Scoperta nel 1932 in occasione della costruzione dell’acquedotto Manfredonia – M. S. Angelo, vi si accedeva attraverso un orifizio che i lavori di scavo per la posa delle tubazioni avevano casualmente aperto ai margini di un camerone, poco distante dal punto dove in seguito è stato localizzato l’ingresso originario ostruitosi nel Tardo Neolitico. Tale ingresso è rimasto completamente impercorribile fino al 1979, quando è stato in parte riattivato per facilitare le operazioni di scavo che l’Istituto di Archeologia dell’Università di Genova ha condotto assieme a quelli dell’Università di California di Los Angeles e del Mississipi del Sud.
I risultati di questi scavi, che hanno permesso interessanti osservazioni sul deposito terroso esistente nei pressi dell’ingresso e il recupero di ingente materiale ceramico appartenente a varie fasi del Neolitico del Tavoliere foggiano (TINE’, 1975), verranno ampiamente illustrati in altra sede da M. Gimbutas e da S. Winn che hanno direttamente curato i lavori.
Qui si intende riferire e documentare in maniera completa e definitiva i risultati raggiunti nel 1967 con l’esplorazione della parte più profonda della grotta, dove si è ritenuto di aver localizzato i resti di un cerimoniale religioso collegato ad un “culto delle acque” ivi praticato attorno alla metà del IV millennio a.C.
Di tale scoperta sono state già date più o meno dettagliate relazioni (TINE’, 1965; 1972), ma solo ora, dopo gli scavi effettuati nel 1979 nella parte alta della grotta, si è in grado di presentarla nella sua interezza e in rapporto al suo originario contesto, costituito dai resti di un’intensa e prolungata frequentazione dell’avangrotta, la cui natura non sempre può essere ritenuta di carattere rituale.
Riassumeremo pertanto i dati salienti di questi scavi dopo che avremo presentato e tentato di interpretare i dati raccolti nel corso dell’esplorazione del 1967.
Nel settembre 1967, l’Ufficio di Foggia della Soprintendenza Archeologica della Puglia venne informato che alcuni giovani speleologi di Manfredonia avevano scoperto uno stretto passaggio che immetteva in una nuova galleria della grotta Scaloria e che, durante il corso delle loro frequenti esplorazioni, avevano notato e in parte manomesso numerosi vasi preistorici, alcuni dei quali perfettamente integri.
Dopo una prima sommaria esplorazione, che permise di constatare la natura eccezionale del rinvenimento, venne organizzata una sistematica esplorazione, preceduta da un attento rilevamento di tutta la cavità, che poté essere eseguito grazie alla collaborazione del Gruppo Grotte E. Boegan della Società Alpina delle Giulie di Trieste.
La grotta Scaloria risulta composta da un ampio camerone (m. 80 x m. 100 circa) a cui originariamente si accedeva da un ingresso, che doveva essersi formato dopo il crollo di una porzione della sua volta. La formazione della grotta è del tipo cosiddetto d’interstrato, cioè dovuto al vuoto che deve essersi generato tra due strati di calcare che si sono separati a seguito di un movimento tettonico o per l’erosione dei materiali di interstrato. Tale vuoto, che declina da Nord verso Sud seguendo l’inclinazione degli strati calcarei, è molto esteso in senso orizzontale, ma varia da pochi cm. (e quindi è inagibile) a non oltre i 2 m. di altezza che raggiunge solo in pochi punti. In genere non supera il metro ed è pertanto percorribile con grandi difficoltà rese ancora più acute dalla formazione di concrezioni che ornano la volta e il pavimento.
Dal camerone iniziale si può raggiungere l’area bassa della grotta, sede della frequentazione cultuale, attraverso un percorso obbligato, impropriamente denominato galleria, ma in pratica una fessura per lunghi tratti ampia solo quanto basta per far passare un uomo, che però data la ridottissima altezza è costretto a procedere carponi.
Solo nel primo camerone, denominato “camerone Quagliati” perché sede degli scavi di questi nel 1932 (Quagliati, 1936), si nota un deposito terroso che segue l’andamento inclinato del pavimento e che, non superando il metro di altezza, termina a circa una trentina di metri dall’ingresso, dove si riduce a pochi centimetri di spessore.
Sul lato Sud-Ovest del camerone Quagliati è stata recentemente scoperta (1973) la possibilità di un passaggio, attraverso una fessura, che conduce nella parte più profonda della vicina Occhiopinto. Questa fu anch’essa, durante il Neolitico, sede di frequentazione, forse a carattere rituale, ma i suoi resti sono stati completamente manomessi prima che vi si potesse condurre qualsiasi studio. Rimane assolutamente improbabile che i neolitici abbiano conosciuto il percorso per transitare da una grotta all’altra, nè si vede l’assoluta necessità di ammetterlo, ora che sappiamo con certezza che la Grotta Scaloria presentava all’epoca un suo ingresso indipendente altrettanto comodo quanto bello, mai interratosi, della vicina Occhiopinto.
Le prime osservazioni sui reperti archeologici nella parte più profonda della Scaloria si avvalsero della collaborazione degli speleologici triestini e dei giovani scopritori. Con l’aiuto di questi ultimi, si cercò in un primo momento di ricostituire quei raggruppamenti di vasi da loro manomessi, ma presto ci si accorse che la gran parte dei reperti restava ancora in situ, concrezionata sul fondo roccioso o inglobata nella formazione stalagmitica. Pertanto tutte le osservazioni vennero concentrate solo su questi ultimi, al fine di giungere ad una interpretazione del complesso archeologico.
Risultò subito chiaro che i raggruppamenti di vasi erano distribuiti in varie parti dell’impervia galleria.
In seguito però si osservò la loro massima concentrazione nella parte finale di essa, specialmente in un’area pianeggiante al centro della quale si apriva, intagliata nel fondo roccioso, una vaschetta rettangolare (m.0,90 x 0,50 x 0,15) che continuava a raccogliere le acque di stillicidio della volta soprastante.
La presenza di un ampio focolare nei pressi di questa vaschetta, con evidenti resti di pasto costituiti da ossa di animali semicombusti, stava a confermare che questa zona della grotta era stata il principale punto di sosta dei frequentatori neolitici senza però ancora lasciare sospettare la vera ragione di tale frequentazione. In seguito ad una più attenta osservazione dei raggruppamenti di vasi, si notò che quasi sistematicamente essi apparivano disposti attorno ad una stalagmite spezzata in antico, la cui parte alta era adagiata sul fondo della grotta e il cui troncone di base conservava ancora tracce di un vaso originariamente posto su di esso.
Tale constatazione ci porta ad ipotizzare un cerimoniale connesso con un particolare culto dedicato alle acque di stillicidio.
Grotta Scaloria, vaschetta rettangolare, tuttora ricolma di acqua di stillicidio, scavata nella roccia in uno degli ambienti della parte bassa della grotta in posizione centrale rispetto ai raggruppamenti votivi di vasi.
I rimanenti vasi che componevano il gruppo votivo sono stati da noi ritrovati spesso in frantumi, sparsi attorno al troncone stalagmitico, in un raggio di un paio di metri. Nei casi, piuttosto frequenti, in cui tali frammenti erano stati cementati sul fondo roccioso dalla concrezione stalagmitica, questi lasciavano ancora intravvedere le forme e posizioni originarie dei vasi a cui essi si riferivano.
Pertanto, nonostante una evidente dispersione di alcuni frammenti di vasi, subita forse già in antico, a cui si era raggiunta quella operata dai primi scopritori, non sembra esservi dubbio che, originariamente, attorno al vaso posto sul troncone stalagmitico se ne allineassero altri tre o quattro posti direttamente sul fondo roccioso.
Se la funzione del primo vaso è apparsa fin troppo evidente, posto come era (e come è stato da noi spesso trovato) in posizione atta ad accogliere lo stillicidio della corrispondente stalattite, non del tutto certa è apparsa quella dei rimanenti vasi che costituivano i singoli raggruppamenti.
Grotta Scaloria, particolare del culto delle acque, vasi posti accanto a stalagmiti spezzate
E’ infatti difficile poter stabilire quale fosse la loro reale funzione al di là del fatto che fanno da contorno al vaso posto direttamente sul troncone stalagmitico. Erano anch’essi destinati ad accogliere le acque di stillicidio della volta?
Oppure contenevano delle offerte dedicate ai singoli complessi votivi localizzati in quei soli punti dove l’intenso stillicidio in epoca precedente al neolitico aveva permesso la formazione di grosse stalagmiti?
Appare ovvio che propendere per una di queste due possibilità significa dare significati alquanto diversi alle motivazioni del culto stesso.
Nel primo caso infatti potrebbe conseguire un significato utilitaristico di tale culto, cioè una semplice operazione intesa a raccogliere l’acqua di stillicidio che poteva essere utilizzata magari a scopi salutari e/o terapeutici.
Nel secondo caso, invece, dovremmo ipotizzare un significato invocatorio, una richiesta di mediazione alla divinità, ritenuta capace di far sgorgare l’acqua dalla roccia.
Almeno tre osservazioni, che sarà opportuno descrivere attentamente, potrebbero far propendere per quest’ultima interpretazione:
– appare molto probabile che all’epoca in cui venne praticato il culto osservato, lo stillicidio della grotta fosse meno intenso ed esteso di quanto lo sia stato in seguito; forse era concentrato solo in alcuni punti della grotta, particolarmente in quelli dove sono stati ritrovati i complessi cultuali. Solo in queste aree infatti si erano formate delle grosse e alte stalagmiti con un diametro alla base di circa 20 cm. e un’altezza superiore al metro. Gli esempi più chiari, in tale senso, mostrano adagiate sul fondo le stalagmiti che vennero rotte dai neolitici, i vasi posti accanto al troncone residuo e la crescita della nuova stalagmite. Vasi posti attorno difficilmente avrebbero potuto raccogliere acque di stillicidio, in quanto nell’area tale stillicidio non c’è mai stato, come in qualche caso dimostra l’assenza di concrezione sul fondo, mentre in altri casi sembra si sia instaurato in epoca successiva al Neolitico. Tutti i vasi impiegati per il rituale descritto appartengono alla classe più nobile della ceramica prodotta nell’epoca, sono cioè della classe figulina decorata con motivi a bande rosse semplici o contornate da motivi in nero ottenuti con la tecnica a negativo. Anche i pochi esemplari attualmente acromi potevano originariamente possedere una decorazione a bande rosse, completamente evanida a causa delle forti incrostazioni calcaree che la ricoprivano. Solo in un caso, un orcioleto ritrovato per altro isolato, lungo la galleria e lontano dai complessi votivi, siamo in presenza di ceramica d’impasto bruno levigato. Il costante uso delle ceramiche più fini farebbe escludere un impiego semplicemente funzionale dei recipienti cioè quello di raccogliere acque sia pure considerate salutari o purificatrici;
– l’assoluta unitarietà stilistica dei materiali ceramici impiegati nel culto, la presenza di un solo focolare nei pressi della vaschetta e il numero limitato delle ossa semicombuste in esso contenute (siano esse riferibili o non a resti di pasto sacro), farebbero escludere che la frequentazione di questa parte della grotta sia stata prolungata nel tempo. Tutto infatti farebbe pensare che essa non fu ripetuta per molte volte e per molto tempo qualunque sia stata la motivazione che indusse i frequentatori della parte alta della grotta a spingersi, non senza aver superato delle difficoltà, fino nella parte più profonda di essa per celebrarvi un simile culto.
Forse gli effetti invocati non furono esauditi, e la popolazione interessata fu costretta ad abbandonare completamente la grotta? E’ certo infatti che un simile culto non venne mai più ripreso da parte di chi ricominciò a frequentare la parte alta della grotta, sia pure al solo scopo sepolcrale.
Non si tratta quindi di un luogo consacrato nel tempo, come ci si aspetterebbe per uno dedicato al culto delle acque salutari, se esso fu ignorato sia dai precedenti frequentatori della parte alta della grotta sia da quelli che vi ritornarono in seguito; ma piuttosto di un culto eccezionale collegato a fatti eccezionali che è difficile, come diremo in seguito, non collegare alle eccezionali condizioni che si vennero a creare nel Tavoliere e che ne determinarono l’abbandono proprio nell’epoca (3530 + – a.C.) in cui questo culto è stato datato dai carboni raccolti nel focolare posto vicino alla vaschetta rettangolare (Alessio et Al., 1969).
Grotta Scaloria. In alto: Porzione del fondo di un vaso posto sul troncone di una stalagmite su cui si è riformata una nuova concrezione. I frammenti dello stesso vaso e la parte spezzata della stalagmite sono visibili sulla sinistra. In basso: un vaso immerso nella colata stalagmitica
Essendo il programma esplorativo del 1967 concentrato sul rilevamento della grotta, sul posizionamento dei gruppi votivi e sulla relativa documentazione fotografica, ogni più accurato studio e raccolta di dati, intesi a chiarire ulteriormente il significato del rituale, vennero rinviati ad altro momento.
Molta attenzione venne invece dirette ad accertare il possibile rapporto tra i raggruppamenti rituali e l’esistenza, nella parte terminale della grotta, di alcuni laghetti. Venne così constatato che la più vicina presenza neolitica a tali laghetti era costituita da uno scheletro umano posto, in posizione seduta con le gambe stese, in un anfratto a circa m.15 dal principale di essi. Una delle gambe presentava una frattura di tipo traumatico del collo del femore che fece subito pensare ad un incidente, divenuto mortale per uno dei celebratori del rito, date le difficoltà di risalita.
Grotta Scaloria. In alto: Esplorazione del fondo del laghetto, profondo tre metri circa, situato nella parte più bassa della grotta. In basso: resti scheletrici trovati in un anfranto in prossimità del laghetto.
La successiva segnalazione (1978) del rinvenimento di un cranio e di altre ossa umane in un anfratto, in prossimità dell’area della vaschetta rettangolare, non contrasta con l’ipotesi dell’eventuale incidente anche se non necessariamente deve essere estesa anche a quest’ultimo ritrovamento.
L’assenza di rinvenimenti di natura archeologica nei pressi dei laghetti, constatata anche per il loro fondale mediante una attenta osservazione durante le ripetute immersioni di un sommozzatore, difficilmente potrebbe voler dire che tali laghetti non rivestivano alcuna importanza nella celebrazione del culto. Piuttosto potrebbe essere dovuta ad una volontaria astensione dell’avvicinarsi a quei luoghi a cui forse veniva attribuita la maggiore sacralità, se addirittura non vi si vedeva l’espressione concreta della stessa divinità invocata.
Comunque occorre tener presente che di tali laghetti solo uno, quello situato nella parte terminale della grotta, con la sua profondità di circa 3 m., era quasi certamente presente, mentre tutti gli altri si possono essere formati in seguito all’innalzamento del livello marino degli ultimi 5500 anni.
Ipotizzando la presenza di un solo laghetto, sia pure di forma diversa da quella attuale, e attribuendo ad esso la sacralità di cui si diceva prima, si potrebbe perfino vedere nella vaschetta rettangolare una artificiale riproduzione di esso (e quindi l’immagine della divinità) attorno a cui consumare cerimoniali collettivi.
La presenza di tali resti scheletrici e di qualche altro, ancora non visto, non dovrebbe modificare il quadro generale del culto descritto per questa parte della grotta.
Qualcosa del genere è stato constatato in altro luogo di culto, e cioè nel fondo della grotta S. Calogero di Sciacca dove sono state localizzate almeno tre inumazioni, non in diretto rapporto con i raggruppamenti di vasi contenenti offerte votive.
Il significato di questo ristretto numero di inumazioni in luoghi certamente consacrati a culti non funerari, riservate a personaggi che potremmo anche immaginare di rango speciale nella società o direttamente implicati nel culto stesso (sacerdoti?), non può che rimanere misterioso. E’ forte comunque la suggestione di poterle accostare ai seppellimenti riservati nelle Chiese cristiane a personaggi illustri.
Il complesso di 31 vasi presentato, costituisce tutto quanto è stato possibile ricostruire dal materiale recuperato nel corso dell’esplorazione 1967, limitatamente agli esemplari che erano stati precedentemente rimossi dai primi scopritori o che si trovavano in condizione di essere facilmente asportati senza compromettere la unitarietà dei gruppi votivi. Tali gruppi erano stati contrassegnati sul rilievo e s’intendeva o ricomporli direttamente in situ riportandovi gli originali prelevati, o ricostruiti in museo dopo il completamento del recupero.
Purtroppo, come si è accennato, gli eventi successivi alla nostra esplorazione hanno reso impossibili entrambe le soluzioni.
Pertanto, poichè una parte dei vasi era già stata prelevata dagli scopritori senza precise notazioni dei gruppi di appartenenza e i rimanenti non possono più essere visti nel loro originario contesto votivo che è stato irreparabilmente distrutto, si è qui ritenuto di presentare il materiale raggruppandolo per forme.
Tale criterio è stato preferito a quello della tecnica decorativa anche perchè si era già potuto constatare, durante l’esplorazione, che allo stesso gruppo votivo appartenevano sia vasi decorati a bande rosse semplici sia a bande marginate con motivi in nero ottenuti a negativo.
Quest’ultima tecnica è stata già indicata (TINE’, 1972) come “tecnica a cancellatura” ma dopo la scoperta del villaggio di Catignano in Abruzzo, dove la stessa è ampiamente rappresentata, il Tozzi (PITTI, TOZZI, 1976) l’ha meglio individuata come tecnica a negativo, ipotesi confermata anche sperimentalmente (NOVELLI, 1980). Si tratta di una decorazione preparata con grasso animale nei punti dove non si vuole che il colore nero aderisca alla parete del vaso. Successivamente tutta la zona da decorare viene coperta da colore nero che in fase di cottura scompare, per combustione del sottostante strato di grasso, nei punti in cui questo era stato distribuito. L’effetto decorativo finale sarà quello presentato dalle aree che prima erano state risparmiate dallo strato di grasso, quindi decorazione a “risparmio” o a “negativo”.
Che tale tecnica venisse impiegata contemporaneamente a quella tradizionale a sole bande rosse, così come indicavano i rinvenimenti della Scaloria, è stato confermato da analoghe associazioni sia nel villaggio di Catignano che in quello di Passo di Corvo. Pertanto tale associazione deve essere tenuta presente nella definizione di “Stile Scaloria Bassa”, anche per permettere una più chiara distinzione cronologica di tale stile rispetto a quelli precedenti nel Tavoliere, caratterizzati prima da bande rosse e bianche e poi da sole bande rosse, la cui sintassi decorativa è per altro diversa.
E’ ovvio che la cultura sottintesa da tale stile, che potremmo meglio chiamare “Scaloria Bassa – Catignano” anche per sottolineare alcune varianti locali nell’area in cui esso è finore individuato, è in questa sede solo parzialmente ricostruibile trattandosi di un complesso votivo, per il quale volutamente erano stati scelti solo vasi appartenenti a una sola classe ceramica.
E’ probabile che nella parte alta della grotta una tale ricostruzione della cultura possa essere ancora possibile anche se finora si è avuta l’impressione che i molti sconvolgimenti, operati dal Quagliati in poi in un deposito tra l’altro di limitato spessore e già compromesso dallo scavo delle tombe neolitiche, abbiano alquanto ridotte queste possibilità.
Riferiamo ora, sia pure brevemente e al solo fine di chiarire le motivazioni del culto installatosi nella parte bassa della grotta, i risultati degli scavi eseguiti nella parte alta di essa.
Nell’estate 1978 un’attenta prospezione magnetometrica, eseguita dalla Fondazione Lerici, valse a localizzare un’ampia anomalia che veniva a corrispondere all’area dove era stato ipotizzato, in base al rilevamente interno, l’originario ingresso della grotta completamente interrato. Si procedette ad aprire di un ampio saggio, prima con escavatore meccanico e in seguito con scavo a mano. Quest’ultimo mise in luce un deposito di riempimento ricco di reperti archeologici, ma del tutto privo di coerenza stratigrafica. Frammenti dei vari stili ceramici, che in seguito sarebbero stati trovati anche nel deposito del camerone Quagliati, si presentavano qui misti in tutti i livelli, in un deposito per molti aspetti simile a quello che viene ritrovato entro i fossati di recinzione e a “C” dei villaggi neolitici del Tavoliere.
Si è avuta infatti la netta impressione che nell’originario ingresso della grotta (una specie di pseudo dolina carsica, simile a quella della vicina grotta Occhiopinto) sul finire del Neolitico, sia precipitato, fino a colmarlo, del terreno dilavato da una vicina area abitata.
Ciò permetterebbe di avanzare l’ipotesi dell’esistenza di un villaggio all’aperto, non lontano dall’ingresso della grotta, da cui potrebbe provenire simile interro. Tale ipotesi non è stata però finora confermata dai saggi eseguiti in prossimità di questo ingresso che hanno restituito solo qualche scheggia di selce ma non un solo frammento ceramico. D’altra parte, nel corso della campagna 1979, non fu possibile eseguire altri saggi (non avendo ottenuto il permesso del proprietario del terreno) in un’area maggiormente indiziata, posta circa ad 80 m. ad Est dall’ingresso.
Qui il rilevamento magnetometrico segnalava, in corrispondenza di tracce apprezzabili sulla foto aerea, un’altra significativa anomalia, che potrebbe anche essere riferita a strutture (fossati?) di un villaggio neolitico.
Riaperto l’ingresso, i lavori vennero concentrati all’interno della grotta eseguendo alcuni saggi nella stessa area dove il Quagliati aveva raccolto nel 1932 numeroso materiale ceramico e litico, ora conservato, pressocchè inedito, al Museo di Taranto (RELLINI, 1934; QUAGLIATI, 1936).
Nonostante gli evidenti ed ampi sconvolgimenti dello strato archeologico, operati da scavi clandestini successivi all’esplorazione Quagliati, i saggi hanno permesso di raccogliere sufficienti elementi per considerare l’area come necropoli propria del momento finale della frequentazione della grotta, prima che un’ampia frana ne ostruisse l’ingresso, sigillando così il tutto, fino alla accidentale riapertura del 1932.
Nessuno dei saggi aperti però è stato in grado di restituire da solo una completa e attendibile seriazione stratigrafica. Ma i dati restituiti da questi saggi, considerati nel loro complesso, e tenendo conto della tipologia e distribuzione quantitativa dei tipi ceramici, permettono di tracciare le successive fasi della vita nella grotta, fasi che possono essere coerentemente riferite alla sequenza delle culture preistoriche ricostruita con gli scavi dei villaggi neolitici del retrostante Tavoliere (TINE’, 1975):
– uno strato, di cui non è stata ancora raggiunta la base, ha restituito resti del Paleolitico finale;
– uno dei saggi aperto in prossimità dell’ingresso ha presentato una concentrazione di ceramica impressa che attesta una apprezzabile frequentazione nell’ambito del Neolitico antico ;
– un altro saggio ha presentato quasi integro uno strato contenente ceramiche figuline dipinte nella tipica decorazione denominata dello stile della Scaloria Bassa (TINE’, 1972; 1975) (fase IV b del Neolitico del Tavoliere). E’ durante questa fase che si deve inserire la celebrazione del culto nella parte bassa della grotta;
– nello strato superficiale, il più sconvolto, quasi tutti i saggi hanno restituito ceramiche decorate nello stile tipico della Scaloria (RELLINI, 1934) che per distinguerlo dal precedente è stato proposto di ridenominare stile della “Scaloria Alta” (TINE’, 1972; 1975). Associati a queste ceramiche o comunque, date le condizioni di sconvolgimento di questo strato, non distinguibili da esse, sono apparsi anche alcuni esemplari di vasi decorati in uno stile molto vicino a quello noto nel villaggio di Ripoli (CREMONESI, 1965) e ad alcuni esemplari ritrovati nella grotta di S. Angelo III a Cassano Jonio (TINE’, 1964);
– sia pure in quantità minima e pertanto in nessun caso formanti strati apprezzabili, sono stati raccolti sporadicamente anche esemplari di vasi dello stile di Masseria La Quercia (fase 3), decorati a bande bianche fase 4 a1) e alcune anse a rocchetto dello stile di Masseria Bellavista – Diana (fase 7).
Da quanto detto, almeno per il momento, si può concludere che la Grotta Scaloria venne frequentata, oltre che durante le ultime fasi del Paleolitico, nel corso di tutte le fasi del Neolitico del Tavoliere sia pure non sempre con la stessa intensità e assiduità. Piuttosto sporadici sono infatti i resti riferibili alle fasi antiche (1 – 2 – 3) e media (4 a), mentre diventano imponenti quelli della fase 4 b, corrispondente sia al momento di abbandono dei villaggi del Tavoliere sia alla celebrazione del culto nel fondo della grotta stessa.
Che possa esserci una connessione diretta tra questi due ultimi avvenimenti, non sembra si possa disconoscere nè sottovalutare. E’ infatti significativo, a questo proposito, che durante il successivo impiego della grotta come necropoli per gente che probabilmente abitava nella stessa grotta o in qualche villaggio in prossimità di essa, corrisponda un periodo di pressochè totale mancanza di vita nell’area del Tavoliere. Nessun frammento del caratteristico stile della Scaloria Alta è stato infatti segnalato finora nelle parecchie centinaia di campionature raccolte in superficie nei villaggi del Tavoliere o tra i materiali dei villaggi già scavati, mentre solo sporadicamente tracce di tale epoca appaiono in aree ai margini del Tavoliere stesso, nei territori al di là dei due fiumi Ofanto e Fortore, che ne delimitano i naturali confini, e nelle isole Tremiti.
Simili fatti permettono di attribuire un particolare significato al cerimoniale svolto nella parte profonda della grotta che, data anche la omogeneità dei reperti ceramici, può essere riferito ad un solo periodo del Neolitico, se non proprio ad un momento particolare di tale periodo. La datazione (3530 + – a.C.) ottenuta dai carboni raccolti nei pressi di quella che possiamo definire la struttura principale del culto (la vaschetta rettangolare), può essere considerata indicativa di tale particolare momento, che possiamo ritenere anche coincidere con la fine del periodo 4b.
L’abbandono della grotta dopo la celebrazione di tale culto, se non proprio l’estinzione della popolazione che l’effettuò, potrebbe essere attestato anche dal rinvenimento di una singolare tomba contenente i resti di oltre venti inumati per lo più bambini, donne e adulti anziani. Tale tomba mostra le caratteristiche di una fossa comune eseguita per accogliere le vittime di una epidemia, che può essersi rivelata particolarmente ferale nei riguardi dei soggetti più deboli di una comunità affetta da malaria cronica, attestata da tracce inequivocabili presenti in molti degli inumati.
Anche la assenza di corredo, a parte due pendagli alle orecchie di un adulto anziano, fa propendere, in accordo con il rito funebre osservato a Passo di Corvo (TINE’, 1972) per una datazione di questa fossa ancora nella fase 4b, mentre il fatto che essa sia stata interamente incassata nel deposito di tale fase, induce a datarla attorno alla fine del periodo stesso.
Pertanto in base a tutte le suddette considerazioni è verosimile che ci sia stata una stretta connessione tra il culto praticato sul fondo della grotta e gli eventi che portarono le ultime popolazioni della fase 4b, stanziate all’ingresso della Scaloria, ad abbandonare il sito per raggiungere altri più idonei e salutari fuori dal Tavoliere.
Quale ruolo abbia giocato in questa decisione l’acuirsi del clima malarico, specialmente nell’area costiera del Tavoliere, è possibile immaginarlo dal modo in cui, contrariamente ad ogni rituale funebre neolitico, venne sepolta una buona parte di quella comunità.
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S. TINE’ – E. ISETTI
Istituto di Archeologia – Università di Genova