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DIEGO ABATANTUONO: “DA VIESTE A CASABLANCA CON UN CAMMELLO ARRABBIATO CHE PORTO’ VIA UN ATTORE”

“CHE RICORDI MERAVIGLIOSI NEL GARGANO CON I MIEI GENITORI” —–

Più di 800 chilometri in Statale fino a Vie­ste?

«Certo. L’idea ge­niale era sempre una: la partenza di notte che non c’è nessuno e c’è il fre­sco». Un classico italico, la trovata senza tempo e a volte senza senso, la partenza in controtendenza per poi spes­so ritrovarsi tutti in coda. Die­go Abatantuono ha gli occhi a bancomat, il sorriso sornione e beffardo, l’abbronzatura da tizzone spento; un affabulatore, una miniera di ricordi che sembrano anche inventa­ti, perché nella memoria sco­va anche le minuzie: «Guardi, ogni storia che le racconto potrebbe durare tutto il gior­nale…».

Proviamo a sintetizzare: Vieste, i viaggi da bambino…

«Il viaggio più affascinante è legato a quei ricordi, quan­do andavo in vacanza sul Gar­gano, a Vieste, il paese dove è nato mio padre. Facevamo il campeggio libero sulla spiag­gia, una spiaggia completamente diversa da oggi, era de­serta, a due chilometri si in­travedeva al massimo una tenda di qualche olandese o svedese, gli unici ad avventu­rarsi».

Niente elettricità, niente acqua. Selvaggi.

«Ci mettevamo di fianco a un ruscello di acqua dolce freddissima che faceva da fri­gorifero, mettevamo dentro il burro, le bottiglie d’acqua. Serviva per lavare i piatti, per fare la doccia: era un ruscello multifunzione».

Soli o accompagnati?

«Con altre famiglie, tre o quattro; mettevamo le tende a semicerchio vista mare. Io entravo in acqua all’arrivo e uscivo dal mare solo per dor­mire. Stavo a bagnomaria per tutto il resto della giornata, poi né mio papà né mia mam­ma si preoccupavano di dar­mi raccomandazioni sul ba­gno dopo pranzo: mangiava­mo direttamente in acqua fet­tone di pane pugliese con pomodoro olio e sale».

Il viaggio?

«I miei genitori e i loro amici cominciavano già du­rante l’inverno a pensare alle innovazioni per l’estate suc­cessiva tipo la tenda in più da usare come cucina. Non face­vamo l’autostrada, all’inizio perché non c’era poi perché comunque costava e bisogna­va risparmiare».

Tutto in Statale…

«Se me vegn sogn, se fermum, se mi viene sonno ci fermiamo, diceva mio padre. Parlava milanese ormai».

Il caricamento della mac­china era un altro rito.

«In quella macchina c’era tutta la nostra vita: bici, ten­de, materassi, materassini, pinne, maschere, gonfiabili, l’auto era farcita che nemme­no un toast. E poi gli scambi».

Che scambi?

«Un papà dava una mam­ma in cambio di due bambini perché noi piccoli volevamo fare il viaggio insieme. Si bal­lava così, c’era questo scam­bio di mamme che non so se abbia portato anche ad altro, era il gioco delle tre mam­me… Si partiva di notte, tutti gasati».

Sempre la stessa auto?

«Mio papà faceva un pò il figo con le macchine, le cam­biava spesso, le prendeva an­che in funzione di quel viag­gio. Un anno avevamo un pullmino piccolo della Fiat, e per tutto l’anno siamo andati in giro con il pullmino, anda­vo a scuola così. Arrivavo in ritardo, senza il fiocco e pure con il pullmino, veda lei…».

Tutta una tirata?

«Eh no, quanta fretta. C’erano le tappe, ci fermava­mo nelle famose osterie dei camionisti, ma alle cinque del mattino non c’era niente da mangiare… Ci mettevamo quasi due giorni, la logica era arrivare di giorno per monta­re la tenda con la luce».

Un viaggio affascinante…

«La litoranea è meraviglio­sa, ma se sei sulla barca, dalla strada mica tanto… E poi in Puglia non c’era la strada che c’è oggi, si girava largo, fino a Foggia, poi per una statale tutta curve si arrivava a Matti­nata. Quella strada era un in­ferno di caldo, nausea e vomi­to. Arrivavamo sfiniti, il bam­bino vomitante era un bel problema».

Finalmente in acqua.

«Eh no, vegn chi che ghe da munta’ la tenda. Tutti dove­vano aiutare… Poi eravamo li­beri. Ho vissuto nel mare, nella mia vita sono stato in acqua finché ho potuto».

Cosa altro facevate?

«Si andava a raccogliere la legna per il fuoco sulla spiag­gia, cucinavamo i peperoni arrostiti, le salsicce, le patate nella stagnola, le polpette. Sarà da lì che ho sviluppato l’amore per il cibo, tanto da aprirci cinque ristoranti, il Meatball Family».

La sera?

«Non c’era turismo, anda­vamo in paese, c’era un cine­ma all’aperto, con la luna e il Faro di Vieste sullo sfondo, noi bambini ci addormenta­vamo perché eravamo cotti. Anche se sulle sedie di ferro era faticoso, allora portavamo i cuscini, c’era chi veniva di­rettamente con la sdraio, op­pure chi incastrava il materassino sgonfio nella seggio­la. Ricordo i panzerotti incan­descenti, ci bruciavamo la bocca e diventavamo tutti dei Belén. Era una vacanza straor­dinaria. Siamo andati lì da quando avevo tre mesi — si­curo mi avevano concepito lì i miei l’anno prima fino ai 15 anni quando ho iniziato ad andare per conto mio».

Ha viaggiato tanto anche per lavoro.

«In quel caso entri in un al­tro meccanismo, conosci le persone in un altro modo, co­nosci sfaccettature che da tu­rista non riesci a cogliere. Sono stato in Marocco tante vol­te, un posto che mi ha strega­to, mi piace da matti la gente, mi diverto a contrattare e comprare nei mercati».

Tutti pensiamo a «Marrakech Express», il film di Salvatores, 1989.

«Ma ci ero già stato l’anno prima per II segreto del Saha­ra, miniserie di Alberto Negrin con un cast pazzesco: Ben Kingsley, Andie MacDowell, David Soul, Mi­guel Bosé… Negrin mi disse: vieni, vedrai che ti diverti, ci sarà sangue, sudore e polve­re. Gli risposi che io con san­gue, sudore e polvere non mi diverto un cazzo. La verità è che non faccio questo mestie­re perché ho il sacro fuoco dell’attore, avevo intuito che se fosse andata bene avrei passato metà della vita in gi­ro».

Un cast pazzesco, e come compagni di viaggio?

«Partimmo da Roma per Casablanca in aereo; David Soul, il biondo di Starsky & Hutch, aveva anche delle vel­leità non corrisposte da can­tante folk e purtroppo si era portato una chitarra: ci scassò i maroni per tutto il volo. Mi sembrava un incubo, avevo il magone per aver lasciato la fi­glia piccola nata da poco, ave­vo la sensazione di andare al militare. Pensavo: ho fatto una cazzata a partire, il san­gue, il sudore, il cumino, il country… che pirla».

Folk a parte, andò meglio?

«Anche questa storia po­trebbe durare tutto il giorna­le, cerco di sintetizzarla… Do­vevamo girare tutte le scene con i cammelli, ma a me pare­va strano fare ‘sto cinema con i cammelli: io li vedevo solo sputare e recalcitrare».

Non proprio mansueti.

«Li tenevano fermi con anelli di ferro nel naso e una corda legata che gli piegava la zampa. Stavano imbizzarriti tutto il giorno, litigavano e sputavano. A un certo punto spunta questo William West McNamara, forse nipote del generale, che per fare il figo sale sul cammello: l’animale va in sbattimento, strappa l’anello del naso e sanguinan­te con McNamara in groppa parte a cento all’ora verso le dune del deserto. Ricordo l’attrezzista, Gianni Fiume, detto Johnny River, che parte a piedi a rincorrerlo. Non ne abbiamo saputo più niente per ore. Da lì tutti hanno ini­ziato a dubitare dei cammelli. La verità è che il cammello fa quel cazzo che vuole».

corrieredellasera