Venuta meno la stucchevole retorica risorgimentale già dai tempi di Antonio Gramsci e Gaetano Salvemini, che fustigano a sangue lo Stato unitario borghese e classista, nessuno oggi “discredita” il Regno di Napoli negando i Primati che poteva vantare nei confronti degli altri stati preunitari, contrariamente a quanto asserisce Michele Eugenio Di Carlo sull’Attacco del 10 ottobre scorso.
È risaputo, infatti, che il Regno di Napoli ha costruito la Reggia di Caserta, oggi Patrimonio Unesco, in competizione con lo splendore della Reggia di Versailles di Francia, nel 1839 la prima ferrovia “italiana”, la Portici-Napoli, nel 1737 il Teatro San Cario dotato di 3500 posti, gioielli che con l’unificazione sono diventati “primati italiani”. Il Regno di Napoli ha avuto anche le più grandi acciaierie, le più grandi cartiere, i più grandi cantieri navali dell’epoca e le più grandi flotte, la mercantile e la militare, del Mediterraneo.
Il 51% degli operai dell’Industria di tutti e sette gli stati preunitari, anche se erano pochini, era concentrato nel Regno di Napoli. Il Banco di Napoli nel 1860 aveva una consistenza monetaria di 443milioni di lire a fronte di quella delle banche degli altri stati preunitari di appena 148 milioni.
Il Settecento napoletano, animato dall’élite illuministe che però dialogavano soltanto con il sovrano e non con il popolo analfabeta, fu glorioso: fu il secolo delle prime inchieste sociologiche dette statistiche, degli ondari, del Sovrano illuminato Cario III che odiava i feudatari e voleva ammodernare l’agricoltura, del ministro riformatore Tanucci e di tanto fervore culturale.
Tanti di quei Primati li elencò il garganico Michele Vocino nel 1959 nel suo libro “I primati del Regno di Napoli”, ristampato di recente dall’editore Grimaldi di Napoli, come ci informa sempre Di Carlo sull’Attacco del 10 ottobre.
C’è, però, il rovescio della medaglia del Regno di Napoli altrettanto risaputo e che si tende ad “oscurare” da una parte della pubblica opinione influenzata dalla pubblicistica neoborbonica. I viaggiatori stranieri del 7 e dell’800 definirono il Sud dei Borbone “un paradiso abitato da diavoli”.
Giacomo Leopardi definì Napoli, la capitale del Regno dei Borbone, “semibarbara e africana”. Inappellabile fu il giudizio negativo dato dal britannico Gladstone sul Regno di Napoli: La negazione di Dio. Il ministro Farini, mandato a Napoli da Cavour nel 1860 con il compito di sollevare contro i Borbone il popolo “liberale” di Napoli prima dell’arrivo dell’esercito del democratico e rivoluzionario Garibaldi, scrisse a Cavour : “Eccellenza, questa è Affrica e i beduini in riscontro di questi caffoni sono fior fiore di civiltà”.
Il governatore della provincia di Foggia scrisse nel 1860 al luogotenente generale in Napoli: “La popolazione agricola del Gargano è in una condizione di abbrutimento da non trovare forse riscontro in alcuna altra regione di Europa; essi (i contadini) sono trattati dai proprietari con una crudeltà ed avarizia peggiori assai di quelle che subiscono i neri d’America”.
Accanto, quindi, alla Borbonia Felix e ai Primati di Michele Vocino, nel Regno di Napoli c’era la vita quotidiana della popolazione tutt’altro che felix. Nel Regno dei Borbone l’analfabetismo sfiorava il 90 per cento, nel Nord Italia era al 60 per cento. Nel 1860, su 100 persone solo 10 al Sud e ben 40 al Nord sapevano leggere e scrivere. La statistica poi nascondeva una realtà ancora più sgradevole. In alcune zone del Sud, l’analfabetismo sfiorava il 100%, mentre in altre si attestava sull’80%.
Facendo la media risultò che in tutto il Sud l’analfabetismo era del 90%. E così la Statistica regalò in alcune parti del Sud il patentino di lettore al 10% della popolazione che era analfabeta. La ferrovia Portici-Napoli lunga qualche chilometro era l’unica esistente al Sud, mentre nel Nord erano stati costruiti dopo il 1839 ben 2 mila chilometri di “strade ferrate”. Nel Regno di Napoli non esistevano scuole pubbliche. Con l’istruzione-dicevano i Borbone – i sudditi avrebbero potuto avere grilli per la testa e mettere in discussione l’ordine costituito, meglio tenerli nell’ignoranza. Pertanto, i Borbone non costruivano scuole e per tenersi buoni i sudditi imponevano poche tasse e molto basse, non resero obbligatorio il servizio militare, erogavano sussidi caritativi ai più bisognosi, offrivano feste al popolo e forca a chi era politicamente pericoloso.
Siamo nel Regno felix delle tre F: Farina, Feste e Forca. Con i pochi soldi ricavati dalle tasse, i Borbone – ammesso che lo avessero voluto – non erano in grado di costruire scuole e neanche strade e ponti, per cui vasti territori del Regno, isolati e distanti dalla Capitale, vivevano ai margini della civiltà.
I feudatari e i latifondisti che avevano un po’ di soldi, non li investivano in agricoltura per migliorare la produzione, ma li spendevano in Napoli in carrozze, servitù e costosi abiti per frequentare la Corte del Re, trascurando i loro terreni affidati a curatoli spesso disonesti. La religione faceva da supporto al trono predicando la rassegnazione di fronte alle avversità della vita perché “così vuole Dio”.
Una polizia spietata, specie dopo il 1848, perseguitava e metteva in galera chiunque professasse idee liberali, anche se non metteva in discussione l’esistenza della Monarchia che la si voleva solo costituzionale: elezioni politiche e un po’ di libertà di stampa.
Nel 1861, l’Italia unificata era la nazione più povera d’Europa dopo la Svezia e la Russia. Il Sud, essendo più povero del Nord Italia, era anche più povero della Svezia e della Russia. Gli abitanti dell’ex Regno di Napoli erano “gli ultimi” in Italia e in Europa, certamente non per colpa dello Stato italiano appena nato.
All’atto dell’Unità d’Italia, Napoli aveva 600 mila abitanti. Fino al 1880, i privilegiati in Napoli – ricchi e ceto medio -erano appena 10 mila: nobili ex borbonici e liberali, proprietari terrieri, liberi professionisti, commercianti, impiegati statali e comunali che vivevano in palazzi e avevano il diritto di voto, mentre tutto il resto della popolazione si arrabattava e viveva in miseria in tuguri senza servizi igienici (P. Magry in Quaderni storici, 1984, il Mulino). I responsabili di questo stato di cose non erano mica i Piemontesi conquistatori.
Quelli sono stati i primati che hanno “screditato” il borbonico Regno di Napoli, non la storia scritta dai vincitori, come pensa Di Carlo, anche se in passato quella storia non parlava dei primati napoletani studiati da Vocino, accennava a malapena alla brutta pagina del brigantaggio negando la sua matrice sociale e politica e riducendolo esclusivamente a fenomeno delinquenziale e inneggiava in continuazione agli ideali del Risorgimento e ai suoi artefici Mazzini, Garibaldi e Cavour per creare su quegli ideali la coscienza nazionale degli Italiani. Fatta l’Italia, bisognava fare gli Italiani inneggiando retoricamente al glorioso Risorgimento.
La Rivoluzione napoletana del 1799, alla quale si fa risalire l’origine del Risorgimento italiano, cacciò da Napoli i Borbone, ma capitolò dopo pochi mesi di fronte alle orde del cardinale Ruffo perché fu passiva, disse Vincenzo Cuoco, non ebbe il sostegno e la partecipazione del popolo. I Borbone si vendicarono ferocemente, decapitarono 150 patrioti, il fior fiore della intellettualità napoletana, pardon italiana.
Anche nel 1860, il popolo bue e analfabeta del Regno di Napoli, che non capiva e non gli importava granché dell’Unità d’Italia, non avrebbe partecipato agli eventi che portarono alla formazione dello Stato italiano se non avesse avuto stimoli dall’esterno.
Fu, infatti, Garibaldi, che sbarcando a Marsala con i suoi Mille e attraversando la Sicilia e il Sud riuscì a mobilitare un popolo di miseri contadini promettendo la soppressione delle tasse, specie la odiata tassa sul macinato – soppressa e poi ripristinata – e la distribuzione delle terre demaniali ex feudali, una vecchia rivendicazione dei contadini meridionali che assistevano impotenti alla usurpazione di quelle terre da parte dei proprietari terrieri detti Galantuomini, sulle quali, perché non più feudali ma private, non potevano più esercitare gli antichi diritti d’uso civico: raccogliere legna, pascolare animali eccetera.
All’unità d’Italia, com’è noto, si opponevano la Francia e lo Stato Pontificio che era presidiato da truppe francesi. Garibaldi, conquistata Napoli, realisticamente “donò” il Sud liberato dai Borbone a Vittorio Emanuele re di Sardegna, in quanto quello Stato sarebbe stato in grado di contrastare con la forza del suo esercito regolare Francia e Stato Pontificio qualora si fossero opposti militarmente all’Unità d’Italia.
Il nascente Stato italiano dei Savoia sarebbe stato liberale e costituzionale, non tirannico e feudale come era stato il Regno dei Borbone. La Monarchia unì gli italiani, la Repubblica li avrebbe divisi, disse il repubblicano e garibaldino Francesco Crispi. Furono quindi Garibaldi e il Sud gli artefici principali dell’Unità d’Italia, mentre Cavour che temeva più i garibaldini che i borbonici e non conosceva il Sud – conosceva Firenze ma non Napoli né Palermo – sognava un Regno di Sardegna allargato al Nord Italia e fu costretto dall’azione di Garibaldi ad adeguarsi alla nuova realtà politica.
Quando le promesse di Garibaldi furono tradite dallo stesso Garibaldi, da Cavour e dalla classe dirigente risorgimentale con le tasse che non diminuirono ma aumentarono – il debito pubblico del neo-stato era alle stelle e si aveva un impellente bisogno di denaro e con le terre demaniali che non venivano distribuite, lo stesso popolo dei contadini meridionali che aveva visto in Garibaldi la possibilità di vedere migliorate le sue misere condizioni di vita si scagliò con ferocia contro i Galantuomini, i liberali di ogni paese che idealmente rappresentavano il nuovo Stato anch’esso oppressore e contro chi li difendeva: Guardie Nazionali locali e forze del neonato esercito italiano.
Si ebbe così il grande brigantaggio, causato dal feroce odio covato dai contadini verso i proprietari terrieri, i loro esosi padroni sfruttatori, dalla mancata distribuzione in loro favore delle terre demaniali ex feudali, dal rifiuto del servizio militare obbligatorio, dall’aumento delle tasse, dagli odi e vendette tra famiglie borboniche e liberali. Al brigantaggio approdarono anche soldati sbandati dello sconfitto esercito borbonico, evasi dalle carceri, delinquenti comuni e abituali.
Il brigantaggio assunse grandi dimensioni e si manifestò, è bene ricordarlo, con inaudita ferocia con estorsioni e uccisioni a danno dei liberali ricchi proprietari terrieri e poiché veniva finanziato dai Borbone e dal Papato tramite i comitati borbonici sparsi sul territorio assunse carattere politico mettendo in bilico l’unità della nazione appena raggiunta. Per stroncarlo, si rese necessario ricorrere da parte delle Guardie Nazionali comunali e dell’esercito italiano appena nato ad una repressione altrettanto feroce che, tra l’altro, vide la fucilazione di oltre 13 mila briganti (Domenico De Masi).
…Con l’unificazione, l’Italia divenne “un paese di successo”. (…) Era governata da principi di periferia e regimi autoritari e, in tempi brevi, diventa uno stato nazionale che si ispira ai modelli alti del liberismo costituzionale europeo. Si presenta nel 1861 come territorio decisamente povero e raggiunge, sul finire dell’800, il Pil pro capite dei tedeschi e degli inglesi. Non aveva alcuna voce in capitolo nel sistema geopolitico occidentale essendo frammentata in sette stati regionali -oltre che occupata, nelle regioni nord-orientali, dall’impero asburgico e già nel tardo 800 riesce a darsi il profilo di una nazione di media taglia e s’imbarca persino nell’avventura coloniale.
Nessun altro paese europeo può vantare un simile successo. Ma il successo non cade dal cielo e i fatti dicono che, in realtà, l’Italia nasce su un letto di spine (Paolo Magry, Unità a Mezzogiorno, il Mulino), come già si è detto, sia pure superficialmente.
Dopo l’unificazione, malgrado i successi conseguiti, il letto dell’Italia continuò ad essere di spine. Alla fine dell’800, il Pil del Sud Italia era sempre inferiore a quello del Nord Italia e non si avvicinava per niente al Pil di Germania e Inghilterra. Milioni di sempre miseri contadini emigrarono dal Sud verso le Americhe. Quell’esodo biblico scongiurò il pericolo di nuovi brigantaggi o di altre proteste politiche violente ma decretò la sconfitta sul piano sociale dell’Italia liberale e risorgimentale.
Del resto, il Risorgimento nacque “patriottico”: voleva unificare sotto la Monarchia dei Savoia i sette stati pre-unitari, liberare il Lombardo-Veneto dallo straniero, confinare il papa nella sfera religiosa e avere un mercato nazionale per la libera circolazione delle merci, non intendeva affatto attuare interventi di natura sociale come la riforma agraria per scongiurare disastri come il brigantaggio o l’emigrazione di massa. Le idee repubblicane e “soialisteggianti” di Mazzini e Garibaldi vennero sconfitte. L’Unità d’Italia, accanto ad eroi e uomini di stato, ai pochi nobili, borghesi e studenti, ebbe inaspettatamente come protagonista, sia pure con la barbarie del brigantaggio, anche il sempre bistrattato popolo minuto del Sud che anche in seguito a fatica ebbe voce in capitolo nella storia d’Italia.
Nella seconda metà degli anni 70 dell’800, la questione meridionale evidenziata drammaticamente dal brigantaggio ebbe immediati riflessi anche sulla letteratura. Da Capuano a Verga, da De Roberto a Pirandello, fino a Tornasi di Lampedusa, la letteratura denunciò l’immobilità sociale e politica dell’Italia.
Fu faticoso per i partiti operai e le leghe sindacali trasformare la violenta protesta popolare e il massimalismo insito nelle classi subalterne in lotta politica democratica in uno stato come quello italiano che riconosceva il diritto di voto solo a 400 mila ricchi cittadini su una popolazione che nel 1861 era di 22 milioni. Lo Stato italiano nacque costituzionale ma su basi elitarie, conservatrici e reazionarie tanto da sfociare nel fascismo.
Dopo l’unificazione territoriale, l’Italia per altri 50 anni si presentava sostanzialmente ancora divisa. Divisione non solo regionale e linguistica ma anche e soprattutto economica, sociale, morale. L’aristocratico Stato liberale con il diritto di voto riservato solo ai ricchi e lacerato dai contrasti tra Destra e Sinistra tenne il popolo lontano dalla vita dello Stato. L’Italia, pertanto, appariva al popolo ancora una identità astratta, teorica. Fino alla prima Guerra mondiale tra le masse poco politicizzate ed istruite mancava il senso dello Stato, visto come nemico che imponeva tasse e servizio militare e non offriva servizi.
… Non disdegnò, però, lo Stato italiano “di media taglia” di scoprire il popolo gli fece comodo e di scagliarlo nella Grande Guerra. Solo così, con la carneficina di un milione di morti tra morti in guerra e quelli per l’epidemia della Spagnola, il popolo del Sud scoprì di essere italiano, di avere una patria.
Dopo la Grande Guerra, il fascismo, nato dal malcontento di sei milioni di reduci, contadini e piccoli borghesi, verso la classe politica che non distribuì la terra ai contadini e non creò lavoro come demagogica mente aveva promesso ai soldati in trincea ed anche perché gli Stati Uniti d’America avevano bloccato l’emigrazione, volle dare all’Italia un impero coloniale trasferendo in Africa specialmente contadini e disoccupati del Sud nel tentativo di risolvere la questione meridionale. Nello stesso tempo, Mussolini assegnò al Sud la medaglia della natività perché era impensabile avere un impero con la madrepatria senza figli! Ma l’impero, spazzato via dalla seconda guerra mondiale, non risolse i problemi del Sud.
Il divario socio-economico tra le Due Italie dopo 150 anni e più di vita unitaria ancora persiste, anche se è stato attenuato verso la fine dell’800, all’inizio del 900, nel Secondo Dopoguerra dalle rimesse degli emigranti, dal “miracolo economico” arrivato con la ricostruzione postbellica, dal calo demografico, dai benefìci dello “Stato sociale”, dai proventi del turismo. I giovani del Sud ancora oggi continuano ad emigrare verso il Nord e i paesi europei e non essendo sposati i loro risparmi non arrivano più in famiglia, nel Sud. Il Sud cresce e fa studiare i propri figli e a beneficiare del loro lavoro sono il Nord e i paesi esteri.
Negli ultimi 10 anni il Sud ha perso circa 2 (due) milioni di abitanti ! Tutti gli interventi messi in essere a favore del Sud dallo Stato repubblicano con le leggi speciali, la Cassa per il Mezzogiorno, i Contratti d’area, che prevedevano un fiume di finanziamenti statali a fondo perduto, agevolazioni fiscali e quant’altro non hanno dato al Sud l’industrializzazione ma solo “cattedrali nel deserto”.
Il divario tra Nord e Sud, all’origine dovuto alla diversità dei loro tenitori, continuò ad esistere anche a causa delle deficienze della classe dirigente, politica ed imprenditoriale, del Sud, come impietosamente scrisse Giustino Fortunato: La classe dirigente meridionale “è fiacca, disgregata, indifferente, pettegola, sospettosa; vuol vivere in pace, oziosamente, di rendita, non ha fede, né carattere, non ha sdegno né amori; rifugge tuttora dagli obblighi di coltura e di socievolezza imposti dai nuovi ordini politici”.
Sono, però, sempre bravissime le classi dirigenti del Nord e del Sud nel favorire più lo sviluppo economico del Nord e meno quello del Sud, nell’uso politico della malavita inaugurato dal ministro Liborio Romano fin dai tempi dell’Unità d’Italia, nell’uso clientelare del corpo elettorale istituzionalizzato dal padre della patria liberale Antonio Giolitti, nel praticare clientelismo, evasione fiscale e corruzione su vasta scala, nel combattere la disoccupazione con l’emigrazione, nel rendere il lavoro flessibile, precario e non tutelato, nel depotenziare il potere giudiziario a scudo dei potentati economici.
In ogni modo, pur tra stridenti disuguaglianze sociali e con un enorme debito pubblico che le impedisce di destinare risorse in lavori pubblici e infrastrutture, l’Italia repubblicana è diventata una potenza industriale di prim’ordine.
È però evidente che non saranno la riscoperta dei Primati del Regno di Napoli di Michele Vocino, le invettive contro i Piemontesi colonialisti, le simpatie neoborboniche dei vari Pino Aprile (e Michele Di Carlo), i folcloristici festeggiamenti (siamo alla 180esima edizione!) per l’inaugurazione della ferrovia Portici-Napoli, gli studi storici, accademici e non, sui briganti precursori della rivoluzione proletaria o sulla ferocia della loro repressione da parte dell’esercito italiano e neanche le prediche di papa Francesco a risolvere la questione meridionale, a debellare i primati negativi dell’Italia di oggi.
Tommaso di Jasio
l’attacco