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IL PLEBISCITO DEL 1860 E LE ULTIME FIAMMATE BORBONICHE NEL GARGANO

Avvenne il 21 ottobre 1860 “Le ultime fiammate borboniche”

Antefatto: L’8 settembre 1860 Garibaldi entra a Napoli; la famiglia reale Borbonica fugge; le popolazioni dell’ex Regno delle due Sicilie sono chiamate a ratificare col proprio voto l’annessio­ne al Regno di Vittorio Emanuele di Savoia attra­verso il plebiscito (suffragio maschile) che impo­ne di rispondere con un si o con un no alla do­manda: “Il popolo d’Italia vuole l’Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele Re Costituzionale, e Suoi legittimi discendenti?”

La reazione nei comuni del Gargano nel giorno del plebiscito – 21 ottobre 1860 nelle province napoletane-accade che insorgono non pochi comuni di Capitanata, tra cui Apricena, San Marco Lacatola, Vico, Foggia, Biccari, Trinitapoli, Roseto Valfortore, Ischitella, Accadia, Ascoli Satriano, Mattinata, San Severo, Accadia, San Giovanni Rotondo, San Marco in Lamis, Cagnano. La più feroce reazione si verifica, però, negli ultimi 4 comuni, tre dei quali sono nel Gargano.

A Cagnano la mattina del 21 ottobre tutto è pron­to perché si svolga il plebiscito. È domenica: “il reverendissimo canonico Michele Donataccio, fi­glio di Salvatore e di Donna Lucrezia de Monte, sale sul pulpito di Santa Maria delle Grazie e, do­po aver letto il vangelo di Luca, con calda e alata parola, annunzia al popolo lo storico evento [il vo­to di annessione al regno d’Italia]. Lo scandalo è enorme: fischi e urla altissime accolgono le paro­le del pastore, costretto dalla folla invasata ad abbandonare la chiesa e a barricarsi con i fratelli nel­la casa paterna”- fa sapere il canonico.

Il corteo, armato di spiedi, forche, asce, scuri, al­le ore dieci assale il corpo di Guardia Nazionale, distrugge gli stemmi di Vittorio Emanuele e di Ga­ribaldi e porta in processione per il paese il quadro di Francesco II e di sua moglie Sofia. È accompa­gnato da un immenso popolo e “tutte le donne che si appalesavano come tigri arrabbiate”. Verso mezzogiorno, mentre il Decurionato attende di raccogliere i voti nella casa del comune, irrompe la “classe bruta”, gridando “Viva Francesco se­condo”, e, tenendo alto lo Stemma e il vessillo bianco del Borbone, costringe “non pochi tra i buo­ni ed onesti cittadini a gridare uno ad essi “Viva il Borbone” – scrive al Governatore di Capitanata Gennaro De Monte, sindaco del comune. Il Decu­rionato, chiude le urne e va via. La folla si reca in chiesa e impone la benedizione e il Te Deum. Le urne portate in piazza vengono bruciate. In sera­ta la folla ritorna al palazzo del municipio e installa l’amministrazione borbonica. Francesco Farnese, sindaco di Carpino, allarmato dell’effetto onda  della sommossa di Cagnano sugli altri co­muni, chiede all’intendente l’invio di soldati per in­timorire i fautori della reazione.

“Il giorno 22 un gruppo di uomini si dispone intor­no alle mura di Cagnano per ostacolare l’arrivo di eventuali rinforzi, mentre la Guardia Nazionale si ritira. Poi la folla ripete il rituale del giorno precedente, con la variante di obbligare i galantuomini a scendere in piazza per manifestare insieme a fa­vore dei Borbone. La famiglia Donataccio si rifiu­ta, inasprendo i rivoltosi. Il giorno 23 si ripetono le medesime scenate e si fanno le stesse minacce. Il giorno 24 la folla, armata di scuri, spiedi e schiop­pi ferocemente gridando e minacciando, si dirige verso casa Donataccio, nel Casale, e blocca via Grillari e via Speranzella, gridando ‘Viva il Borbo­ne!’ Dal tumulto partono le prime fucilate che in­cendiano la porta”.

“Il signore Donataccio Salvatore, visto il grave pe­ricolo che corre la sua famiglia, si precipita con un materasso ad attutire l’incendio, ma nell’impresa una palla lo colpisce alla fronte e lo fa cadavere. A tale doloroso spettacolo il figlio del defunto Salva­tore, canonico Michele, armato, si porta all’altra parte dell’abitazione, sboccante in via Speranzel­la e, mirato dalla feritoia il più acceso tra la folla, lo uccide. Non è egli il primo frate che imbraccia lo schioppo in difesa di un ideale! Intanto i familiari del sacerdote mettono in salvo la madre Lucrezia che, verso i sentieri, raggiunge a fatica la via prin­cipale del paese per essere ospitata dai parenti. Sennonché, riconosciuta dai tumultuanti, è mi­nacciata di morte sul rogo. Molte mani si tendono verso la donna per mutare la minaccia in realtà, quando, il canonico Di Miscia Giuseppe, con in­gannevoli promesse, riesce a strapparla al furore popolare, mettendola in salvo nella propria abita­zione. […] Il desiderio di vedere bruciata viva don­na Lucrezia dirige la folla verso la via principale, li­berando per un attimo casa Donataccio, stretta da tenace assedio sin dalle prime ore del mattino. Ab­biamo così modo di allontanarci alla svelta”.

Il giorno 25, Michele, insieme al dodicenne fratel­lo Vincenzo, “percorrendo segretamente le vie campestri, armato di archibugio, si porta fuori dal­l’abitazione, in un podere di sua proprietà in contrada Bagno ove attende fiducioso i soccorsi in­vocati. È l’ora meridiana, la calura opprimente a causa del sole ancora alto sui colli della Difesa. Preso da gran sete, ordina al fratello di attingere acqua ad una fonte lì presso, per mezzo di corno all’uopo portato, e nell’inviarlogli rilascia per caso lo schioppo che aveva con sé. Ed è una grande provvidenza, poiché un porcaro, intento lì attorno a tagliar ramoscelli da un pero, fortemente meravigliato di non vederlo morto gli va addosso con scure, tosto morendo per l’arma di Vincenzo bravamente adoprata in propria difesa. Il popo­lo irrompe nuovamente in casa Donataccio e, trovato Salvatore morto sul letto, dov’è stato composto dai familiari prima di scappare, pren­de il cadavere e lo trascina brutalmente per le vie del paese, buttandolo infine nell’orto di San Francesco” [il corsivo è mio].

Nei giorni dell’ultima fiammata borbonica, viene inoltre arrestato, chiuso in carcere e infine graziato un altro liberale: don Giuseppe Pepe. “Sod­disfatte in tal modo le violente passioni, tutto ritorna in calma”.

Dei 61 arrestati (tra cui quattro donne), 36 sono riconosciuti direttori ed esecutori della sedizione e 25 rilasciati perché a loro carico non viene tro­vato alcun indizio di reità, mentre altre 10 perso­ne non vengono trovate.

Il numero è molto inferiore a quello dei fautori del­la reazione “che nel quarto giorno scagliavasi con tutto il suo peso sulla casa dello sventurato sì da richiedere la presenza di cento Garibaldini” – protesta don Vincenzo Donataccio, sacerdote, nonché testimone oculare e fratello del liberale ucciso. Egli, scrive, perciò, una lettera di suppli­ca al Governatore, invitandolo caldamente a fa­re luce sugli avvenimenti di ottobre, che hanno tenuto sotto assedio per 16 ore la sua casa e ap­piccato l’incendio di notte, costringendolo a ri­parare a Carpino e a lasciare in quell’apparta­mento che si affaccia su via Grillari suo fratello cadavere, sua cognata “vedova pregnante, e tre ragazzini”. Gli riferisce che la terribile reazione è stata favorita dalla tolleranza del Capo Naziona­le, dalle scelte inopportune del Giudice Regio e dalla famiglia Sanzone [quella che ha occupato più “parchi” a cavallo delle leggi eversive della feudalità] la quale fornì l’“esca”, somministrando cibi, vini e polvere da sparo ai reazionari [il corsi­vo è mio]. Gli sviluppi processuali però mostre­ranno esiti diversi da quelli sperati da don Vin­cenzo.

Per redimere la plebe facinorosa, ad ogni modo, le autorità del paese, vedendosi impotenti, chiedono aiuto a San Michele, venerato nella grotta che è a qualche km da Cagnano, e commissionano subito dopo l’esecrando crimine una statua nuova dell’Arcangelo, bianca, in pietra gentile di Apricena, copia identica a quella che si venera nella basilica di M. S. Angelo, e la collocano sul­l’altare maggiore della spelonca a lui intestata, dov’è tuttora.

A San Giovanni Rotondo la violenza di ottobre provoca la morte di numerosi liberali, “sparati freddamente dalla finestra del locale a piano ter­reno dove erano rinchiusi”, e il ferimento di altre persone sulle quali i rivoltosi infieriscono brutalmente. E’ agitata dai contadini che chiedono la quotizzazione delle terre e dai soldati del disciolto esercito borbonico che, non volendo ripresen­tarsi alle armi, trovano rifugio nelle campagne. Uniti ai fedeli della chiesa di San Giovanni e ai contadini armati di scure, il giorno 23 ottobre di domenica, impongono al sacerdote di cantare il Te Deum in onore di Francesco di Borbone, pic­chiano e disarmano la G. N., assalgono le case dei galantuomini. Ad alitare sulla plebe infuoca­ta è stato l’arciprete Ludovico Bramante, borbo­nico, responsabile dell’uccisione dei 24 padri di famiglia, tutti liberali, come attestano le carte de­positate presso la Gran Corte Criminale.

A San Marco in Lamis la plebe, che si è già data agli eccessi il 7 e l’8 ottobre, la mattina del 21 impedisce di votare agli aventi diritto perché sug­gestionata dalle parole del pontefice. A meno di un mese, “la plebaglia” minaccia d’insorgere di nuovo, va dicendo che per il 20 novembre non resterà vivo un solo galantuomo. Sotto il prete­sto politico si mascherano, secondo il sottogo­vernatore, “brame di saccheggio e di uccisione di persone agiate”, mentre l’impiegato della G.N. preoccupato supplica il sotto-governatore di “spedire subito forza costà”.

Lo stesso allarme viene segnalato da Rignano. A Sannicandro Garganico, dove la sommossa è presto repressa, il sindaco informa così autorità: “La mattina del 21 ottobre verso le 6 antimeri­diane. i campagnuoli, uscendo fuori dalla Chie­sa, dove avevano ascoltato la messa dell’auro­ra, avevano gridato ‘Viva Francesco II”! Appena erano giunte le Guardie Nazionali essi erano fuggiti. Uno di essi, Michele Centonza, era stato ar­restato. Verso le 5 p.m. dello stesso giorno però, mentre la votazione procedeva in tutta tranquil­lità, una pattuglia della Guardia Nazionale si ac­corgeva che alcuni pastori-campagnuoli, riuniti in piccoli crocchi tentavano di risollevare una sommossa reazionaria. Essi infatti, riunitisi a lar­go Colonna in vicinanza della Chiesa madre, avevano di nuovo gridato ‘la detestabile parola’ brandendo ‘stili e scuri’ di cui erano armati e lan­ciando pietre ai cittadini inermi. Respinti dalla G. N. i rivoltosi benché si difendessero strenua­mente con le pietre e con ‘gli scuri’ (avevano ti­rato anche due colpi di pistola) avevano dovuto arrendersi alle G. N. ed erano fuggiti per una stra­da che sporgeva nel vallone di Monte Vergine e si erano salvati dall’arresto. Erano stati arrestati i pastori Luigi Fortunato e Pasquale Cristino il quale aveva poi ferito una guardia a colpi di scu­re. La votazione però non era stata minimamen­te turbata. Il sindaco accusava di aver provoca­to questi sediziosi un tale Antonio Cavallo vaga­bondo ‘coverto di mille turpitudini’ e un certo Giu­seppe Fioritto che era un ancor più tristo indivi­duo”.

“Vico sta in aperta reazione e […] più di quattro­mila uomini risoluti capitanati dal detto Vincenzo La Bella, dal Sindaco, dall’Arciprete van gridan­do Viva Francesco II, morte a Garibaldi” – informano le carte di Polizia.

A Peschici al momento del plebiscito un buon nu­mero di cittadini sceglie la scheda contrasse­gnata con il “no”.

A Monte Sant’Angelo, quartiere generale del co­mandante Rebecchi, la reazione è più flebile e il referendum sull’adesione alla monarchia sa­bauda si svolge in modo ordinato.

A Vieste il plebiscito per l’unità italiana fomenta le guerre intestine che i piemontesi interpretano come episodi di brigantaggio.

Le prime avvisaglie nel Gargano

 Fino ai primi giorni di ottobre, manifestazioni a favore di Francesco II si erano avute a Peschici, Mattinata, Monte Sant’Angelo e Vico, dove al Calvario, era stata ritrovata una bandiera bianca sui cui erano state cucite quattro coccarde ros­se e una litografia della Madonna del Carmine ai piedi della quale si riconoscevano Ferdinando II, Francesco II e Maria Sofìa. Nel mandamento di Cagnano, la reazione manifestava i primi segni già nella seconda metà di settembre, allorché Paolo Giangualano, ex caporale del “Batta­glione dei Cacciatori ritiratosi senza regolare congedo, sparse la voce che la dinastia borbo­nica sarebbe presto ritornata nei suoi domini. A San Marco in Lamis fu evidente il 24 settembre, quando i pochi liberali scesero in piazza per una dimostrazione contro i Borbone, gridando “Viva Vittorio Emanuele, Viva Garibaldi” e innalzando il tricolore, e il 15 ottobre, con la presenza di cin­quemila armati reazionari. Ad Apricena la sera del 28 settembre nel largo chiesa madre, dove si ammutinarono oltre duemila tra “donne volgari, ed uomini di infima plebe, al grido di Viva Fran­cesco II”. Ad Ischitella il 19 ottobre. A Rodi Garganico, la reazione si verificò alcuni giorni dopo l’entrata in Napoli del generale Giuseppe Gari­baldi e la dimostrazione di gioioso consenso del­la popolazione liberale. A Carpino, che come Ro­di, aveva inizialmente accolto con entusiasmo la notizia dell’arrivo di Garibaldi e di Vittorio Ema­nuele, gli animi si turbarono quando presso il basso popolo cominciarono a circolare voci del ritorno dei Borbone. La sera del trenta settembre nella strada delle vigne vicino all’abitato si era gridato “Viva Francesco II, fuori Garibaldi, e Vit­torio Emanuele”. Sentendosi minacciato e im­potente, Ignazio D’Addetta, capitano provviso­rio della guardia nazionale, domandò al Gover­natore di fare giungere nel Gargano “qualche forza armata anche piccola dell’invitto neo Eroe Garibaldi, ed in mancanza anche una compa­gnia di Volontari” di cui abbondava il capoluogo di Provincia, nutrendo la convinzione che la pre­senza anche temporanea dei soldati sarebbe stata utile ad alimentare il senso di sicurezza, a dare coraggio ai “timidi” [liberali] e a fiaccare i “tri­sti e baldanzosi” [borbonici].

La forza secondo il capitano era necessaria per­ché il popolo garganico non conosceva altra vo­ce che quella della frusta:“Gli abitanti del Garga­no per quanto sono docili, altrettanto per la mas­sima parte sono ignoranti, niente istruiti di cose politiche, ed incapaci di conoscere il gran bene dell’Unità d’Italia, ed i vantaggi dell’attua e Go­verno: Sono essi educati nella degradante scuo­la della servitù, e non conoscono altre aee. che quelle imposte dal terrore del cessato Governo : Quindi prevalendo il timore sono facili ad essere agitati da qualunque menomo suggerimento; come sono facili ad essere compressi dalla pre­potenza della forza. Credo perciò utile anzi ne­cessario a consolidare lo Spirito pubblico, e pre­venirlo contro qualche maligno suggerimento, che girasse sul Gargano qualche forza armata anche piccola dell’invitto nostro Eroe Garibaldi, ed in mancanza anche una compagnia di Volon­tari, di cui abbonda cotesto Capo di Provincia”.

Esiti del plebiscito

I risultati dei plebisciti del 21 ottobre nel Garga­no e in Capitanata sono stati nel complesso po­sitivi:

  • Rignano 278/278 voti favorevoli;
  • Carpino 1441 si [sic!] e 48 no;
  • Vico 197/197 sì;
  • Peschici 166 sì e 104 no;
  • Rodi 364 sì e 4 no;
  • Ischitella 166 sì e 1 no;
  • Lesina 144 sì e 62 no;
  • Sannicandro 485/485 sì.

Mancavano le urne dei Comuni di S. Giovanni Rotondo e Cagnano dove era in corso la reazio­ne e a S. Marco in Lamis, dove il plebiscito non si era svolto per timore e minaccia.

I cittadini di San Marco in Lamis votarono l’an­nessione il 28 ottobre, quando “il comandante, certo Romano, per dire di avere fatto votare il po­polo, pretese ciascuno mettesse il sì al cappel­lo, e ai contadini disse il sì significare pace”, con l’esito di 3032/3032 sì. Quelli di Cagnano il 3 no­vembre, ricomposti gli animi e consegnati i re­sponsabili alla giustizia: erano 428 su 428 sì, su una popolazione di 5317 abitanti. A San Gio­vanni Rotondo si votò il 30 ottobre: 856 voti per il sì, 9 per il no.

Sono stati plebisciti-farsa, soprattutto perché i votanti si sono visti privati della segretezza. Nei seggi c’erano infatti tre contenitori: al centro era quella in cui inserire la scheda del voto prestampata, a sinistra il contenente delle schede per il “si” e a destra quello delle schede per il “no”. Tutti i presenti sapevano, perciò, cosa stava votan­do l’elettore.

Cause della reazione

Ad alimentare le sommosse dei comuni furono inoltre le faziosità interne alla classe dirigente – che covava vecchi rancori riconducibili spesso all’occupazione dei beni ex feudali ed ex asta ecclesiastici -, divisa tra borbonici protesi a con­servare lo status quo per difendere i propri inte­ressi e liberali cospiratori che tuttavia furono in­fine disillusi dal trasformismo, dalla inefficienza e farraginosità della macchina del nuovo stato, che finì con non cambiare nulla.

Secondo il sindaco Giuliani “Non motivi politici, ma di furto, di rapina, di vendetta privata erano alla base della reazione” bruta della plebe da se­coli stretta tra l’incudine dei ricchi, che le succhiavano il sangue, e il martello del clero che mi­nacciava le pene dell’inferno per tenerla soggiogata a sé: “Il Gargano nel cui centro si rattrova la mia patria, è popolato da uomini feroci per indo­le, ma mansueti fino alla docilità delle bestie da soma da lunghe oppressioni esercitate per via di superstizione dai preti e per l’altra, non meno ob­brobriosa, dall’usura e dalle angarie dei doviziosi cui torna sempre gradito il dominare sulla mas­sa perché s’impinguino le loro entrate succhian­do il sangue dei poveri bracciali”. In esso “uni­versale e radicato è lo spirito reazionario cagio­nato dalle intemperanze, dalle estorsioni, dalle violenze, commesse in nome della libertà, che avevano sacrilegialmente persuaso a quelle rozze e ignoranti popolazioni essere la libertà il peggiore dei flagelli”.

Oggi gli uomini e le donne del Gargano godono dei diritti a tutti riconosciuti, di un’istruzione più diffusa e di migliori condizioni {personale, eco­nomica e sociale): la stragrande maggioranza di essi, però, non ha abbandonato il modo di fare servile nei confronti di chi ha in mani le chiavi del potere e si lascia manipolare, tanto da fare sup­porre che la “cultura” abbia finito col modellare la “natura”.

Liberamente tratto da “Risorgimento Garganico, Il caso di Cagnano” (Bastogi, 2011)

Leonarda Crisetti Grimaldi

l’attacco