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KARL “VOLKSWAGEN” CI HA LASCIATO. QUEL MITICO 1970 A BAIA DELLE ZAGARE…

Gerì (Girolamo Ruggieri) restò impietrito. Il mito lo riprese, ma rimase bloccato. A quel punto intervenne Michelino (Clemente). Era sceso in spiaggia alle 11,00 di quella splendida giornata di quel mitico luglio targato 1970. Tutto un mito: anche quei 18 anni. Ero bagnino a Baia delle Zagare, splendida località che fin dalla prima ora ha visto ospiti di un altro pianeta.

 Il mitico campionato del mondo del 1970, era appena terminato, con la leggendaria e mitica partita del 4-3 tra Italia e Germania. Karl-Heinz Schnellinger con Fabio Cudicini, altro mito del grande Milan di paron Rocco, vennero a soggiornare a Baia delle Zagare. Due splendide famiglie.

 “Volkswagen” segnò il gol del pareggio e dopo una settimana era a Baia. Aveva un caviglia in disordine.

Iniziò così quella mitica settimana. Decine i giornalisti, per le slavine di interviste, da David Messina a Cucci, Oscar Eleni, Ormezzano che accompagnammo sotto l’ombrellone della leggenda Schnellinger,

Quella mattina il mito sorprese Michelino che si stava preparando pane e pomodoro che volle assaggiare, così per una settimana scendeva a trovarci per divertirsi con il nostro dialetto e per la nostra pseudo “acquasale” all’acqua di rose.

“Ma veramente Rivera è il giocatore più veloce al mondo”, gli ribattei, quel mitico mercoledì mattina. Lo aveva sottolineato il giorno prima nella chiacchierata con Ormezzano, a proposito della staffetta con Mazzola, che Lui non concepì. “Rivera è l’unico giocatore con il pallone sempre incollato a due centimetri dai piedi e la testa alta su altri pianeti. Non ha rivali al mondo – mi puntualizzò.

Facemmo le foto di rito che conservo con la sua battuta: “le facciamo seduti sui bidoni, così scongiuriamo la brutta campagna acquisti che si prospetta quest’anno”.

Quell’anno al Milan arrivarono: Giorgio Biasiolo, Romeo Benetti, Silvano Villa e Giulio Zignoli.

Mi invitò a Milanello, che ebbi modo di frequentare solo dalla soglia del nuovo millennio. Ci regalò enormi teli da mare con il numero 3 (la sua maglia) e plaid rossoneri che ancora oggi a distanza di oltre 50 anni conservo gelosamente in ricordo di un abbraccio e due bacini alle meravigliose, Daniela e Catrin, sue prime due bambine.

Grande Karl: in fondo, al crepuscolo della vita è nei ricordi che viviamo…

Un abbraccio finchè non ci rincontreremo!

….e nonostante i tanti lestofanti di oggi… sempre forza milan!!

n.

òòòòòòòòòòòòòòòòòòò

ADDIO SCHNELLINGER: AVEVA 85 ANNI. PROTAGONISTA DI ITALIA-GERMANIA 4-3, HA VINTO TUTTO COL MILAN

Se n’è andato come quel giorno all’Azteca, di sguincio, con passo lento ma definitivo, nella notte della partita durata una vita, senza far rumore: così Karl-Heinz Schnellinger, il Panzer che con il suo gol alzò il sipario sulla partita più iconica del secolo scorso, quell’Italia-Germania 4-3 al Mondiale messicano che – a guardarlo nello specchietto retrovisore del tempo – univa il suo destino di uomo e di calciatore, verrebbe da dire le sue due patrie. In Germania ci è nato, a Duren, nella Renania-settentrionale in Italia ci ha vissuto, fino alla fine dei suoi giorni. Quel gol Schnellinger lo segnò allo scadere perché pensava che ormai la partita fosse finita, guardò l’orologio che stava sopra la tribuna e decise di avvicinarsi agli spogliatoi e uscire di scena il prima possibile. Non sapeva che quella sua spaccata così inusuale – quello rimane l’unico gol delle sue 47 partite in Nazionale – avrebbe offerto la password per i supplementari più straordinari dell’epoca moderna. Alla fine con grande onestà ammise che gli azzurri avevano meritato di vincere e in fondo, sembrava pure un po’ contento.

Perché era impossibile non volere bene a Carletto, come lo chiamavano al Milan. Quando arrivò in Italia era il 1963, aveva 24 anni, fino a quel momento aveva giocato nel Colonia con cui l’anno prima aveva vinto il campionato. Lo comprò la Roma, che lo parcheggiò un anno a Mantova e poi se lo riprese. A quel punto Karl passò al Milan, dove ha scritto pagine leggendarie. Nove stagioni (1965-1974), 344 partite, 3 soli gol e tutti in Coppa Italia (non era il suo mestiere), uno scudetto (1968), una Coppa dei Campioni (1969), una Coppa Intercontinentale (1969), due Coppe delle Coppe (1967 e 1973), tre Coppe Italia (1967, 1972, 1973). A volerlo al Milan era stato Gipo Viani, diventerà uno dei fedelissimi del “Paròn” Rocco. Questi gli ordinava di rimanere a presidiare la sua zona di competenza, senza spingersi in avanti, non era il caso. Terzino sinistro, grande e grosso, un carroarmato, un Panzer (altro soprannome), ma anche “Volkswagen” per l’affidabilità e la robustezza, oppure per qualche giornalista “Carlo Martello”, per come sapeva adoperare il tackle.

Con la Nazionale tedesca giocò quattro Mondiali. Nel 1966 la Germania arrivò in finale, ma venne sconfitta dai padroni di casa dell’Inghilterra, con un gol non valido di Hurst. Quattro anni dopo, come detto, a Messico 70, i tedeschi vennero eliminati in semifinale. Custodiva in quel suo fisico così massiccio una bontà d’animo rara, che l’aveva fatto diventare in poco tempo uno dei punti di riferimento nello spogliatoio rossonero. Aveva un viso rubizzo, due cosce ipertrofiche, da lanciatore di peso. Si muoveva come uno di quei vecchi cingolati, eppure sfoderava una scaltrezza di gambe sorprendente. Nelle fotografie che venivano fatte in estate ci teneva a risultare sempre in ordine. Per questo, nonostante le battute dei compagni, si pettinava a lungo, cosicché non ci fosse un capello fuori posto. Uomo dal carattere mite, sapeva fare spogliatoio, conosceva l’arte di misurare lo spessore dei compagni con un solo sguardo. Carlo il Biondo una volta disse che in Italia, dove era rimasto a vivere, non aveva trovato solo “il sole, ma anche la gioia di vivere”. Nel 1974, chiusa la sua avventura al Milan (saltando però l’ultima partita, quella decisiva per lo scudetto, la Fatal Verona), tornò in Germania, dove giocò la sua ultima stagione con il TeBe Berlino. Ma subito fece seguito il ritorno in Italia, troppa era la nostalgia del nostro paese. In un’epoca in cui i calciatori erano specialisti del ruolo, Karl-Heinz Schnellinger in realtà sapeva fare tutto. Terzino certamente, ma anche libero, nonché mediano a sostegno. In Germania aveva giocato anche come stopper e ad inizio carriera, raccontava, gli allenatori delle giovanili sfruttavano la sua struttura fisica in attacco. 

E’ stato il tedesco più italiano del nostro calcio: per come ha saputo ambientarsi, per il piacere di stare in mezzo alla gente che l’ha sempre contraddistinto. Ma allo stesso tempo un simbolo della Germania, figlio di una generazione di campioni, da Beckenbauer a Gabrowski, da Overath a Gerd Müller. Quella volta di Italia-Germania 4-3, dopo il gol all’ultimo minuto dei tempi regolamentari che aveva momentaneamente inchiodato l’Italia pareggio, Schnellinger fu avvicinato dai suoi compagni del Milan, Gianni Rivera e Roberto Rosato. Minacciosi, entrambi lo guardarono a brutto muso, gli puntarono il dito contro e lo fulminarono con lo sguardo: “Carletto, ma che hai fatto?”. Non c’erano risposte da dare. Lui abbozzò quello che voleva essere un sorriso, voltò le spalle ai compagni e senza dire niente tornò a centrocampo, ancora ignaro dello sviluppo vorticoso che avrebbe preso quella sfida epocale. Aveva fatto il suo dovere, Carletto, come sempre nei suoi 85 anni di vita.

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