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16 OTTOBRE/ SUICIDA

L’uomo è un prigioniero che non ha il diritto di aprire la porta della sua pri­gione e fuggire.

PLATONE

Sono diversi i significati di questa frase del Fedone di Platone, il ce­lebre filosofo greco. Noi ci soffermiamo sul senso più immediato, la condanna del suicidio: non per nulla Socrate in quel dialogo va incon­tro serenamente alla morte inflitta da altri, ma non la vuole accelerare con un gesto estremo che, invece, secoli dopo compirà Seneca, lo scrit­tore latino condannato a morte da Nerone. Certo è che dobbiamo ave­re sempre rispetto del dramma interiore di chi si toglie la vita. La Bib­bia stessa è estremamente sobria quando racconta queste tragedie: la descrizione del suicidio del re Saul o di Giuda, il traditore di Gesù, è affidata solo a una frase secca ed essenziale («Saul prese la spada e vi si gettò sopra … Giuda si allontanò e andò a impiccarsi»).

Rimane, comunque, il monito di Platone e quello di tutte le reli­gioni che considerano trascendente la vita e condannano chi con spregio ostentato (si pensi, ad esempio, alla «roulette russa») o per sfida (deliberato consilio, si diceva nel linguaggio morale latino tradi­zionale) si toglie la vita. Ma dobbiamo riconoscere che questa, per fortuna, è un’eccezione. Spesso si evade dalla vita per debolezza, per vuoto intimo, per estrema disperazione, per stravolgimento mentale. Il pensiero corre a Pier delle Vigne a cui Dante mette in bocca queste parole: «L’animo mio, per disdegnoso gusto, / creden­do col morir fuggir disdegno, / ingiusto fece me contra me giusto» (Inferno XIII, 70-72). In quell’istante solo Dio può giudicare e forse la­sciare alla sua creatura uno spiraglio di luce e di pentimento salvifi­co. Noi dobbiamo solo affidare a lui il suicida ed essere vicini alla immensa desolazione dei familiari.

Gianfranco Ravasi