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Vieste/ Tentarono di uccidere boss Raduano: condannati due cugini. Le intercettazioni: “Gli ho sparato e non l’ho preso, s’è bloccato il fucile altrimenti lo avrei ucciso”. (3)

Prima comandava Marco, gli ho sparato. Mo’ voglio comandare io. Non è morto e sia­mo rivali, quello da una parte e io sto da un’altra. Quello dà fastidio a chi sta vicino a me, e io do fastidio a chi sta vicino a lui». Per Dda e investigatori le frasi pronunciate a luglio 2018 da Giovanni Iannoli mentre parlava con un familiare senza sapere della microspia piaz­zata, sono una confessione del suo coinvolgimento nel tentato omi­cidio del capo clan rivale Marco Raduano, rimasto ferito ma sfug­gito alla morte a Vieste la sera del 21 marzo 2018. Sono le intercet­tazioni la prova principale in ma­no alla Dda nel processo che si è celebrato con rito abbreviato a ot­tobre davanti al gup di Bari, ai cugini Giovanni e Claudio Iannoli condannati a 14 anni e 6 mesi a testa per il tentato omicidio del presunto capo del clan rivale.

L’accusa ipotizza che i cugini Iannoli abbiano cercato di ucci­dere Raduano in quanto temevano a loro volta d’essere eliminati. «Gli ho sparato» ha detto Giovan­ni Iannoli in un’intercettazione «perché quello mi ha detto che dovevo andare a lavorare, che io non dovevo fare più niente.

Cioè lui mi aveva dettato le regole a me e di che non dovevo fare. Poi mi ha visto che mi sono avvicinato a Claudio e hanno detto: “chissà quei due che stanno organizzan­do, mo’ li dobbiamo uccidere”. E allora prima che ci uccidevano lo­ro a noi, ci abbiamo provato noi e non ci siano riusciti. Ecco qual è il discorso, te l’ho già detto sette vol­te e non lo vuoi capire».

Raduano raggiunto a spalle, gluteo e mano dai colpi esplosi da un mitra e due fucili esplosi da tre killer appostati sotto casa della vittima, se la cavò perché un’arma in mano ai sicari si sarebbe inceppata. Come emergerebbe da un’ulteriore intercettazione di Giovanni Iannoli che confidando­si con una persona, a luglio 2018, quindi quattro mesi dopo l’aggua­to fallito, disse: «Così stanno i fatti. Sono andato alla casa» (di Radua­no per l’accusa) «e gli ho sparato e non l’ho preso.

Si è bloccato il fu­cile, se no l’avrei ucciso, capito? Perché a prenderlo lo abbiamo preso, no al centro, l’abbiamo pre­so di striscio. Se n’è scappato, ecco il morale della favola qual è. Se­condo te perché è morto Gianmarco?» (con riferimento all’omicidio Pecorelli del 19 giugno 2018, lo stesso Gianmarco Pecorelli era so­spettato dalla Dda e dagli inve­stigatori d’aver preso parte al fe­rimento Raduano insieme ai cu­gini Iannoli) «Perché lui sa che sta da quell’altra parte, hai capito? Quello lui è una bandiera, noi sia­mo un’altra bandiera, siamo due bandiere diverse».

In un’altra intercettazione sem­pre datata luglio 2018, Giovanni Iannoli si sarebbe rammaricato del fatto che Raduano scampò alla morte («là se andava bene mo’ era tutta un’altra cosa»); e della mancata presenza nel commando di un killer esperto al suo fianco: «se viene una persona pratica, se vie­ne un cristiano pratico, è diverso.

Là non è che ci voleva un pro­fessionista, però ci voleva sempre un cristiano pratico perché il fatto è quello che è: la distanza era da qua a là, era facile. Io sono arrivato vicino, da qua a là, che quel­lo ormai dove ca… doveva andare. Quando siamo arrivati fine, non sono andato più avanti, che do­vevo andare a fare? Quello che tenevo non funzionava più.

Poi quando me ne sono andato, cioè che non ci sono riuscito, piglia ed ha funzionato. No, non si era inceppata perché ho sparato due bot­te, e già non si capiva più niente, che quello già se n’era andato. Quando me ne sono andato che ho provato, è andato un’altra volta», e cioè l’arma ad agguato concluso e fallito aveva ripreso a funzionare. Eppure Iannoli l’avrebbe provata il giorno prima l’arma «e tutto era a posto».

gazzettacapitanata