Sono molte le affinità tra Giacomo Matteotti e Giuseppe Di Vagno. Entrambi socialisti, furono gli unici due parlamentari uccisi dal fascismo durante il loro mandato. Di Vagno fu trucidato a Mola di Bari il 25 settembre del 1921 al termine di un comizio da un gruppo di fascisti della sua città Conversano.
Matteotti, dopo aver denunciato alla Camera, nella drammatica seduta del 30 maggio 1924, i brogli e le violenze del fascismo durante le elezioni, il 10 giugno del 1924 fu rapito e assassinato dagli squadristi della Ceka fascista capeggiata da Amerigo-Dumini, assoldati da Mussolini.
Nel servizio del tg3 Puglia di Gianni Giampietro, andato in onda stamattina 10 giugno, Gianvito Mastroleo (presidente onorario della fondazione Di Vagno) ha precisato quale fu il legame fra Giuseppe Di Vagno e Giacomo Matteotti: “Che il fascismo trattasse in egual misura, al Nord come al Sud, i propri nemici è dimostrato da questo particolare: il 15 Maggio 1921 durante le elezioni a Fratta Polesine e a Conversano sia Di Vagno che Matteotti non possono avvicinarsi alla propria terra, per cui Matteotti è costretto a seguire le elezioni mentre è nascosto a Padova, di Vagno, in maniera pari, non può restare a Conversano per tutto il periodo elettorale”.
Mastroleo ricorda un episodio legato ai pochi mesi in cui entrambi i leader politici furono parlamentari: nel 1921 è Giuseppe Di Vittorio a descrivere “un disgustoso incidente” che si verifica nel Transatlantico di Montecitorio: “Un popolare ma ultra fascista, che si chiamava Cappa, tenta di aggredire Matteotti, suscitando le reazioni di chi era con lui: la prima reazione fu quella Di Vagno che, dotato di molta energia e di forza erculea – sottolinea Di Vittorio – prende questo deputato antagonista e anziché sbatterlo per terra come pure avrebbe potuto, lo deposita “delicatamente” su uno dei divani del Transatlantico…”.
Di Vagno conferma qui l’appellativo di “Gigante buono”, dal fisico non comune, attribuitogli da Filippo Turati. Matteotti era più esile e gracile di Di Vagno, ma i due deputati erano molto vicini intellettualmente come sensibilità politica. Molto diversi fisicamente, di grandissima affinità non soltanto ideale e culturale ma anche come impegno parlamentare” conclude Mastroleo.
Durante il servizio di Tg3 sono state mandate in onda le immagini della prima pagina del periodico pugliese “Humanitas Gazzetta Autarchica”, giornale fondato a Bari da Piero Delfino Pesce.
Il direttore aprì il suo giornale al libero dibattito di idee senza alcun pregiudizio di appartenenza ideologica. Di fatto la «Gazzetta» di Pesce fu il settimanale più battagliero dei suoi tempi, una delle maggiori palestre di libere idee in Italia, una tribuna aperta a voci diverse: accanto agli articoli di scrittori politici di area liberale e repubblicana, troviamo articoli di scrittori socialisti o di scrittori come Tommaso Fiore. La rivista di Pesce manifestò una notevole disponibilità nell’accogliere le segnalazioni delle voci poetiche più promettenti, come avvenne nel caso di Salvatore Quasimodo.
La rivista aveva un respiro nazionale e i nomi dei seguenti lettori – Antonio Gramsci e Arnaldo Mussolini – testimoniano l’attenzione e l’interesse che in tutta l’Italia, e anche all’estero, circondava la rivista.
«Humanitas» sostenne alcune battaglie decisive nei diversi ambiti della vita politica, economica e sociale del Paese. Sul piano sociale ed economico, diede voce ai problemi più importanti del Mezzogiorno d’Italia, individuando nella politica protezionistica e, insieme, nella struttura latifondistica le cause principali dell’arretratezza delle regioni meridionali; si impegnò nella denuncia dello scandalo dell’Acquedotto Pugliese, ingaggiando una decisiva battaglia contro la privatizzazione dell’acqua; si fece promotore della Legge del Pane, fondata sul principio che lo Stato dovrebbe corrispondere ad ogni cittadino, sin dalla nascita, una razione giornaliera di pane; e, stigmatizzò, infine, la piaga dell’analfabetismo.
Sul piano politico, «Humanitas» auspicò l’affermarsi di una Repubblica federale, capace di garantire le autonomie locali, nonché forme di democrazia diretta; la difesa delle nazionalità oppresse e il diritto dei popoli all’autodeterminazione.
Dopo l’avvento del fascismo al potere, la difesa delle Istituzioni dello Stato liberale e delle libertà democratiche divenne il cavallo di battaglia della rivista pugliese, che dedicò una particolarissima attenzione al caso Matteotti, denunciando apertamente Mussolini come mandante primario del delitto. Da allora la tipografia di «Humanitas» fu devastata per ben cinque volte dai fascisti. Nel dicembre del 1924, in seguito all’ultima devastazione, la rivista cessò di esistere. L’ultimo numero uscì il 28 dicembre 1924.
Nel numero del 29 giugno 1924, “Humanitas” riportava l’editoriale di Antonio Lauricella: “Da Giuseppe Di Vagno a Giacomo Matteotti” che pubblichiamo integralmente.
“Da Giuseppe Di Vagno a Giacomo Matteotti”
Antonio LAURICELLA
Bonomi; Mussolini: due crimini, due epoche che si riscontrano e si completano reciprocamente. Governo debole quello del Bonomi, che tollerò, quando non autorizzò, il delitto; governo forte, nella capacità a delinquere, quello del Mussolini, che usa gli organi più delicati dello Stato per finanziare e perpetrare il delitto. Bonomi, resosi celebre durante la sua permanenza al Ministero di Via Venti Settembre per le armi fornite al partito fascista dalle caserme e dai depositi di munizioni, non continuò la stessa politica nella sua qualità di Presidente del Consiglio, ma dovette subire l’illegalismo da lui stesso creato. L’esercito bivaccava con il fascismo, col pretesto di controbbattere il fantasma inesistente del bolscevismo parolaio, che, negli errori dei pochi criminali trasferitisi oramai nelle orde delle camicie nere, sollecitava lo scoperchiarsi della tomba destinata più tardi a raccogliere le libertà abbattute sotto la catapulta violentemente usata dalla reazione, uscita trionfante dalla svalutazione demagogica della guerra vinta. La dinastia, che, nella vita storica italiana, ha seguito sempre una politica di adattamento ossequioso verso chiunque, poggiando or sulla Chiesa, or sull’Affarismo, si dichiarasse pronto a conservare lo scettro nelle mani del monarca, voluto da Dio e dal Popolo, incoraggiò il Bonomi. Il Bonomi cadeva più tardi, accusato dalla pattuglia parlamentare fascista, quando, in una tarda resipiscenza, aveva stretto i cordoni della borsa. L’infausto Ministero Facta, vittima di tutte le colpe addensatesi sui Ministeri succedutisi durante gli ultimi quattro anni precedenti, apriva lo sbocco naturale al colpo di stato dell’ottobre 1922, che portava a capo della cosa publica Mussolini, il quale, lungamente oscillando fra tutte le forze degli scontenti sbandati, e, or di questi, or di quelli avvalendosi, incuneava nella desiderata direzione dello Stato, la forza compatta e serrata, anelante all’arrembaggio più spaventoso e più deplorevole, di tutti i perversi che più tardi dovevano diventare la banda del Viminale e, logica continuatrice, al governo, della politica di violenza e di criminalità condotta fino al 1922 con il favoreggiamento dei poteri publici, che sono legittimi solo se costituiti a tutela di tutti i cittadini dello Stato.
Le due proditorie e preordinate aggressioni, culminate entrambe nella soppressione violenta a mano armata della vittima designata, hanno, proporzioni a parte, una simiglianza perfettissima nei moventi e nei mandanti.
La uccisione del Di Vagno fu voluta dal vecchio feudalesimo mascheratosi nel Fascismo che nel 1921 tentava la conquista dei publici poteri; la uccisione del Matteotti è stata organizzata dal Fascismo per la conservazione delle conquistate vette dei poteri dello Stato.
Nel primo la delinquenza delle consorterie detronizzate, nel secondo la furfantesca aberrazione di una compagnia di ventura ammaestrata e nutrita nell’anticamera del Capo del Governo.
Il Governo di Mussolini coprì gli esecutori del delitto di Mola con il candido velo di una ignominiosa amnistia pervertitrice; e lo stesso Mussolini copre dal banco del suo governo, con il cinismo della più cieca ambizione, le fosche figure dei mandanti principali, dei più audaci favoreggiatori, ancora inesorabilmente perseguiti dal pubblico clamore, mentre non si peritò mai di esprimere ammirazione e stima per gli attuali accusati quando altri crimini erano stati commessi dagli stessi in ogni parte d’Italia, e quando nuovi delitti si organizzavano nei suoi uffici, proprio nel momento in cui egli, dall’alto di Palazzo Venezia, definiva “fedeli e valorosi collaboratori” simili ribaldi.
Di Vagno, Matteotti. La Puglia e il Polesine guardano ai loro due cari scomparsi: dalla collinetta di Conversano la tomba del martire libertario guarda alla rozza croce che il sentimento di popolo ha segnato sul parapetto del Tevere, e dalle due fiorite sale il profumo intenso delle idealità più sante; e le due fiorite raccolgono intorno un pensiero unanime che va oltre, molto oltre la protesta e l’esecrazione del momento.
Speculazione indegna vuole che i lanzichenecchi danzino sul cadavere insepolto di Giacomo Matteotti e la danza fa aleggiare impudicamente tra veli celestiali il corpo insozzato della normalizzazione nella concordia, mentre macabro risuona, intollerabile insulto, l’invito alle opposizioni di stendere le mani ai governanti responsabili del crimine spaventoso, all’ombra dei quali vengono ancora “coccolati» mandanti e sicari sottratti alla giustizia. No, per Iddio!
Sul cadavere di un caduto non si incrociano le mani della vedova con quelle insanguinate degli assassini e orrido sarebbe l’abbraccio fra l’uccisore e le creature innocenti dello scomparso.
Su questo calvario durissimo della nostra ascesa quotidiana, tendente alla conquista del diritto di vivere, del diritto di pensare, non fa velo al nostro sguardo il sangue della vittima, delle vittime tutte di questa tragica vigilia. Non seme di odio quindi; ma aspirazione potentissima di bene oprare nella speranza suprema di vedere un giorno riconsacrate le magnifiche virtù di nostra razza, che nelle gloriose pagine della sua storia non ha soltanto la delinquenza dei bravi di don Rodrigo, l’audacia del Passatore, la turpitudine del processo Gasparone, la infamia della gesta camorristica che culminò nel processo Cuocolo.
Al di fuori e al di sopra del Fascismo — e di chiunque — esiste grande e vetusto il corpo sacro della Patria, al volto della quale non deve continuare a dare ombra tragica la macchia ignominiosa della delinquenza — accoccolata sotto le troppo grandi ali del regime immondo.
Servizio a cura di Teresa Maria Rauzino