula Magna del Palazzo Ateneo), sarà presentato il libro di Marta Busani, «Gioventù Studentesca. Storia di un movimento cattolico dalla ricostruzione alla contestazione. Con l’autrice, interverranno Eugenio Capezzi, Gaetano Piepoli e Costantino Esposito.
 

Ci sono fenomeni storici che meritano di essere ricostruiti e conosciuti non solo per comprendere più a fondo il nostro passato, ma per affrontare con più consapevolezza le sfide del presente. Un recente, corposo libro di Marta Busani è dedicato alla storia di «Gioventù studentesca» (Studium ed.), un mo­vimento nato a Milano nell’immediato dopoguerra, nell’alveo dell’ Azione cattolica, e rifondato tra il 1953 e il 1954 da don Luigi Giussani, e che almeno sino al ’68 costituirà uno dei fenomeni più nuovi e sfidanti all’interno della scuola e della Chiesa nell’epoca del Concilio Vaticano II. Negli anni ’50 don Giussani aveva infatti intuito la crisi che ribolliva al fondo dei progressi della «ricostruzione». La mentalità comune stava cambiando rapidamente, e la Chiesa non sembrava più in grado di incontrare con una proposta realmente persuasiva le giovani gene­razioni, nel loro ambiente specifico, la scuola. L’adesione al cristia­nesimo dei giovani, che pur frequentavano ancora le parrocchie o le associazioni tradizionali, rimaneva spesso formale. E ogni accettazione meccanica o tradizionale del cristianesimo portava inevitabilmente a sentire estranea la fede, «a causa dell’incomprensione dell’attualità del messaggio cristiano di fronte alle sfide del vivere». Com’è possibile aderire ragionevolmente al cristianesimo se esso non mostra di avere a che fare con la vita, con lo studio, con il lavoro, con le domande più radicali di significato, con le questioni sociali? Proprio a partire dalla passione per gli studenti che incontrava, don Giussani ha provato a raggiun­gerli lì dove erano, entrando nei problemi e nelle discussioni con cui essi facevano quotidianamen­te i conti. Gioventù Studentesca (GS), infatti, non nasce a tavolino, ma dall’esperienza vissuta dal sa­cerdote insieme ai suoi primi alunni al liceo Berchet di Milano, che dettava un metodo educativo: «La presenza di Cristo nella vita dell’uomo del nostro tempo non arriva in modo storicamente ef­ficace se non come provocazione che perturba il modo di concepire la realtà». O la fede era riscoperta come una risposta all’altezza delle domande e delle esigenza più ra­dicali della vita, o sarebbe presto diventata superflua. Ma questa «risposta» era risco­perta nel suo fascino nella misura in cui ridestava le domande decisive sulla vita, sulla cultura, sulla società. Seguendo questo metodo, i ragazzi di GS cominciano a dialogare su quanto sentono a lezione dai loro insegnanti, fino ad approfondire i contenuti dello studio e a proporre pubblicamente delle «schede di revisione». Oppure provano a con­dividere le situazioni di povertà delle zone periferiche di Milano, aiutando i bambini e le famiglie in difficoltà. L’intuizione formidabile è che solo educando le persone potrà nascere, col tempo, un nuovo assetto sociale. E di fronte all’obiezione mossa a GS, che questo valesse ben poco rispetto ai veli bisogni dei poveri, si notava in un documento: «siamo stufi di chi dice “concreto” qualcosa d’altro dalla persona». In un momento in cui già emergevano i sintomi evidenti di una crisi epocale di evidenza dei valori cristiani, Giussani si rifiuta di partire da una riaffermazione dottrinale, ma sceglie di verificare se fosse nuo­vamente possibile l’esperienza da cui quei valori erano nati: Cristo è «l’unico genio, che ha colto bene tutti [i] fattori umani, che li ha fatti emergere, che ne ha rivelato il senso definitivo, valorizzandoli in modo impensato e imprevedibile». È sorprendente scoprire, nel corso del libro, l’insistenza con cui in Gs ci si appellava al desiderio e all’esperienza dell’io. «Esperienza» era ancora un parola scandalosa negli ambienti cattolici del tempo, al­larmati per il rischio di soggettivismo o di relativismo cui essa por­terebbe. L’allora cardinal Montini, il futuro Paolo VI, arrivò a scrivere a don Giussani che «quel primato dell’esperienza, teorizzato come as­soluto, non è ammissibile». Ed è proprio qui, invece, la novità me­todologica di GS: il tentativo di educare «l’individuo all’esperienza personale, abituandolo cioè a confrontare tutto ciò in cui si imbatte con un criterio personale»: un criterio che non è «arbitrio o opinione individualistica, ma misura oggettiva», possibilità di giudicare tutto con le esigenze di verità, di giustizia, di bellezza, di felicità, di significato, di amore. Se una persona non trova nella sua esperienza la conferma che il cristianesimo sia umanamente interessante, non saprà cosa farsene. Fu lo stesso Montini a notarlo, nella sua prima enciclica da papa (l’Ecclesiam Suam, del 1964): il cristianesimo «dev’essere un fatto vis­suto, in cui ancora prima d’una sua chiara nozione l’anima fedele può avere quasi connaturata esperienza». Uno sguardo inedito, insomma, rispetto ai consueti schemi ideologici, per capire la vera posta in gioco nella crisi del secondo ‘900. E anche in quella dei nostri giorni.

Costantino Esposito