Carlo I d’Angiò, mentre preparava una possente armata per invadere la Sicilia e liberare il figlio Carlo, Principe di Salerno ed erede al trono, tenutovi prigioniero da Pietro d’Aragona, marito di Costanza di Hohepstaufen, si ammalò a Foggia e vi morì in età di anni 65. Da taluni si narra – ma è falso – che in stato di depressione per la prigionia del figlio si sia suicidato strangolandosi con un laccio. Prima del trasferimento della salma a Napoli, i suoi funerali furono celebrati a Foggia nel Duomo di S. Maria Assunta e le sue interiora, residuo dell’avvenuta imbalsamazione, furono in quel Duomo conservate in un’urna.
Fu Carlo un principe valoroso. Fratello di S. Luigi, Re di Francia, valoroso e a volte magnanimo, ma non esente da vizi, alto e robusto nella persona, bello di aspetto, dallo sguardo imponente, nei 19 anni del suo regno introdusse in Capitanata molte nuove istituzioni e diede alla città di Foggia, che anch’egli predilesse, molta magnificenza. Vi costruì un nuovo Palazzo resile, edificò monasteri, ampliò il Duomo, fece lastricare la città di pietre quadrate e diede migliore forma alle mura. Restaurò i pubblici studi e vi chiamò ottimi maestri a insegnare. Vi introdusse una nuova nobiltà franco, provenzale, nominò Cavalieri molti nostri concittadini e comprovinciali, cui conferì alti incarichi. Conservò le antiche leggi e ne introdusse di nuove, che, all’uso francese, chiamò “Capitoli”.
Ai professori e studenti dell’Università degli Studi di Napoli, da lui potenziata, concesse l’esenzione del Foro, li mise al riparo da ogni angherìa o pretesa di servitù personali, concesse la franchigia da imposte.
Roberto d’Angiò ebbi in tanta stima quei professori, da non disdegnare di recarsi a udirne le lezioni. Fu del resto egli stesso in cultore delle lettere e compose un “Trattato delle Virtù Morali” in vari 2 rime toscane, e alcune eleganti lettere latine a Gualtieri, Signore di Firenze.
In quei tempi l’Italia tutta ebbe pochi giureconsulti che potessero paragonarsi ai nostri Giacomo Capograsso, Bartolomeo Caracciolo, Andrea e Bartolomeo di Capua, Giacomo di Milo, Luca di Penne, Sergio Donnorso, Giacomo Frezza, Biagio Morcone, Andrea Rampini d’Isernia Napodano Sebastiano e Niccolò Spinelli, chiamati da Ugone Grozio “Optimi juris condendi magistri”. La teologia seguiva allora la filosofia aristotelica e l’innalzarono ad alte vette Tomisti e Scotisti.
Questi ultimi, seguaci di Giovanni Duns Scoto, rigettavano con sottili argomenti le dottrine dei seguaci di S. Tommaso d’Aquino. Fra i più celebri teologi si distinse Barlaam di Seminara, che insegnò il greco a Francesco Petrarca, al notissimo giureconsulto Paolo da Perugia e a Leonzio Pilato, il quale ultimo la insegnò a Giovanni Boccaccio. Fiorirono ancora il B. Angelo da Furci, Francesco e Pietro dell’Aquila, Matteo di Teramo, etc.
Nella storia si distinsero Bartolomeo Caracciolo, Domenico da Gravina, Nicola Speciale, Matteo Spinelli, emuli di Giovanni Villani. La poesia, per testimonianza di Francesco Petrarca, fiorì fra noi più che in ogni altro luogo d’Italia. Si distinsero Mario Barbato, Giovanni Barile, Tommaso Caloria, stimatissimo dallo stesso Petrarca, e Giovanni Noccia.
Il commercio fu molto protetto da Carlo I e II e Roberto d’Angiò, che emanarono provvide disposizioni, ma i favori accordati da Giovanna furono anche maggiori: pur nelle ristrettezze in cui versava, non permise che fosse imposto ai mercati alcun gravame. Questa franchigia fece accorrere in Capitanata da ogni parte un tal numero di negozianti forestieri che, per prevenire le discordie e le gare fra loro, fu necessario assegnar loro luoghi ben distinti. Tali contrade con vocabolo francese furono dette “rues”, catalana, francesca, genovese, provenzale, ragusea, toscana.
Dal traffici marittimi acquistarono fama Termoli, Vieste e Manfredonia. Molte delle loro famiglie nobili dovettero a ciò il loro ingrandimento e splendore. Notevole cosa è che, sebbene nel resto d’Italia fosse in vigore il prestito a usura, praticato specialmente dai nobili, a Napoli, a Foggia e in tutto il Regno angioino mai i nobili lo esercitarono, né mai ebbero il nome poco onorevole di “usurai”, da Sir Waler Scott attribuito ai Lombardi.
Quando primi quattro sovrani Angioini, Carlo I (1266), Carlo II (1289), Roberto (1309) e Giovanna (1344) successero Carlo III di Durazzo (1382), Ladislao (1386), Giovanna II (1414) e Renato (1438). Il Regno fu sconvolto e devastato da crudeli guerre. Quindi le lettere e le scienze non furono ugualmente esercitate. Tuttavia non mancarono del tutto. Giovanna II ebbe anche delle virtù, pur se fu preda di molti vizi. Amò grandemente la giustizia, riformò i tribunali e stabilì quanto più si conveniva a una retta amministrazione della giustizia, con minore spesa per coloro che a essa erano costretti a far ricorso. Fu per suo ordine istituita la Gran Corte della Vicaria, unificando così la Gran Corte istituita da Guglielmo I il Malo, competente in tema di affari privati, e la Gran Corte del Vicario, competente in tema di affari pubblici. La Gran Corte della Vicaria ebbe vita sino alla promulgazione della legge del 20 maggio 1808, con la quale questo tribunale venne abolito e furono istituite nuove corti di giustizia. Dalla stessa Regina furono fatte collezionare le leggi di procedura giudiziaria, intitolate “Riti della S. C. della Vicaria” e le altre dette “Riti della Regia Camera”, che prima non erano che usi “ab antiquo” introdotti e osservati. Giovanna li fece pubblicare e proibì l’osservanza di quelli non contenuti in quella collezione.
Fu notevole la Prammatica 1 “de Feudis”, chiamata “Filangiera”, che Giovanna emanò. Era morto Gorello Filangieri, Principe di Avellino, senza figli né fratelli. Si contendevano la successione nel feudo, “de jure Francorum”, la di lui sorella I Caterina e uno zio paterno, Filippo. E su questa questione molto si disputava tra i giusperiti di quel tempo. La Regina, sentito il parere di vari giureconsulti, decise a favore di Caterina, moglie di Ser Gianni Caracciolo. Gaetano Filangieri si dolse di tale Prammatica, che rovinò, così disse, la sua Casa, trasferendo ricchi feudi a quella dei Caracciolo.
Questa Regina istituì il “Collegio de’ Dottori”, per conferire i titoli di Dottore e di Licenziato, che prima erano rilasciati dalla Università Idegli Studi di Napoli: il che non fu introdotto negli altri Stati europei, a eccezione di quello pontificio con Innocenzo Pp. III.
Prima fu formato il solo “Collegio dell’Ordine dei Dottori in utroque jure”, per conferire i gradi di dottore o licenziato in diritto civile e in diritto canonico, e fu sottoposto al Gran Cancelliere del Regno, poi ne furono istituiti di simili per i filosofi e i medici. Quindi ne fu aggiunto un terzo per i teologi. Anche questi Collegi furono sottoposti al Gran Cancelliere. Fu con la legge del 20 – novembre 1811 che questo nobile diritto fu restituito alle Università degli Studi, con l’abolizione dei Collegi.
Fin dal tempo del Re Roberto gli ordinamenti politici s’erano indeboliti e il Regno sembrava caduto nell’anarchia. Il brigantaggio proteggeva i latitanti e resisteva alla forza pubblica.
Ma il Conte di Minervino Giovanni Pipino, capo di una numerosa masnada, catturato dalla polizia giudiziaria, fu in Altamura fatto impiccare dal Principe di Taranto. Invece, nel breve regno di Carlo di Durazzo i delitti più atroci, i sacrilegi e i crimini più efferati si moltiplicarono a causa della loro impunità.
La medicina di quei tempi era fondata sui principi averroisti e coloro che la studiavano, invece d’investigare sulla natura e sulle cause dei malanni, sulla base delle osservazioni già fatte da Ippocrate e Galeno, si attardavano sui libri d’un Filario, d’un Isath e d’un Terfilo. Da questo mal vezzo si liberò e si distinse allora per primo il calabrese Niccolò Reggio. Si videro, con meraviglia della maschilista Europa, per la prima volta donne studiare ed esercitare la medicina: la Dott. Costanza Calende, la prima laureata al mondo in Medicina; Abella Salernitana, che compose in versi, secondo la moda del tempo, un trattato “De Atra Bile”; Trutula Ruggiero, che insegnò a Salerno, sua patria, e Foggia medicina e scrisse il “De morbis mulierum”.
Nella storia s’illustrarono Stefano Benedettino, Tommaso Loffredo e i due Luigi Raimo che compilarono gli annali dal 1250 al 1486.
Fra gli scultori e gli architetti si distinsero Tommaso Stefani junior, detto Masuccio II. Non meno celebri furono Andrea Ciccione e Giacomo de Sanctis. Ugualmente celebre fu Antonio Bambosio.
La pittura s’avviò alla perfezione con Nicolantonio di Fiore Angelo Franco, Antonio Solario, detto lo Zingaro, Filippo Tersauro e quel Maestro Simone, tanto ammirato da Giotto.
In molta gloria furono i tornei e le giostre, non disdegnasti da Carlo IJI e Ladislao, che anzi li praticarono. Questi giuochi si davano in occasione di pubbliche e solenni feste e a essi si aggiungevano musiche, cavalcate, danze, luminarie e cene. Pian piano si produssero i primi drammi, le farse, i misteri sacri e altri consimili spettacoli.
Il fuoco covava sotto la cenere. Umanesimo e Rinascimento bussavano alla porta.
Emilio Benvenuto