Menu Chiudi

LE LEGGENDE DELLO SPERONE/ IL PONTE DI CUOIO DI GIUSEPPE D’ADDETTA (1)

Le prime ondulate pendici di Monte Gar­gano che si affacciano sulla sconfinata pia­nura del Tavoliere, sono dominate da una collina più alta delle altre, dal dorso ripi­dissimo appena macchiato di verde sul gri­gio cupo degli olivi che si arresta alla base.

Sulla sua vetta, una robusta torre qua­drata — che richiama le linee di quella dei Giganti di Monte S. Angelo — spazia ancora sul vasto orizzonte mentre sulla ristretta spianata d’intorno sono i ruderi di torrioni e di volte, di un tempio e di numerose piccole case e dei tre ordini delle mura di difesa.

Ora pochi e solitari pastori si spingono con i loro greggi fin lassù e si attardano fra quei resti muti nella solennità del silenzio che li circonda. Nella speranza di cogliere qualche voce antica e remota da quei massi anneriti dal tempo, da quella torre mozza, e di rintrac­ciare elementi che rivelassero il passato, vinsi anch’io un giorno l’asprezza del colle Impervio con alcuni amici animati dallo stes­so desiderio. Ma non scoprimmo nulla e fu appagata solo la curiosità di orizzonti nuo­vi; e il tormento della faticosa ascesa fu compensato dalla gioia di una infinita pace, nella solitudine immota di macigni e di rocce.

Però, mentre seduti sulle mura dell’an­tico castello diroccato ci offrivamo i viveri che dai sacchi man mano cacciavamo, sul sentiero appena tracciato di fianco al tor­rione d’oriente, apparve il volto incolto di un uomo, poi il torso coperto da un giub­bone di lanosa pelle d’agnello e quindi le gambe sulle quali scendevano abbozzi di cal­zoni di manto caprino. Da un vecchio ber­retto ricadente da un lato, di antica foggia locale, spuntava la sua canizie e con la de­stra si appoggiava ad un bastone rustica­mente intagliato.

Lo sguardo, grigio e penetrante, fu sor­ridente nel saluto; e, dopo qualche debole diniego, accettò il panino e il vino che gli si offriva.

Poi, quasi a scusare la sua presenza, con la cadenza lenta di chi è abituato a parlar poco e a non tener in gran conto il tempo, disse: Ero sulla montagna vicina, quella, — ed indicò l’attiguo colle, — quando vi ho visti scalare il dorso del monte e poi rag­giungere Castel Pagano. Ho pensato che an­che voi veniste in cerca del tesoro che, dicono, è qui nascosto e che mai nessuno è riuscito a trovare. Ogni tanto qualcuno s’af­fatica a scavare la terra, ad abbattere qual che muro, a sudare inutilmente, e poi si allontana deluso. Certo essi non sanno quel­lo che mio nonno mi ha raccontato per averlo a sua volta sentito dal suo, al quale lo aveva tramandato il rispettivo nonno.

Il vecchio pastore tacque e riprese il lento masticare. Ma era nato in tutti il de­siderio di conoscere il segreto di tanti nonni e, dopo un silenzio di attesa, uno di noi chiese al pastore di rivelarcelo.

Il pastore ci guardò uno dopo l’altro, quasi ad accertarsi che era in tutti la stessa voglia. Poi, con lentezza, tracannò il vino ancora nel bicchiere, gettò a terra le gocce rimaste nel fondo, come immanca­bilmente fa la nostra umile gente conti­nuando inconsciamente la tradizione pagana della libagione a Bacco, e nella solitudine solenne degli antichi ruderi ancora possenti, quasi isolati nel sole, ci raccontò la vec­chia storia tramandata dai suoi nonni.

òòòòòòòòòòòòòòòòò

Quel cucuzzolo dove noi eravamo, si chiamava, da molti secoli, Castel Pagano, perché un capo saraceno vi aveva costruito la fortezza ora diroccata, quando gli infedeli, circa mille anni or sono, erano venuti sulla nostra montagna, profughi dal Garigliano.

Allora erano tempi di gran disordine e non si sapeva mai con precisione chi co­mandasse, perchè le dominazioni si susse­guivano con incredibile frequenza. Ma quel colle era terra deserta; infestata da ser­penti e coperta da fitti sterpi, sui quali po­chi annosi alberi contorti si elevavano, rap­presentava la zona del terrore che nessuno osava violare. I pagani, usi ad installarsi sulle alture meno accessibili, tracciarono un sentiero nella fitta macchia e conquistarono l’altura. Ucci­sero molti serpenti, qualcuno di loro fu mor­so e perì avvelenato; ma alla fine raggiun­sero la vetta e vi costruirono una fortezza inespugnabile, a dimora del loro capo.

Moham era il suo nome ed era alto, bello e valoroso. Mai nessuno era riuscito a vincer­lo in combattimento. E la sua gente temeva la sua forza e l’adorava per la sua bontà. Ma, come tutti quei pagani, anche lui era un senza Dio. Aveva anzi il suo Dio, ma era un Dio falso e non il Dio vero, il no­stro Dio.

Il castello ebbe mura possenti, un alto portale dentato e la torre maestra gareggiò in altezza con la punta di un minareto. I guerrieri fuggiaschi, negli ozi, divennero, pastori; accrebbero il loro dominio su tutta la zona e sulle circostanti colline selvagge e quasi inesplorate, e ne facero il loro feudo sotto la saggia guida del loro giovine si­gnore.

Moham vagabondava spesso nel suo do­minio ricco di caccia, ma alla sera le torce che illuminavano le stanze deserte non riu­scivano a dar luce alla sua anima. Sentiva, pur fra i numerosi uomini, una solitudine senza nome ed un vuoto nel cuore che nulla riusciva a colmare. E che tristezza quel suo giaciglio solitario che non dava riposo!

Specialmente da quando i suoi uomini gli avevano detto che sulla collina di fronte spesso s’affacciava ai veroni del castello che la dominava, una giovane, bella e bionda come il sole e dolce come la luna; e vole­vano rapirla per offrirla in dono al loro signore.

Moham tenne però fermo l’ordine di non disturbare nè i vassalli nè i feudatari dei dintorni, perchè non si ripetessero gli epi­sodi del Garigliano, da dove la coalizione dei baroni, determinata dalle frequenti raz­zie dei pagani, li aveva costretti ad allon­tanarsi. Inoltre riteneva che il caso poteva essere poi ripetuto nei dintorni dei suoi uomini verso altre donne, e provocare quindi l’odio degli indigeni nei confronti dei nuovi venuti, mentre l’occupazione e la loro permanenza in quella terra erano ormai cose pacifiche, viste anzi di buon occhio per­chè in fondo nessuno era stato molestato e tutta la zona ne aveva beneficiato per lo sterminio quasi totale dei serpenti. Ma spesso volgeva lo sguardo oltre la valle che lo divideva dal colle dirimpetto, e nel manto verde che copriva l’altura si delineava un ovale biondo, con occhi grandi ed azzurri ed uno squarcio rosso, quasi san­guigno, come lo spacco di una melagrana. Ed un turbamento profondo gli invadeva l’anima e le membra ed il desiderio di ca­rezze dolci, di braccia bianche, di oblìi sen­za fine, gli sconvolgeva il cuore che prendeva a battergli forte come se volesse uscirgli dal petto. Quel suo cuore che non accelerava mai i battiti sui cavalli imbizzarriti o di fronte al nemico più minaccioso, era forse malato?’ Si malato, ma di un morbo che solo una bocca del colore e del profumo delle fragole poteva curare, per dargli nuova vita e nuovo vigore, per rinnovarlo ad ogni contatto e renderlo ogni volta più forte. E Moham de­cise di mandare un messo sulla collina di fronte per informare la principessa che, egli, Moham, capo dei saraceni di Castel Pagano, voleva renderle omaggio di buon vicinato nel giorno e nell’ora che lei stessa avrebbe fissato.     

òòòòòòòòòòòòòòòòòòòòòòòò

La piccola corte della principessa fu ra­dunata d’urgenza. Vi intervennero la for­mosa madre, vedova da qualche anno, lo zio zoppo e sbilenco che passava i suoi gior­ni a consultare vecchie pergamene ingial­lite, il maggiordomo fedelissimo che nella casa era nato ed il comandante della guar­dia.

Il quesito era grave. La visita di un infe­dele al castello non era gradita, perchè for­se vi avrebbe portato la scomunica; non si poteva d’altra parte rifiutare di ricevere il principe saraceno senza passare il pericolo di renderselo nemico. E come si sarebbe difeso il solitario e malandato castello della prin­cipessa, con i suoi pochi e maldestri armati, data l’imperturbabile pace che il defunto signore aveva voluto nel suo feudo?

Non fu lunga la discussione perchè tutti si trovarono d’accordo nell’ammettere l’even­to come una fatalità; e il messo fu rimandato con l’incarico di riferire al suo signore che nel terzo giorno successivo a quello, la principessa sarebbe stata lieta ed onorata di ricevere il valoroso capo saraceno. Nel castello intanto si diede principio ad un tri­duo di penitenza per chiedere a Dio perdono di quel grave peccato e s’iniziò il riordina­mento degli ambienti di rappresentanza, raramente usati. Spuntò il terzo giorno ed a mattino inoltrato giunse un messo al solita­rio maniero per annunziare che fra poco il suo signore, il potente e valoroso Moham, sarebbe arrivato. Parve al principe saraceno una visione di sogno quella figura di donna che attendeva ritta, alta, sorridente nella sala del trono. Ed egli non vide altro che un sorriso gioioso su una bocca di carminio, e gli occhi az­zurri e profondi nell’ovale perfetto incorni­ciato da una nuvola d’oro, come un’aureola sulla statua di un dio. Forse del suo dio Al­lah, perchè solo lui poteva essersi incarnato in quella meraviglia umana. Si impappinò negli inchini e nel saluto alla principessa, fece riverenze ridicole alla mamma, allo zio e ai dignitari presenti, cercò di far com­prendere i suoi propositi di buon vicinato, offrì oggetti del suo paese, gradì con visibile gioia i doni che gli si ricambiarono e dopo non molto tempo, rosso ed impacciato, prese congedo.

— Povero principe saraceno! … Era cot­to — come un cosciotto d’agnello arrostito allo spiedo!

Il vecchio pastore fece una pausa. Tra­cannò altro vino e si strisciò i baffi spioventi con il dorso della mano.

Nei volti degli ascoltatori era un leggero sorriso e l’ansia di conoscere il seguito della storia tramandata da tanti nonni.

* * *

Il pastore riprese.

Uscito dal castello della principessa, l’in­fedele, per qualche tempo, con gli occhi sperduti nel vuoto, cavalcò lentamente, le briglie abbandonate e curve, fin quando non giunse al piano.

Non si sa poi cosa gli prese.

Di scatto tirò le redini, fissò gli speroni nel ventre del cavallo e in una corsa pazza divorò la strada che lo divideva dalla sua rocca. Era tutta bianca di schiuma la po­vera bestia quando giunse alla fortezza. A distanza arrancava il seguito su per la scoscesa viuzza, ripida e sassosa, serpeg­giante sul dorso del monte.

Per diversi giorni Moham rimase chiuso nelle sue stanze. Non voleva vedere nessuno e trascorreva le ore dietro una finestra dalla quale si scorgeva il castello della principes­sa, senza parlare mai, come trasognato, con nel viso un’espressione di dolcezza e negli occhi lampi di desiderio. Povero principe saraceno! La principessa garganica lo aveva ammaliato. Io non so, ma mio nonno lo sapeva, quali pensieri e quali brame passarono in quei giorni nella mente e nell’animo di Mo- ham. Mio nonno morì che noi eravamo ap­pena adolescenti e già orfani; e quando ci raccontava questa storia saltava questo ca­pitolo.

  • Peccato! Sfuggì fra un sorriso ad uno di noi.

Anche il pastore sorrise, guardò a terra e .poi come risentito:

Non credete però che io non imma­gini quello che voleva in quei giorni il prin­cipe. Come quando ero anch’io giovane ed innamorato, pensava anch’egli agli occhi del­la sua bella, alla sua bocca tumida, alla sua carne bianca che aveva il profumo delicato e penetrante dei fiori di mandorlo appena sbocciati. E sognava le delizie del primo bacio tanto lungo come se non dovesse finire mai, e poi la follia di tutti i baci successivi con i quali avrebbe aspirato su tutto il corpo dell’amata il suo profumo di mandorlo e poi trine morbidi, giacigli profondi, carezze ardite, sempre più ardite e più intime, nell’ansia…

Un colpo di tosse di uno dei nostri che s’era condotto il figlio, interruppe il pa­store, il quale sorrise malizioso quando dallo stesso udì:

  • Lascia stare; questo il nonno non te lo ha detto e noi non lo vogliamo sapere.

Sul volto del nostro compagno più gio­vane passò un’ombra di malcelato ramma­rico ed il pastore, con aria trionfale come per una rivincita guadagnata, proseguì:

  • Dunque il principe stette diversi gior­ni chiuso nelle sue stanze. Poi si decise. Chiamò il suo più fido ed esperto capitano e gli comandò di recarsi nella stessa giornata al castello della principessa e chiederla per sua sposa. Quando il capitano ripartì dal castello della principessa, vi era in tutti un’aria grave di costernazione. La principessa si era riservato quindici giorni per avere il tempo di pensarci e poi dare una risposta; ma dopo i quindici giorni che cosa sarebbe successo? Una principessa cristiana non poteva sposare un infedele. Non era neanche il caso di chie­dere a un seguace di Allah di abiurare la sua religione. Del resto Moham era nato da cani scomunicati e, anche convertito, nelle sue vene non cessava di scorrere sangue ma­ledetto.

L’abbondante madre della principessa, so­spirosa, ripeteva che se fosse stato ancora in vita suo marito, buon’anima, lui, che tutto sapeva, avrebbe trovato la via d’uscita. E poi quel saraceno maledetto non si sarebbe az­zardato di fare una richiesta simile perchè suo marito, che mai era stato vinto in com­battimento, lo avrebbe messo a posto. Pare però che il marito, buon’anima, non aveva mai partecipato neanche a una sca­ramuccia e, giusto quanto affermava la mo­glie, non era stato mai battuto. Lo zio sbilenco si dimenava sul suo arto più corto ed aveva finanche abbandonate le pergamene ingiallite. Vi poteva mai essere in quei documenti di sapienza antica, la so­luzione di questo caso nuovissimo? Ed egli, ultimo rampollo maschio di tanta illustre prosapia, della quale purtroppo non si co­nosce più il nome, poteva permettere che l’ultimo fiore della razza fosse profanato da un selvaggio infedele di ignoti natali ed il cui padre, probabilmente, non era stato che un vile vassallo? Oh! scoppiava la sua testa troppo grande per quel corpo miserello e gli antenati, dai quadri appesi alle pareti delle sale, avevano espressioni mai viste fino allora. Alcuni ghignavano irosi ed insoddi­sfatti; altri atteggiavano le labbra ad un sorrisetto ironico e pietoso, altri erano severi ed impenetrabili, foschi, paurosi. Ma come! … ai loro tempi, pareva dicessero, avrebbe tremato il mondo per un loro sguardo in­quieto, ed ora, l’ultimo rampollo, maschio, permetteva una simile offesa e non aveva cacciato con una pedata, come un cane, il messo del saraceno? Com’era brutto essere il solo ed ultimo rampollo, con tante responsa­bilità di secoli sulle povere e meschine spalle!

La principessa, il bellissimo fiore della nobile prosapia in agonia, era la meno preoc­cupata. Non sapeva ancora come fare, ma nei giovani la speranza non muore mai. Quel capo saraceno era un infedele, e questo a lei non andava. Ma quegli occhi neri, quel colorito appena scuro della pelle, quei ca­pelli ricci e corvini, quella possenza meravi­gliose del corpo, quell’alone di leggenda che si era sparso sulla sua imbattibilità in com­battimento, non dispiacevano all’ultimo fiore dell’illustre casata. E poi era arrivata anche a lei la notizia del grande amore che nu­triva per lei Moham e dei giorni tristi che passava nella solitudine delle sue camere. Po­vero capo saraceno! Ma lui perchè era un saraceno e non era un cristiano? Lei non poteva sposare un nemico di Dio, seguace dell’anticristo. No, lei non voleva dannarsi per l’eternità proprio quando il mondo stava per finire. Perché allora si diceva che il mon­do dovesse finire entro pochi anni, mentre poi son passati ancora tanti secoli senza che il cataclisma si sia verificato. Ma come fare per uscire da quel guaio? Pensa e ripensa, di giorno e nelle ve­glie notturne alternate dal desiderio dell’a­more e dal terrore della dannazione eterna, finalmente un’idea la illuminò. Le due colline su cui troneggiavano i lo­ro castelli, erano piuttosto distanti ed una ampia vallata le divideva. Lei non voleva scendere a valle e poi risalire il monte per raggiungere la casa dello sposo. Vi erano ancora i serpenti su quel monte e lei, al solo vederne uno, sarebbe morta di paura. Oc­correva congiungere le due colline con un ponte sul quale sarebbe passata con il cor­teo nuziale. Ed il ponte doveva essere di cuoio perchè su di esso non si annidassero i serpenti. Se il capo saraceno fosse riuscito a costruirlo, ciò avrebbe significato che Iddio permetteva la loro unione e la benediva. In caso contrario avrebbe pensato Iddio a libe­rarla dall’infedele. La cosa fu vagliata dall’aulica corte e parve l’unica soluzione possibile del difficile caso. All’ultimo sbilenco rampollo ma­schio, sembrò anche che i visi truci dei glo­riosi antenati si rasserenassero. E quando, allo scadere del termine, pun­tualmente lo stesso capitano saraceno si recò al castello per conoscere la decisione della principessa, gli fu comunicata la determina­zione cui la richiesta sposa era pervenuta e gli si confermò che da questa non avrebbe desistito per nessuna ragione. Impassibile il capitano prese congedo, e si sperò, da parte dei dignitari della principessa, che la condi­zione non sarebbe stata accettata e che co­munque Moham non aveva ragioni di risen­timento perchè nessun rifiuto era stato op­posto alla sua domanda. Quei selvaggi infedeli andavano trattati con molto garbo perchè la loro ferocia era senza pari e sarebbe bastato un cenno del loro signore perchè si abbandonassero alle crudeltà più inaudite. Così invece il loro capo era pago e non avrebbe mai usata la forza a meno che l’amore non gli avesse annebbiato il cervello e gli istinti brutali e prepotenti della razza non avessero prevalso. In questo caso, sa­rebbero stati guai grossi.

* * *

Il vecchio pastore fece una pausa. Qua­si con religiosità, tirò fuori da una tasca la pipa di creta dal corto cannello di amare­na, la riempì di tabacco che trasse da una scatola di latta, ripose questa nella tasca da dove l’aveva presa e da un’altra, del panciotto, cavò una molletta, una piccola pietra focaia ed un pezzo di esca. Con la molletta fregò forte ripetutamente la silice, ne fece scaturire delle scintille che accesero l’esca,, pad agitò questa per ravvivare il fuoco, calcò ancora con il pollice il tabac­co nella pipa, vi sovrappose l’esca accesa e cominciò a fumare.

Attendevamo pazientemente la fine del­l’importante operazione; qualcuno accese una sigaretta, qualche altro rettificò la sua posizione sui ruderi duri; ed era in tutti una viva curiosità di sentire la continuazione e la conclusione della leggenda che tanti nonni avevano successivamente rac­contato.

Dopo qualche boccata acre di fumo, il pastore proseguì.

— Quando il capitano giunse alla for­tezza saracena, il suo signore lo attendeva all’ingresso. L’ingresso era lì, dove si nota­no ancora la soglia e qualche resto di sti­pite. Povero principe saraceno! Chi sa co­me gli batteva il cuore!

Ed in questa torre più alta, nelle sue camere, il principe trascinò il capitano ed ascoltò trepidante la risposta della princi­pessa. Aveva detto sì? Si, ma c’era quella condizione del ponte di cuoio, la cui gra­vità il capitano aveva ponderato durante il tragitto di ritorno e che cercò di far comprendere e Moham. Non importava, non importava! L’essenziale era che la sua bel­la avesse detto di si. Anche se avesse chiesta la luna, Moham l’avrebbe divelta dal cielo per deporla ai suoi piedi. Il ponte di cuoio si sarebbe costruito. V’erano nel feu­do tanti capi di bestiame e si sarebbero immolati tutti alla bellissima principessa. Altri ne sarebbero nati ed avrebbero rim­piazzati quelli uccisi. E si sarebbero acqui­stati tutti i capi di bestiame dei dintorni, e se ne sarebbero andati a prendere a mille miglia di distanza, purché quella torre te­tra fosse stata illuminata dal sorriso della donna amata. Perchè lui non voleva portarla schiava e piangente nel castello, ma come regina sorridente e maestosa vi doveva en­trare.

E Moham, forse nel desiderio di abbrac­ciare la sua bella, strinse forte al petto il capitano al quale sembrò che il suo signore avesse smarrita la ragione. Non compren­deva Moham quanta era considerevole la distanza fra le due colline e quante pelli di animali grossi erano necessarie per co­struire il ponte che la principessa deside­rava? Chi era il più pazzo dei due? Ma al volere di Moham nessuno ardiva opporsi.

E il giorno successivo, lo stesso capi­tano si recò di nuovo al castello della prin­cipessa, per dire che il suo signore accettava la condizione di costruire un ponte di cuoio fra le due rocche e che le nozze sa­rebbero state celebrate non appena il desi­derato ponte fosse stato eretto.

La corte rimase perplessa; ma alla gio­vane tremò il cuore quasi di speranza per l’impresa ardita che l’uomo che l’amava si proponeva di portare a termine unica­mente per lei. Quale altra donna al mondo si sarebbe potuto vantare di una cosa si­mile, di una prova d’amore tanto difficile e costosa? Lei sola, la principessa di un colle garganico, sperduto al limite di una grande piana cinta da monti; e la notizia sarebbe corsa di castello in castello fra la ammirazione dei cavalieri e l’invidia delle dame ed il suo nome sarebbe stato cantato come quello della donna più pazzamente amata.

Ma se Moham non fosse riuscito a co­struire il lungo ponte che ella desiderava? Ed allora si sarebbe così rivelata la volontà di Dio che non consentiva ad una princi­pessa cristiana di andare sposa ad un infe­dele saraceno. Già, perchè nella mente del­le donne, le vittorie rappresentano meriti propri e gli insuccessi colpe di altri o rive­lazioni di volontà soprannaturali.

Fedele alla promessa e nel desiderio incontenibile di possedere la donna amata, Moham si mise subito all’opera. Cominciò con l’ordinare in tutto il feudo che chiun­que possedeva animali bovini ed equini, era obbligato di menarli al castello entro cin­que giorni. E allo scadere del termine, tut­ta la collina sciamava di quadrupedi mentre le casse del capo saraceno si esaurivano rapidamente.

In pochi giorni gli animali furono mat­tati; della carne si appropriava chi voleva. Fu eretta in questi pressi, ma non ne è rimasta traccia, una capace conceria che ini­ziò subito il lavoro con ansiosa celerità.

Sperava così il principe di aver vinta la posta. Ma quale non fu la sua delusione quando si accorse che il cuoio ricavato non bastava a coprire neanche un terzo della distanza che intercedeva fra i due castelli! E per il resto come si sarebbe provveduto?

Intanto nel feudo cominciava la care­stia ed i vassalli cercavano di allontanar­sene. Anche fra i soldati il malcontento serpeggiava perchè la mensa si era ridotta e tutto sembrava andare alla deriva. E si era diffusa la voce che Moham era im­pazzito.

Moham era si pazzo, ma pazzo d’amore e di desiderio. Correva ogni mattina con furiose galoppate sotto il verone della sua bella per inebriarsi del suo sorriso e degli occhioni azzurri, in fondo ai quali scorgeva il suo paradiso. E poi, via per il feudo ispe­zionando se per caso vi fossero altri ani­mali da requisire perchè il loro cuoio rav­vicinasse al suo amore. E quando fu certo che nella terra di Castelpagano non vi erano più che vili pe­core, cominciò l’incetta nei feudi confinanti dove intanto i prezzi erano saliti fantasti­camente. La conceria lavorava in pieno; le balle di cuoio si accumulavano rendendo intorno l’aria pestifera.

Intanto le casse del’ povero principe saraceno s’erano completamente vuotate e una malcelata miseria regnava nel castel­lo. Ogni giorno qualche soldato disertava; alcuni andavano presso altri signori e di­versi s’erano asserragliati su un monte lon­tano, erto sul mare, dove un altro poten­tato saraceno stava sorgendo. D’intorno a Moham si faceva il vuoto. E già si parlava per le corti della Daunia della sua pazzia per la vana impresa di voler costruire un ponte di cuoio sul quale far passare la spo­sa e finanche della prossima fine del do­minio saraceno alle pendici di monte Gargano.

Finché all’alba di non so quale giorno, Moham chiamò inutilmente il suo scudiero.

S’alzò, girò per il castello, gridò a per­difiato, ma non vide nessuno, e nessuno gli rispose. Andò nella conceria;… anche il cuoio era sensibilmente diminuito, aspor­tato dai suoi soldati che avevano diserta­to in massa. E non vi era più neanche il suo cavallo e dovunque era disordine e squallore.

A lenti passi, con la testa china sul petto, Moham ritornò sulla spianata del colle, qui, dove siamo noi, in vista del ca­stello della principessa che ormai non avrebbe mai più avuta e pianse, pianse fin quando non venne la notte. Poi al buio salì su quella torre dov’era il suo giaciglio solitario. E su questo si lasciò morire di fame nella visione continua del suo amore perduto.

Il castello rimase per molti anni ab­bandonato ed i serpenti invasero di nuovo la colline e si annidarono nel maniero de­gli infedeli. E tutti dicono che l’ombra di Moham veglia bianca sull’alto della torre, con gli occhi fissi verso lo scomparso ve­rone della bionda feudataria.

Sulla collina di fronte non esiste più alcuna traccia dell’antico castello della bella e fatale principessa. Ma in ricordo, quella collina si chiama « Monte La Don­na » certo da quando avvenne la storia che vi ho raccontato.

Come possono esservi tesori nascosti qui dove il castellano è morto in miseria ? Ecco perchè, io rido quando vedo qualcuno scavare in queste povere rovine fra le quali forse sarebbe più bello cercare e ritracciare un granello di polvere che avesse appartenuto al cuore di Moham, per farne una reli­quia da mostrare come monito a tutti gli uo­mini che per le donne perdono la testa.

E il vecchio pastore tacque.

Ricacciò la sua molletta, la strisciò di nuovo sulla silice con colpi decisi, l’esca si riaccese e dalla pipa s’alzò una spira di fu­mo azzurrognolo che si perdette in alto, verso la cima mozza della torre di Moham, baciata dal sole, nel suo sorriso eterno sulla caducità delle passioni umane.

Giuseppe D’Addetta

Scrittori Dauni – 1960 –

(1 continua)