Secondo S. Luca, quando Gesù sul Calvario « rese lo spirito…, la terra tremò e le pietre si spezzarono… ».
In quel preciso momento, vuole la tradizione popolare, il Gargano sussultò paurosamente, terribili boati rimbombarono nell’aria ed il Promontorio si spaccò in due. E uno squarcio profondo, con irte pareti sulle quali antri misteriosi spalancavano le loro bocche nere, congiunse il mare con il Tavoliere. Da allora, fantasmi e diavoli si aggirano in quel luogo tremendo e maledetto, a cui è stato dato il nome di Valle dell’Inferno. I montanari malvolentieri e guardinghi l’attraversano di giorno, solo se proprio non ne possono fare a meno. Di notte poi, nessuno ardisce inoltrarsi in quella stretta gola, specialmente da quando….
* * *
Camillo de Lellis era stato da giovane avventuroso e scapestrato. Aveva combattuto per Venezia contro i Turchi e poi a Cipro ed in Africa. A 25 anni, sulla montagna garganica, in seguito ad una soprannaturale visione, aveva abbracciata la fede di Cristo ed era diventato frate cappucino nel convento di S. Giovanni Rotondo. E il suo istinto randagio lo portava spesso a girare per il Promontorio, trascinandosi dietro un docile ronzino. Nelle giornate chiare la nativa Maiella gli appariva all’orizzonte. In una notte oscura, mentre da Manfredonia ritornava al suo convento, infilò la Valle dell’Inferno. Lì il buio era ancora più fitto, e, dalla viuzza appena tracciata sul fondo, le alte pareti rocciose sembrava giungessero fino al brillìo delle stelle.
Camminava lento e raccolto il religioso, già santo per il popolo, seguito dallo stanco ronzino. I ricordi delle passate battaglie gli facevano compagnia; e cozzo di armi, nitriti di cavalli, urla e lamenti di feriti, gridi di vittoria, si ripetevano nella aria. Ma tenui, come echi lontani, mentre nell’anfratto il rumore degli zoccoli s’incupiva rimbombante.
Altro rumore non si sentiva tutt’intorno; ma dalle bocche spalancate degli antri, un brivido freddo si riversava nella gola. Qualche pipistrello cominciò a vagare e, nello svolazzo disuguale ed incerto, sfiorò il frate. Poi le nottole si fecero più frequenti, diventarono numerose, luccicarono di strani bagliori. Frate Camillo si accorgeva appena di loro ed ogni tanto dava la voce al suo ronzino. Ma quando fu al centro della gola, improvvisamente dalla terra scaturì il fuoco; grandi fiamme si elevarono al cielo, un fumo denso ed un acre puzzo di zolfo appesantirono l’aria e diavoli, diavoli, diavoli apparivano e sparivano, con ghigni terrificanti, in una sarabanda infernale. E rumori di catene furiosamente smosse, e boati, e scoppi assordanti e bagliori sinistri, e poi torme di demoni che iniziarono a picchiare il santo. Allora frate Camillo si scosse ed a quella furia satanica reagì, vibrando colpi da orbo ai mostri infernali che gli venivano a tiro. E per difendersi meglio, con uno strappo netto, staccò una zampa posteriore al suo ronzino e con questa segnava violentemente delle croci suoi diavoli scatenati. E croci tracciava anche nell’aria con la clava equina, mentre a Dio elevava la sua fervida invocazione, perchè nel suo nome combatteva le furie infernali che non dovevano e non potevano trionfare proprio nella terra santificata dall’Arcangelo Michele, il difensore di Dio, l’araldo delle milizie celesti, il vincitore di Satana. E l’Arcangelo gli apparve bellissimo e terribile, in una luce d’oro che, come da un sole, si irradiò tutt’intorno.
Fu allora un fuggi fuggi di demoni verso gli antri dai quali erano usciti. Il fumo si diradò, la puzza di zolfo non appestò più l’aria, e nella Valle dell’Inferno tornò la quiete.
Era stanco il santo pellegrino ma raggiante per la vittoria riportata sui mostri infernali.
Riattaccò la zampa alla sua cavalcatura e riprese il cammino nella oscurità tenace della notte, fino alla uscita della gola maledetta, su per i sentieri pietrosi che si intrecciavano sui dorsi della montagna e ne conquistavano le vette. Ogni tanto il ronzino inciampicava. Cosa aveva quel fedele compagno dei suoi vagabondaggi? Forse la lotta, alla quale timoroso aveva assistito, ne aveva fiaccata la resistenza o qualche colpo duro, sferrato da uno dei mostri assalitori, gli aveva indolenzito uno stinco.
Viaggiò tutta la notte il fraticello e quando appena i primissimi chiarori del giorno diradavano le tenebre, bussò all’eremo francescano di S. Giovanni Rotondo. La porta si aprì docile mentre un incapucciato confratello faceva capolino.
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Pace e bene, fratello.
Pace e bene.
E fra Camillo si accinse a togliere la bisaccia dal basto che infagottava il ronzino baio.
Il frate portinaio si avvicinò per aiutarlo. Ma mentre era in procinto di sollevare il capo della bisaccia che pendeva dalla sua parte, repentinamente rinculò ed esterrefatto cominciò a gridare: Fratello,
fratello… questo è il diavolo!…
Altri religiosa intanto si erano fatti sulla porta e guardavano incuriositi la zampa posteriore sinistra del cavallo, incerti, timorosi. Poi piano piano si avvicinarono e cominciarono a ridere, mentre anche il frate portinaio si rifaceva dallo spavento.
Era davvero curioso ed inspiegabile lo spettacolo che si presentava ai loro occhi. L’arto posteriore del ronzino appariva attaccato al rovescio e la punta del garretto risultava sotto la pancia invece che sotto la coda del cavallo.
Frate Camillo, stupito dalle grida del portinaio e dalla ilarità dei confratelli, girò dalla parte loro; e non appena ebbe visto l’arto rovesciato, sbottò in una risata incontenibile che pareva non dovesse finire più. I suoi confratelli lo guardavano stupefatti. Intanto i primi raggi del sole illuminavano il fitto bosco che circondava l’eremo e si arrampicava sù, fino alla vetta del monte. Quando finalmente fra Camillo potè trattenere la sua interminabile risata, si avvicinò al ronzino, con una mossa brusca e titanica gli strappò l’arto che, distrattamente, nel buio della Valle dell’Inferno aveva riappiccicato alla rovescia, lo riattaccò per il suo verso e passò sulla groppa scarna ed ossuta del cavallo la sua mano carezzevole. Il ronzino girò la testa verso di lui con una espressione di gratitudine nello sguardo docile.
I poveri frati rimasero sbigottiti. Poi, nell’orto del convento, ascoltarono attoniti il racconto di frate Camillo.
Il portinaio si convinse che non era stata opera diabolica quello che aveva visto e sui volti di tutti ritornò pian piano la serenità; e nel cuore la pace serafica che il Poverello d’Assisi ha lasciato ai suoi figli come il più gran dono di Dio.
Giuseppe D’Addetta
Scrittori Dauni – 1960 –
(5 continua)