Era buio sul mare, quella notte ormai lontana. Ed era tutto silenzio e mistero. Mormorava solo l’acqua che la prora spartiva e la grande vela arancione della paranza qualche volta batteva sgonfia per il cessare della brezza,
Tacevamo, seduti a prua, sognando la luna bianca nella notte nera, mentre ascoltavamo i battiti dei cuori vicini che si sentono quando intorno è quiete e nell’animo garrisce la giovinezza.
A poppa, il marinaio di mezza età che governava la barca, s’indovinava dal chiarore che arrossava l’apice della pipa ad ogni boccata di fumo. Neanche lui parlava; taceva con noi e con la notte.
La mia compagna mi si strinse di più.
Hai paura ?
No; ma vorrei scendere a riva, guardare da terra questo buio misterioso che pesa sull’acqua, temerlo ancora di più e poi provare più forte la sensazione di andare incontro all’ignoto, quando riprenderemo il mare.
La vela fu spostata e docile la paranza, dopo qualche minuto, si arenò con la chiglia.
La riva era ciottolosa; un taglio quasi perpendicolare mostrava appena, nell’oscurità, il candore della costa alta, da dove si affacciavano le chiome dei pini che s’intravvede- vano soltanto come schermi forati dalla lucentezza delle stelle.
Camminammo un po’; la ghiaia scricchiolava sotto i nostri passi, con uno stridìo che nella notte s’incupiva. Poi ad un tratto ci si parò davanti, come un enorme fantasma bianco, una roccia alta, conica, alla cui base mormoravano le ondine in una carezza lieve che cessava e riprendeva, e schiumava appena nell’infrangersi ai piedi del faraglione.
Lontano, su Vieste, un chiarore rossastro interrompeva il buio che avvolgeva terra e mare.
Tornammo. Il barcaiuolo ci attendeva sulla riva, con le mani congiunte sul dorso e la pipa spenta fra le labbra. Ed a lui chiedemmo cosa era quella roccia alta che nella notte ci era apparsa come un enorme fantasma bianco. Scorgemmo appena lo incresparsi delle guance in un breve sorriso, mentre il marinaio tentennava la testa dall’indietro in avanti quasi ad esternare un grave pensiero che in quel momento gli serrava il cervello.
Poi disse: E’ una storia lunga e dolorosa e potrebbe anche sembrare una favola se qualche vecchio pescatore non assicurasse che è vera perché se ne è accertato personalmente. Andiamo a sederci sulla barca e ve la racconterò.
L’acqua ci sembrò più fredda quando abbordammo la paranza coccolata dalle piccole onde. La vela era ammainata; l’albero si sperdeva nel buio.
Dalla poppa cominciò a giungere a prua, la voce cupa del barcaiuolo, che nel silenzio assumeva, alle volte, tonalità strane quasi uscisse dal fondo del mare. E la voce strana diceva.
* * *
Qui siamo sul limite estremo del Promontorio, dove la terra maggiormente s’insinua nel mare. Quel faraglione si chiama Pizzimunno ed è davvero un fantasma come a voi è sembrato, anche se di pietra.
La piccola rada di Vieste — voi lo avete visto — è sbarrata da uno scoglio lungo e basso, battuto ora dalle sciabolate luminose del faro.
Vieste è un’antica cittadina che — dicono — fu fondata da Noè su questa piccola rada, dopo il diluvio universale. E non v’era ancora a rimirarsi nel mare, al tempo in cui avvenne la storia che vi narro. Al suo posto, poche capanne si sperdevano fra i pini.
In una di quelle capanne, aggrappate al dorso del colle da dove le mura nere dello sbrindellato castello guardano ora il mare, viveva la più bella fanciulla di tutto il Gargano. Era più bella del sole quando sorride all’aurora, della rosa quando schiude all’alba la sua prima corolla. Dicono che si chiamasse Vesta e che di lei anche i fiori fossero innamorati, tanto grande era la sua bellezza. E quando Vesta passava, si aprivano tutti per profumarle l’aria che respirava.
Vicino alla riva, in un’altra piccola capanna che le onde bagnavano durante l’alta marea e davanti alla quale s’arenava la barca nei giorni di burrasca, abitava Pizzimunno, un pescatore dalle membra perfette e vigorose, tutto il giorno in mare. Quando l’acqua era trasparente, Pizzimunno scorgeva in essa visi bellissimi di donne, mentre canti maliosi echeggiavano nell’aria. Poi, come quei visi si innalzavano fino al pelo delle onde, il canto s’irrobustiva e la melodia s’avvicinava. E durava a lungo, conturbante, mentre dal mare uscivano a mezzo busto bellissime ragazze bionde e brune che sorridevano al pescatore tutt’intorno alla sua barca.
Di tanto in tanto cessava il canto e le voci carezzevoli invitavano Pizzimunno a scendere negli abissi del mare dove l’attendeva un regno fiabesco e tutto il loro amore. Sarebbe stato il loro signore, le avrebbe prese tutte o soltanto quelle che desiderava e quando le volesse. Felici anche le altre di poterlo guardare soltanto, di una sua carezza, di una sua parola. E gli avrebbero donato la loro stessa immortalità, con il loro amore eterno. Ma Pizzimunno amava Vesta ed alle sirene rispondeva che la sua amante era sempre la più bella; di loro nessuna reggeva al suo confronto. E una carezza di Vesta valeva tutta l’eternità che esse volevano donargli.
Quando a sera ritornava nella rada, Vesta l’attendeva sulla spiaggia per salire sulla sua barca ed andare insieme sullo scoglio piatto che chiude la cala, soli con il loro amore a cui il mare cantava la sua canzone senza fine.
Illividivano le sirene quando, nelle notti di luna, scorgevano sullo scoglio gli amanti. E nei giorni successivi, più dolci erano le loro voci ed i loro canti, più promettenti i loro sguardi, più tentatori i loro sorrisi nell’ansia di conquistare il bel pescatore, che finalmente un giorno disse loro:
— No, sirene, io amo il mare, i vostri canti che ripetono le onde quando voi non ci siete, tutto l’oro del sole fra il turchino che circonda la mia solitudine, ma amo di più Vesta che nel suo corpo incatena il sole, che ha negli occhi il glauco delle onde, e tutte le vostre bellezze nella sua. Siatemi sorelle nella sconfinata solitudine marina; ma amanti no perchè solo Vesta io amo.
Allora le sirene lo minacciarono. Ed egli rise perchè non così, con le minacce, sarebbe finito il suo amore per Vesta, nè il suo cuore avrebbe cessato di amarla. Le sirene allora si consultarono. Non potevano sopportare che un misero e mortale pescatore si irridesse di loro, ed una fanciulla terrena le vincesse in amore; vincesse loro, le ammaliatrici a cui nessuno aveva mai resistito.
E dal consiglio di tanta gelosia, venne fuori una sentenza terribilmente crudele che nell’eternità avrebbe fatto soffrire i due a- manti.
Tacque per un momento il marinaio.
Nella notte scura spirava appena un alito di vento. La barca era immota sull’acqua; il mistero aveva ansie e palpiti sospesi.
Vesta, solo tu sei tutta la mia vita, sussurrò una notte sullo scoglio Pizzimunno, a conclusione dell’ultimo racconto delle lusinghe delle sirene e delle loro minacce.
Pizzimunno, ho paura. Sento che qualche cosa di molto grave pesa sul nostro destino.
La voce di Vesta era flebile, accorata.
La luna guardava, alta nel cielo; la terra e il mare sorridevano al suo argento senza calore. Sullo scoglio solitario si ripercuoteva il fremito delle onde.
Ad un tratto un canto dolce s’intese e pareva lontano.
Pizzimunno rise credendo ad un altro tentativo delle sirene in presenza della sua amante. Vesta tremava.
S’avvicinava sempre più il canto.
Non lontano ma dalle onde ora sgorgava e saliva su dal fondo, lento ma sempre più vicino, più dolce, più tenero e gli amanti immobili ascoltavano, con gli occhi fissi sul mare, e non si accorsero che alcune sirene erano alle spalle di Vesta. Ad un tratto la fanciulla fu stretta da catene ed uno strappo forte la fece cadere in acqua mentre il giovane, come pietrificato, guardava ingorgo che ribollì brevemente sulla testa dell’amata. Poi si riscosse e si tuffò quasi a raggiungere il fondo. Sghignazzava ora il canto lontanando e Pizzimunno lo seguiva a nuoto nella speranza di raggiungere Vesta.
L’alba che seguì vide sulla riva quella roccia alta e bianca che a voi è sembrata un fantasma. Da quella notte Pizzimunno non è più apparso nella rada.
Vesta fu trascinata lontano, negli abissi marini. E i suoi occhi videro un regno fiabesco, antri splendidi che si susseguivano all’infinito con volte frastagliate di madreperla, dei quali un mare turchino e trasparente formava il pavimento. E da quel pavimento le sirene uscivano a mezzo busto, bellissime nel volto e con negli occhi un odio terrificante. E beffavano Vesta, la bella del mondo, e la invitavano a invocare il suo Pizzimunno perchè venisse a riprenderla.
Poi Vesta sentì che i piedi le diventavano di ghiaccio. E il ghiaccio salì pian piano su fino al capo; ed al posto di quella fanciulla bella come il sole, la più bella che abbia visto il Promontorio, si formò una stele di corallo rosa, intorno alla quale le sirene sarabandarono.
Si fermò ancora il marinaio nel suo dire.
La mia compagna emise un profondo sospiro come a liberare il cuore da un incubo; e , con le mani strinse il mio braccio perchè temeva le sirene in quel buio che il racconto del barcaiuolo rendeva più misterioso.
Il marinaio riprese.
Nessuno sà con precisione dove sia il regno fiabesco delle sirene. Tutti però dicono che si trova fra le Tremiti e la costa garganica. E la stele di corallo rosa in cui Vesta è trasformata, dal suo apice goccia sempre lacrime mentre una catena di cento maglie la tiene assicurata ad una grande colonna che sorregge la volta dell’antro. Le lacrime cadono come perle fosforescenti sull’acqua azzurra che circonda la stele e si ammucchiano alla sua base quasi a formarne il piedistallo. Ma se una sirena le tocca, si liquefanno e tornano stille di acqua nell’acqua.
Ogni cento anni però, gli amanti rivivono su quello stesso scoglio dove trascorsero l’ultima notte d’amore. E lo scoglio piatto che chiude la rada s’illumina di gioia.
Ma quando all’alba Vesta e Pizzimunno cercano di fuggire verso la terra dove le sirene non potrebbero raggiungerli, la catena si tira ed il mare inghiotte di nuovo Vesta mentre Pizzimunno guarda ancora inebetito il gorgo che ribolle.
Poi comincia a nuotare seguendo il canto delle sirene e si rinnova l’incanto sulla riva che ci è vicina; li si riforma quel faraglione che a voi è sembrato un fantasma.
E che questo accada, lo hanno assicurato vecchi pescatori i quali inutilmente in una notte hanno cercato il faraglione senza trovarlo. Eppure conoscono la riva palmo a palmo.
Ma nessuno riesce a ricordare la data in cui l’incantesimo di Pizzimunno s’interrompe. Si sa solo che la notte è buia, con poche stelle, nella calma più assoluta del mare.
Potrebbe anche essere questa notte, disse la mia compagna.
Si, potrebbe essere, rispose il pescatore.
E con un remo spinse sul fondo per disincagliare la paranza dalla sabbia fine in cui si era arenata.
Giuseppe D’Addetta
Scrittori Dauni – 1960 –