Il noto giornalista Matteo De Monte, sulla terza pagina del “Messaggero”, nel marzo del 1969, pubblicò un profetico reportage da Manfredonia, dove era stato inviato per approfondire la complessa questione dell’insediamento del petrolchimico ENI e i suoi risvolti sul turismo del Gargano. Anche il suo giudizio sull’ipotesi della creazione del Parco nazionale del Gargano è tranchant. Ringraziamo il prof. Giuseppe Maratea, ex Sindaco di Vico del Gargano e Presidente della Comunità Montana del Gargano, per averci inviato l’articolo che pubblichiamo integralmente.
Da qualche tempo si continua a parlare della creazione di un Parco del Gargano. Il progetto, se realizzato, porrebbe la premessa per sacrificare nel giro di pochi anni l’ultima grande faggeta d’Italia. Quanto è avvenuto a Pescasseroli, in Abruzzo, insegna che da noi i parchi nascono per le lottizzazioni e i sogni ingordi della speculazione.
Manfredonia, marzo
Tra Foggia e Manfredonia la terra è brulla. Avari corsi d’acqua sono stampati nelle argille, e sulle grotte bucate dalle mandrie sorgono piccole masserie del colore della sabbia. La strada, lucente, cerca il mare quasi con disperazione, sotto il gravare della luce, in uggia di un delirio di sole che si indovina anche d’inverno, quando i colori appaiono spenti, e il grigio cala come un velo dalle rocche di Lucerà dentro gli acquitrini di Zapponeta. Passiamo davanti alle grandi collegiate, di nobile fattura, e scorgiamo i vetri infranti, nell’apatia dell’abbandono. La resa dell’arte all’egoismo tecnologico comincia da Siponto, ma non è ancora bruttura: povertà e melanconia, raccolte attorno agli archi perfetti delle basiliche. L’arida civiltà del petrolio bisogna cercarla in riva all’Adriatico, dove s’aprono le 100 calette di Chiusa dei Santi. Qui L’ENI sta alzando le cattedrali dell’area, sottovento al massiccio del Gargano.
La statale devia in un trattura fangoso a ridosso del casamento dei novizi francescani, poi serpeggia lungo la costa, fino agli oliveti del barone Cessa. Un tempo doveva essere bello passeggiare o cacciare a cavallo in mezzo ai tronchi secolari, con l’occhio alla Marina e le brezze di Monte Sant’Angelo alle spalle. Il barone, mi dicono, non ebbe figli, e lasciò il feudo alle Opere Pie. Forse quest’olio di Macchia ha alimentato lampade e vite d’orfanelli, per due o tre generazioni. Alla Chiusa dei Santi venivano grossi arcipreti, in novembre, per sorvegliare il raccolto, con le tonache a mezza gamba e il vincastro in mano. Ora la pietà si incanala nei metanodotti, disdegna l’odore aspro dei frantoi, e annusa ammoniache e fertilizzanti. Credo sia giusto: ogni età ha la sua misericordia e i suoi afrori. Ciò non toglie che ci si possa rammaricare per la distruzione scientifica di 60 ettari e passa d’olivo, tanto più se vi sono leggi scritte che ne vietano lo scempio. Avrei voluto parlarne con don Nicola Angiulli, parroco di Santa Maria della Stella e presidente dell’Ente assistenza che ha firmato il rogito con i petrolieri, ma il buon sacerdote era dal barbiere, e non se n’è fatto nulla. D’altronde è concepibile un crete in conflitto con un Ente di Stato, e poi a difesa dei suoi poveri lumini, che oltretutto vanno a elettricità?
Nel folto della Chiusa è già entrato il deserto: la radura cresce simile a un atollo nell’incalzare dei bulldozer che levano gli alberi dalla terra, come le penne a una gallina. C’erano, al mio arrivo, un centinaio di piante con le radici contro il cielo, e i camion dai 6 piedi nero-gialli sul cofano, che aspettavano si compisse l’opera degli spaccalegna e delle seghe elettriche. Qua e là, a guisa di covoni, alzavano le cataste dei rami, fino alla spuma del mare, ed era uno spettacolo triste a guardarsi. Poiché indugiavo a seguire l’arrancare dei motori diesel per le pettate della Macchia, un guardiano armato di doppietta è uscito da un cascinale a darmi lo sfratto, e pervia di quel fucile tenuto a tracolla e di quella voce perentoria che invocava la proprietà privata, ho capito che in Puglia le baronie non moriranno mai, e Giustino Fortunato sarà sempre attuale.
Perché dunque L’ENI si è ostinato, nonostante le polemiche gli inviti di “Italia nostra”, ad alzare le torri della petrolchimica in una cittaduzza che viveva di triglie fresche, d’emigrazione e d’asparagi? All’origine, la responsabilità dell’impianto ricade sul metano di Biccari e di Candela. Le popolazioni hanno premuto per avere la fabbrica in casa, e il Colosso s’è arreso; alle insistenze dei parlamentari ha promesso 500 posti di lavoro (In realtà, con l’automazione ve ne saranno sì e no 250). Ma ha scelto Macchia come sede degli insediamenti, e nulla è valso a dissuaderlo. Manfredonia offriva il comprensorio di Siponto, dove già esiste un concentramento industriale sostenuto da due strade statali, da un aeroporto e dalla ferrovia. I terreni incolti, attorno, hanno un prezzo vile, e l’Adriatico è sempre a un tiro di fionda. La risposta dei tecnici è stata: “no”.
TRE NECESSITÀ
Le relazioni in possesso degli uffici stampa spiegano che l’Ente aveva tre necessità fondamentali da soddisfare, per dare vita a un complesso produttivo ed efficiente: i fondali per il porto, l’acqua da pompare e la struttura del terreno. Il porticciolo di Manfredonia, adatto alle barche da pesca, è proprio davanti alla Chiusa dei Santi; può essere ampliata con un braccio a mare di 1500 metri e dotato di fondali capaci di accogliere le “Liberties” e dopo una piccola operazione di dragaggio. A Siponto, invece, il porto andava costruito ex novo e bisognava fare i conti con i torrenti che smottano le vene di terra friabile a carattere alluvionale.
La giustificazione non fa una grinza, e poi a contestarla bisognerebbe essere geologi o capitani di fregata. Come fa un giornalista a misurare i pescaggi utili in 6 km di costa? Eppure le delucidazioni dell’ENI, a parte le spese superflue fatte altrove, hanno un debole: i venti e le correnti marine. L’Ente di Stato sostiene che vanno verso nord; gli uomini delle paranze giurano, invece, che la loro direzione prevalente è il sud. Noi siamo empirici e nella diatriba, ci scusi l’ENI, preferiamo dar retta a chi ha navigato per decenni in questi mari, e li conosce come le proprie tasche. Venti e correnti hanno la loro importanza. Quando il porto di Manfredonia sarà invaso dalle “Liberties” e dai trasporti da trentamila tonnellate, gli spurghi delle navi andranno alla deriva, come accade in Liguria, nel Tirreno e al largo di Bari. Chi salverà allora dai viscidi liquami i comprensori turistici di Mattinata, di San Menaio, di Rodi e di Peschici? Dice l’ENI: “La fabbrica è a ciclo chiuso; non vi saranno fumi né scorie. L’acqua verrà prelevata soltanto per raffreddare gli impianti e tornerà al mare pulita”. Dobbiamo crederci? Saremmo tentati a farlo: ormai le meraviglie della scienza sono infinite, perché non dovrebbe rimanere pura e limpida l’acqua salmastra che spruzza qualche pallina, sospesa in una torre d’acciaio? Ma nella storia del Colosso di Stato, purtroppo, c’è un punto nero che si chiama Panigaglia. Appunto, il disastro di Portovenere ci rende guardinghi, e ci induce a diffidare. Lo stesso discorso del “mare pulito “e dei “cicli chiusi” i nostri petrolieri lo hanno fatto 10 anni or sono ai poveri Liguri, che ora d’estate stanno a mollo nella nafta e nuotano nel bitume. Anche Portovenere, come Manfredonia, era un posto stupendo, con rocce da favola a picco sul mare. Panigaglia protestò, cercò di resistere, ricorse ai vertici della politica, Ma alla fine dovette piegarsi. Manfredonia, al contrario, non avrà neppure una scaramuccia da ricordare. Sei organi di controllo, provinciali e regionali, hanno dato il loro benestare alla petrolchimica prima della decisione del Comitato interministeriale per la programmazione. Della tardiva delibera della Giunta comunale non parliamo, per carità di Patria. La colpa dunque non è dell’Eni; se colpa esiste ricade per intero sulla politica del Mezzogiorno ancorata alle “regole” della vecchia provincia dura a morire. Il “campanile”, in Italia, è ancora in grado di decidere la costruzione di un porto o di ostacolarla. Un vescovo può ammorbidire un’Opera Pia, due parlamentari in lotta elettorale si appalesano carissimi nemici in pubblico e rimangono affabili amici in privato, scambiandosi il giuoco delle parti, a ogni mutar di fronda. La supremazia degli Enti nasce dalla debolezza e dalle acquiescenze dei controllori, che finiscono per tramutarsi in controllati.
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CONCORRENZA
Eppure L’ENI, a pochi chilometri in linea d’aria da Manfredonia, ha la baronia turistica di Pugnochiuso, con palazzi sulle grotte marine, suites fronte scoglio, cuochi francesi e servizio telefonico internazionale. Centinaia di chilometri quadrati di terreno da costruzione sono di sua proprietà e le villette continuano a spuntare nella piana, anche se rimangono invendute. Sulle prime si potrebbe pensare a un fenomeno di autolesionismo. Invece il discorso muore appena si guarda una carta geografica. Vieste è al riparo da ogni minaccia, in cima allo Sperone del Gargano. I liquami non la toccheranno mai. Il fenomeno allora si chiarisce alla luce di una operazione di selezione operata sul piano della concorrenza. La Petrolchimica a Manfredonia significa la liquidazione della spiaggetta a mare e degli impianti turistici di Siponto. I foggiani, d’estate, se vorranno bagnarsi e respirare un po’ d’aria vergine, dovranno ripiegare sul Pugnochiuso insieme agli inglesi, agli scozzesi e agli americani. Il progetto dell’autostrada Adriatica taglia fuori il comprensorio all’altezza di Mattinata: non c’è via di scampo. Le basiliche di Siponto non hanno avvenire. E Rodi, San Menaio, Peschici? A poco a poco languiranno soffocate dal cemento armato e dall’incoscienza di chi continua, certo in malafede, a concedere autorizzazioni a costruire case a sei piani sul filo della spiaggia, o grattacieli in cima alle colline. Su questo tratto di costa la lottizzazione ha toccato indici da baracca e chi prima è riuscito a vendere le terre a mare, s’è premurato di chiedere i vincoli panoramici nella fascia intermedia per valorizzare le zone a monte.
VECCHIO ADAGIO
Nella battaglia con Agnelli, che sotto Peschici ha creato un villaggio modello, rispettoso dell’ambiente naturale, con casine nascoste dagli alberi e tetti a botte, l’alluvione s’è schierata dalla parte dello Stato, fracassando strade e albergo. Mai intemperia ha convalidato il vecchio adagio che da secoli corre sulle bocche dei meridionali: “Piove con quel che segue”. Il turismo, in fase di introiti calanti, obbedisce alle leggi da giungla del colpo di spugna: ti cancello o sono cancellato, e non dà tregua. Ma il garganico che va a Pugno Chiuso a bere una coca Cola il pomeriggio della domenica, e cova con occhi teneri le veneri inglesi del mini-golf, queste cose le ignora. All’iniziativa privata che offre stanze affocate sotto i tetti a duecentomila lira al mese, in pieno agosto, la pianificazione degli enti contrappone il “tutto-mare” 8000 mila lire al giorno, aria condizionata esclusa. Chi potrà reggere al confronto, sulla distanza lunga? Pesca, sci acquatico, motoscafo, e ora anche la caccia, naturalmente in riserva: gli Enti non dimenticano nulla. Le pendici della Foresta Umbra scompariranno presto dentro le palizzate del “fortilizio della feria” e si tirerà d’inverno e d’estate agli ultimi caprioli del demanio forestale, come al Gran Paradiso si tira ai cervi o agli stambecchi: un tanto al pezzo. Ecco il disegno del Colosso, delineato da Manfredonia a Vieste. In questo viaggio abbiamo sentito parlare di “Parco del Gargano”, e la dizione oscura ci ha indotto a mettere le carte in tavola. Non siamo contro il turismo d’élite, ci mancherebbe altro. Il mondo, dal Magnifico ai nostri giorni, ha sempre avuto la stessa faccia. Sappiamo cosa voglia dire nella bilancia dei pagamenti l’oro straniero. Ma “l’egoismo tecnologico” deve avere una frontiera. Non si può spacciare un paese usando la prevaricazione. Creare un parco a Vico equivarrebbe a porre le premesse per sacrificare in 10 anni l’ultima grande faggeta che ha l’Italia. I parchi, da noi, nascono per le lottizzazioni, la gioia degli speculatori, e i sogni ingordi dei costruttori di residences con piscine. Pescasseroli, e quel che sta accadendo in Abruzzo, sono un grande insegnamento. La speranza, dunque, è che L’ENI si accontenti delle frange di Umbria, per i molti riposi marini dei baroni del petrolio. Ma si accontenterà?
MATTEO DE MONTE
CARTA D’IDENTITA’ DE MONTE
Scoperto dal grande Francesco Maratea, giornalista raffinato nel Messaggero padronale e tradizionalista degli anni’40 e ‘50
Matteo De Monte (Cagnano Varano 1920-Foggia 1984) entrò al «Messaggero» nel 1939. Era stato una scoperta di Francesco Maratea, pontifex maximus del giornalismo dell’epoca, e questo titolo lo faceva apparire come l’eletto destinato alla grande camera. Bisogna collocare la figura di de Monte in un «Messaggero» profondamente diverso da quello di oggi: un giornale padronale, tradizionalista, i corridoi silenti, l’obbligo della giacca e della cravatta, la preponderanza degli anziani. Nel 1956, in quella redazione de Monte era rimasto intrappolato a Budapest, in seguito all’entrata dei carri armati sovietici in Ungheria, nella stessa stanza dell’Hotel Duna con Indro Montanelli e Matteo Matteotti. Poi, de Monte uscì dall’Ungheria, si fermò a Vienna e di lì telefonò il “servizio”: un articolo sterminato che dilagava in prima pagina e continuava nell’interno. Il direttore, Sandro Perrone, volle fare uno strappo alla regola, e per la prima e ultima volta nella storia del giornale, fu pubblicata la fotografia dell’autore dell’articolo.
De Monte ebbe come maestri di giornalismo Francesco Maratea e Mario Missiroli. Viaggiò in Africa, Asia, Europa e America, in occasione di grandi avvenimenti della cronaca e della politica; dalla rivoluzione d’Ungheria al Congo, dalla crisi di Peron ai fatti militari di Algeria e delle Antille, fino agli ultimi avvenimenti dell’occupazione sovietica di Praga e della guerra tra Arabi e Israeliani. Vinse il “Premio Marzotto”, il “Bagutta”, il “Premio Internazionale Roma”, il “Premio per la difesa della Natura” del CNR. Giornalista colto, scrittore raffinato, elzevirista delicato, collaborò a numerose riviste e alla TV, portandosi sempre, dovunque andasse, il Gargano “dentro”.
(A cura di Giuseppe Maratea)
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