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L’AVVIO DEL GIOVANE GRAMSCI ALLA LETTERATURA E ALL’IMPEGNO MERIDIONALISTA

Antonio Gramsci, nato nel 1891 ad Ales, piccolo comune della provincia di Oristano, è stato uno dei più importanti pensatori del XX secolo, capace attraverso una propria elaborazione di indagare la società, la cultura, la politica dei primi decenni del Novecento.

L’infanzia di Gramsci è stata drammatica, sia a causa di una grave malattia che lo aveva reso deforme e sofferente dai primissimi anni di vita, sia a seguito dell’arresto del padre nel 1898 che lo aveva costretto a lavorare, tralasciando gli studi, per contribuire al magro bilancio di una famiglia numerosa bisognosa di sostegno. A stento, date le condizioni economiche precarie, era riuscito a recuperare le gravi carenze scolastiche accumulate e a frequentare un liceo classico a Cagliari, dove si licenziava nel 1911. In quello stesso anno, grazie a una borsa di studio, si trasferiva in condizioni di estrema miseria a Torino per frequentare la facoltà di Lettere.

Durante il soggiorno di studi a Cagliari era entrato in contatto con gli ambienti del separatismo sardo.A Torino, dove si sarebbe laureato nel 1915, nel 1913 si iscriveva al Partito socialista.

Sempre a Torino, il giovane sardo si relazionavaalla letteratura meridionalista.

Francesco Giasi, in “Gramsci e il meridionalismo da Salvemini a Dorso”[1], svela i particolari: l’intellettuale sardo era abbonato a “La voce”, diretta da Giuseppe Prezzolini, che nel marzo del 1912 aveva pubblicato un numero speciale sulla questione meridionale nel quale «spiccavano gli interventi di Fortunato, Salvemini, Nitti ed Einaudi», mentre a dicembre del 1911 erano iniziate le pubblicazioni de “L’Unità” fondata dallo stesso Salvemini, appena uscito dal Partito socialista per le questioni ben note; un nuovo giornale che annoverava tra i suoi collaboratori i migliori esponenti della Lega antiprotezionista, da Antonio De Viti De Marco a Giustino Fortunato, da Giovanni Carano Donvito a Eugenio Azimonti[2].

Il giovane Gramsci, che aderisce al Partito socialista nel 1913, è uno studioso che ha assorbito pienamente le posizioni liberiste economiche, come anche la critica feroce di Gaetano Salvemini ad Antonio Giolitti[3] e le tesi sviluppate dal salentino Antonio De Viti De Marco[4], che avevano imputato al protezionismo industriale e a quello granario le disastrose condizioni economiche del Mezzogiorno, passato dall’arretratezza al sottosviluppo nonostante le rimesse di milioni di emigrati.

Prima di affrontare le tematiche del Mezzogiorno con “Alcuni temi della quistione meridionale”, – lo scritto che più di ogni altro caratterizza l’intellettuale sardo in merito alla questione meridionale, ritenuto anche il più completo poiché scritto nel 1926 a maturità acquisita, pochi mesi prima di essere incarcerato – , Gramsci non era affatto rimasto indifferente alla tematica, tanto che già ad aprile del 1916 aveva scritto un importante documento sul “Grido del popolo”[5]. L’occasione gli era stata fornita dall’on. Arturo Labriola, che in un intervento alla Camera aveva contestato aspramente le politiche del presidente del Consiglio Antonio Salandra; la guerra, secondo il parlamentare socialista napoletano, aveva reso sempre più duale l’economia italiana: il Nord, producendo materiale bellico, traeva enormi profitti dall’economia di guerra; il Mezzogiorno, fornendo uomini e capitali, subiva conseguenze devastanti.

L’articolo era anche l’occasione per citare l’economista Francesco Colletti, collaboratore de “L’Unità”, che nel 1911 aveva ampiamente denunciato i danni che il centralismo di matrice piemontese aveva causato al Mezzogiorno. Un’annessione che anche secondo Gramsci, a causa di un «accentramento bestiale», aveva provocato il drenaggio di «ogni denaro liquido dal Mezzogiorno nel Settentrione per trovare maggiori e più immediati utili nell’industria», ma anche «l’emigrazione degli uomini all’estero per trovare quel lavoro che veniva a mancare nel proprio paese». Seguendo le tesi liberiste di De Viti De Marco, Gramsci ribadiva che «il protezionismo industriale aveva rialzato il costo della vita al contadino calabrese», mentre il dazio sul grano era stato «inutile per lui che produceva, e non sempre neppure, solo quel poco che era necessario al suo consumo»[6].

L’articolo dell’aprile 1916 è persino l’occasione per Gramsci di contrastare le tesi antropologiche, così diffuse e apprezzate all’epoca, sulla inferiorità genetica dei meridionali, tanto che il giovane intellettuale dà un’altra chiave di lettura alla mancanza di iniziativa dei meridionali, ritenendola un’accusa ingiusta: «Il fatto è che il capitale va a trovare sempre le forme più sicure e più redditizie di impiego, e che il governo ha con troppa insistenza offerto quella dei buoni quinquennali. Dove esiste già una fabbrica, questa continua a svilupparsi per il risparmio, ma dove ogni forma di capitalismo è incerta e aleatoria, il risparmio sudato e racimolato con gli stenti non si fida, e va ad investirsi dove trova subito un utile tangibile»[7]. Quel risparmio sudato che, come aveva spiegato nel 1898 il meridionalista Ettore Ciccottiin “Mezzogiorno e Settentrione d’Italia”, tra «imposte crescenti, la vendita dei beni ecclesiastici, l’ampliarsi del debito pubblico» aveva finito per costituire «un vero drenaggio di capitale» da Sud verso Nord[8].

In Parlamento l’on. Antonio Salandra aveva convenuto con Labriola sullo «spostamento territoriale della ricchezza» e, con quelle che Gramsci definiva «promesse vaghe», aveva sostenuto la necessità di studiare «compensi mediante una larga politica agraria», al fine di pareggiare per quanto possibile il danno arrecato dalla guerra alle «regioni meno fortunate». Promesse che Gramsci accoglieva col «più crudo scetticismo», ribadendo quanto già De Viti De Marco aveva scritto da tempo[9], persino polemizzando con Francesco Saverio Nitti: «Il Mezzogiorno non ha bisogno di leggi speciali e di trattamenti speciali. Ha bisogno di una politica generale, estera ed interna»[10]. In sintesi, fermo nelle sue convinzioni liberiste e antiprotezioniste, Gramsci asseriva che non sarebbero state solo le infrastrutture a far ripartire il Mezzogiorno, ma nuovi trattati commerciali con l’estero finalizzati a riaprire il commercio alle produzioni del Mezzogiorno.

Il Gramsci liberista di questo scritto appare ancora molto influenzato dagli intellettuali che scrivevano sull’ “Unità” di Salvemini e dalle tesi riformistiche dei liberali alla De Viti De Marco e Luigi Einaudi, per quanto, come ricordano Franco De Felice e Valentino Parlato nel testo da loro curato sul meridionalismo del grande politico sardo, il «collegamento tra arretratezza meridionale e sviluppo capitalistico», già nello scritto giovanile del 1916, implicava il rifiuto di «ogni soluzione riformistica», costante nel processo di maturazione del pensiero del grande intellettuale[11].

michele eugenio di carlo

(socio società di storia patria per la puglia, promotore della rete culturale carta di venosa)

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[1] F. GIASI, Gramsci e il meridionalismo da Salvemini a Dorso, in Lezioni sul meridionalismo, a cura di Sabino Cassese, Bologna, Il Mulino, 2016.

[2]Cfr. Ivi, pp. 115-116.

[3]G. SALVEMINI, Il ministro della mala vita. Notizie e documenti sulle elezioni giolittiane nell’Italia meridionale, Firenze, Edizione della Voce, 1910.

[4]A. DE VITI DE MARCO, Finanza e politica doganale, in«Giornale degli economisti», gennaio 1891.

[5]A. GRAMSCI, Il Mezzogiorno e la guerra, in «Il Grido del popolo», 1° aprile 1916.

[6]A. GRAMSCI, Il Mezzogiorno e la guerra, in La questione meridionale, a cura di F. De Felice e V. Parlato, Roma, Editori Riuniti, 2005, p. 64.

[7]Ivi, p. 65.

[8]E. CICCOTTI, Mezzogiorno e Settentrione d’Italia, Milano-Roma-Palermo, R. Sandron presso la Rivista popolare,   

1898, p. 299.

[9]A. DE VITI DE MARCO, Un trentennio di lotte politiche (1894-1922), Roma, Collezione di studi meridionali, 1930.

[10]A. GRAMSCI, Il Mezzogiorno e la guerra, in La questione meridionale, cit., p. 66.

[11]A. GRAMSCI, Il Mezzogiorno e la guerra, in La questione meridionale, a cura di F. De Felice e V. Parlato, cit., p. 9.