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OLTRE LA CREDENZA: VOCI «REMOTE» DI UNA TRADIZIONE CONTEMPLATIVA IN ASSENZA DI TESTIMONI

Anche in uno stato di otium non riusciamo a venir fuori dall’ottica del commercio (o neg-otium). Lo spirito capitalistico, il nostro, è impregnato della medesima logica del sacrificio giudaico: da un lato, Mosè e i capitribù offrivano in olocausto buoi per la dedicazione dell’altare, porta tra i due mondi; dall’altro, invece, sfruttiamo noi stessi in nome di un unico mondo, quello visibile, quello grossolano, quello economico… Ahimè, come sono intrecciati i due sacrifici da non riuscire a distinguerli! É forse questa la preghiera? L’inginocchiarsi di fronte a simulacri e chiedere loro alcuni favori? Il bisogno di sentirsi continuamente produttivi, fare qualcosa sempre in funzione di qualcos’altro, anche nei terreni spirituali? Pare che Dio mi ricompensi in seguito ad opere, tra rosari e processioni; pare che Egli sia un affarista – dov’è il Padre dell’amore gratuito? Così la Chiesa insiste sulla preghiera collettiva e sulla simultaneità dell’orazione dei milioni di cristiani (anche la connessione in rete diventa funzionale). Ma lo spirito dell’individuo si oppone e riaffiora alla mente un passaggio del Vangelo secondo Matteo in cui Gesù dice: «Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro». É chiaro come il Nazareno non stia parlando di una moltitudine di persone, ma di due o al massimo tre individui. É qui tra «me» e «te», non altrove, ma in mezzo.

D’altronde, se da un lato la Chiesa potrebbe gravare, in questo modo, sulla separazione tra terra e cielo, quindi tra l’uomo e se stesso, dall’altro, il «mondo» deride il potere della preghiera: una voce vittima di abusi e corruzioni nel corso della storia dell’uomo. Come se la realtà religiosa si esaurisse nella credenza di un avvenimento storico, come se credere o non credere determinasse l’ingenuo o l’astuto!

D’altra parte, credo, non è del tutto vero dire che Dio non necessita delle nostre invocazioni; ma, in effetti, i bisognosi siamo noi. A Lui spetta cercarci, a noi invertire la direzione dello sguardo; a Lui cantare, a noi ascoltare.

Parlare dell’«altra» preghiera, quella senza causa o destinatario, senza forme e senza nessun lineamento, quella senza parole, è quanto mi propongo brevemente di compiere. É la contemplazione o così alcuni iniziati preferivano chiamarla. Tralascio le altre religioni e mi soffermo sul cristianesimo, appunto sulla preghiera contemplativa: forse questa religione risulta essere per noi l’idioma più accessibile. “La contemplación es recibir” (la contemplazione è ricevere), dice la Mistica. Perciò, non discorreremo della bellezza del tramonto, per quanto meraviglioso possa essere questo fenomeno.

Non si desidera avere alcuna pretesa di maestria sull’argomento, ma, alle volte, rievocare gli «antichi» spiriti religiosi diventa quasi doveroso.

Paolo Giustiniani, eremita camaldolese, diceva ai suoi confratelli che la preghiera non ha oggetto, ma che la solitudine è sana se è presente l’amore per il prossimo. Cosa significa? É un paradosso nel linguaggio ordinario, ma di senso compiuto in quello contemplativo. Secondo i mistici, la preghiera non si rivolge ad una circostanza specifica, ma trascende il particolare per il generale, in quel silenzio che, allo stesso tempo, racchiude in sé ogni parte. Invero, il giardiniere riconosce che non ha nessun potere sui tempi di fioritura del ciliegio; non è di sua competenza decidere il destino delle foglie, quali di esse ingiallire e quali no. Il suo compito è prendersi cura dell’intero albero. Parimenti la natura della preghiera è tendere all’Assoluto, all’Eterno, all’Infinito, tale è la sua meccanica, perciò 2

ogni cosa finita pur conservando la propria essenza può esserle di ostacolo all’ascesa. Di conseguenza, gli oggetti di meditazione attraversati dalla preghiera, la cui forza travolge, sono privati di ogni contorno, perdono la propria forma, mentre i loro spiriti precipitano unitamente nella stessa valle, in un oceano insondabile. Dunque, non c’è distinzione tra loro quando sono perforati dall’orazione; come potrebbe, infatti, la preghiera conoscere preferenze? Se invece si indugiasse a passare oltre il corpo dell’«oggetto», esso si andrebbe a sovrapporre tra i due mondi, al confine, tracciandone una pesante linea di demarcazione. Con maggior forza accade quando l’oggetto è Dio, poichè non conoscendone l’immagine, ciascuno la fabbrica secondo i propri gusti sui quali si compiace.

Per contro, la preghiera contemplativa non si rivolge a Dio, ma è Dio stesso, nel suo eloquente silenzio. In altre parole, l’orante non fa preghiere, è in preghiera, è sempre presente in uno stato inamovibile di contemplazione. Tuttavia ciò non giustifica la sua inattività: il maestro inizia a meditare non appena levato dal suo zafu. Zelante compie le sue azioni quotidiane, con l’udito inclinato ai misteri, disteso come l’ombra di una rupe al meriggio. Non è forse per opera del sole se l’ombra incede?

Asserito che la preghiera sia Dio stesso, nella sua impercettibilità ed inintellegibilità, è bene aggiungere un’ulteriore affermazione, chiedendo aiuto alla teologia monastica: Dio – dice Odo Casel – è il soggetto della teologia, non l’oggetto. É una frase decisamente forte che cambia radicalmente l’approccio alla preghiera, vuol dire che non sono «io» colui che prega, ma è Dio stesso che prega in «me». Non molto più chiara, ma certamente più autorevole, è la testimonianza di un mistico islamico: «In verità io non posso prendere, poiché prendere è un’azione, e in me non c’è azione. Sei Tu Colui che prende, perché sei Tu l’Agente».

L’undicesimo capitolo del vangelo di Giovanni inscena il seguente incontro:

Lazzaro muore. Alla notizia dell’arrivo di Gesù, Marta, impaziente, gli va incontro implorando per la vita di suo fratello: eppure il suo Maestro, impassibile, non ha compassione delle sue grida. Maria, la sorella di Marta, invece, in questo drammatico quadro «stava seduta in casa», immota, in attesa… Solamente quando fu chiamata dal suo Maestro ubbidì, solo dopo il suo consenso «si alzò in fretta e andò da lui». Nel vederlo, Maria gli rivolse la stessa preghiera di Marta: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!». Ma l’effetto di queste parole fu diverso: esse erano sincere, poiché ubbidivano a costrizioni interiori, erano conseguenze di una pressione indomabile. L’apostolo ci dice che il Maestro si turbò e si commosse profondamente: avvenne così il miracolo.

Quando un maestro opera simili prodigi nel mondo della materia è solo per rendere testimonianza di un «altro» regno, per svelare ai molti il senso celato dalle forme. I mistici approvano: questo è nulla in comparazione alla metamorfosi dell’anima.

Maria non ebbe fede in Cristo, ma la fede di Cristo. Volendone dare una prova teologica, Odo Casel presta attenzione al concetto di fede in San Paolo nelle due lettere (Rm 3,21 e Gal 2,16): dove per molto tempo le traduzioni sono state errate, confondendo la preposizione «di» con la preposizione «in», così da alterarne, nel corso della storia, il concetto di fede. Nella religione cristiana, dunque, la fede non è in Cristo: è Cristo in noi. Cristo si commosse al suono della sua stessa voce; Maria fu un lago, uno specchio, nel quale il Logos, il Kyrios, «l’immagine del Dio invisibile» poté contemplarsi. La Sposa del Cantico dei Cantici si precipita per le strade alla ricerca del suo Sposo soltanto quando ormai, nel suo stato di follia, l’attesa diviene insopportabile. Così l’orante resta vigile per 3

non divenire egli stesso l’ostacolo con le sue smisurate litanie, per non ostruire il sentiero già battuto; vorrebbe invece dileguarsi, farsi muto in questo dialogo intimo tra Dio e Dio.

L’anima dice: l’attesa è divenuta insopportabile e il momento di uscire è arrivato. Tale è il linguaggio dell’anima contemplativa.

Meister Eckhart insegna a pregare come se non esistessimo in quanto creature, come nel principio, nel grembo, quando eravamo parte di un’unica Identità che non aveva nome, giacché nessuno avrebbe potuto chiamarla. Dice in suo sermone: «Dio si forma, dove tutte le creature esprimono Dio: là si forma «Dio». Quando io ero ancora nel fondo, nel terreno, nella corrente e nella fonte della divinità, nessuno mi chiedeva dove volessi andare o cosa facessi: là non v’era nessuno che mi potesse interrogare. Ma quando fluii all’esterno, tutte le creature dissero: «Dio»! Se qualcuno mi chiedesse: «Fratello Eckhart, quando venite da casa?», allora vi sono stato dentro. Così parlano tutte le creature di «Dio»».

Il contemplativo, seduto quietamente, riceve, è nutrito, e basta. Si dispone come il cliente dal barbiere e si fida della sua mano. La gola vede nello stato d’immobilità l’unico modo per sfuggire al taglio della lametta. Si dice che un invitato di buona creanza non esige che gli venga servito immediatamente il pranzo, ma aspetta il suo turno: ci saranno buone ragioni per cui è stato invitato. La spiritualità carmelitana chiama questa disposizione «attenzione amorosa», il che indica un rapporto tra la parte ascetica (l’attenzione), quella attiva, e la parte mistica, quella passiva (mi pare inevitabile cadere nella dicotomia del linguaggio). Ad ogni modo, tale disposizione è tutto ciò che concerne il nostro commensale. Nell’atto del ricevere, Dio contempla se stesso. Eckhart continua: «Nell’atto in cui gusta se stesso, gusta tutte le creature, non in quanto creature, ma le creature in quanto Dio». Nella preghiera contemplativa, come si diceva, non ha luogo l’«oggetto», né fabbricazioni di immagini, ma solo la presenza dell’orante nel suo desiderio di assenza. Anzi, l’oggetto si rivela uno scoglio nei mari della grazia, poiché l’individuo si allontana dalla Fonte, incantato nel mondo fenomenico, nelle sue molteplici realtà, avviluppato tra i sensi.

E allora: l’oggetto, il riferimento, l’appoggio meditativo non hanno alcuna funzione? Al contrario, hanno un valore inequivocabile: l’accrescimento del sentimento affettivo dell’orante. Secondo i mistici è il primo e principale nutrimento, precedente allo svezzamento. L’anima deve fare l’esperienza del «mondo». In altre parole, i sensi innamorano, gli occhi subiscono il prestigio dei colori e le narici il linguaggio delle rose; come trampolini slanciano i desideri e i pensieri verso l’Amato, velato tra i due mondi, tra due vite parallele, quella visibile e quella invisibile. Ma per l’innamorato gli alberi, i fiumi, i fiori, sono tracce, estensioni, effluvio di un altro reame; segni di altri alberi, di altri fiumi e di altri fiori.

Forse è per questo che il simbolo più amato dal contemplativo come rappresentazione dell’anima è il giardino, in cui il Signore «prende i suoi passeggi». Dove agli inizi il giardiniere fatica costantemente per irrigare il terreno e mantenerlo umido, attingendo 4

acqua dal pozzo, dal mulino e dal fiume, per poi finalmente riposare, giacché ad annaffiare il suo giardino ci penserà la pioggia.

Prima di concludere: se c’è ancora un senso nell’istituzione religiosa, non è certamente nella sua funzione di scambio – a quello già ci pensano i mercati economici – ma quello di lasciare respirare le anime, al di là della sua missione sociale. Di dare testimonianza, con silenzioso rispetto, di coloro che hanno fatto esperienza delle realtà spirituali; di coloro che sono parte dell’istituzione e di coloro che sono al di fuori, di chi è cristiano e di chi non lo è. Non è vana la predica di funzionari religiosi in assenza di testimoni? In realtà, il «religioso» e il «sacro» non sono monopoli dell’istituzione religiosa. La preghiera va oltre la credenza.

Che ci si possa abbeverare alla fonte per risvegliare l’uomo per vie individuali.

Gli «antichi» spiriti religiosi non parlano, tuonano per colui che ha l’udito pronto!

Raccolti, ciascuno come può, ognuno con se stesso, così si è veramente uniti.

Quaresima 2021

Francesco d’accia