Domenico Sangillo era nato a Rodi Garganico il 29 gennaio del 1922, in quel Gargano che, con la sua naturale tavolozza mediterranea, da sempre fu un magnetico polo di attrazione per i “maestri del colore” italiani e stranieri. Ma lui dal Gargano aveva deciso, giovanissimo, di trasferirsi a Roma.
Fin dalle prime ‘personali’, Domenico Sangillo viene definito un artista “dal singolare estro”, che fa rivivere nelle sue tele le innumerevoli e selvagge bellezze del Gargano e della campagna romana, in un tenue distacco dalla realtà contingente. Sangillo si afferma come artista dallo stile personalissimo, fuori dalle Accademie. Divenuto uno degli artisti più significativi del “tonalismo” romano che faceva capo a Mafai, Scipione e Lazzaro, lancia l’immagine dello Sperone in tutta Italia.
Ed espone nelle più prestigiose gallerie italiane, fra cui la Gussoni di Milano, presentato dal noto critico d’arte Valerio Mariani. La mostra vede la presenza costante di Carlo Carrà, che esprime giudizi lusinghieri all’artista, e si intrattiene con lui per interi pomeriggi a parlare dei quadri, affascinato dalla sua vena creativa e dalla sua ‘verve’ comunicativa. Sulla ‘performance’ milanese di Sangillo scriverà Raffaele De Grada.
Ma è sempre il Gargano ad attrarre Mimì Sangillo. Dopo molti anni vi ritorna e, finché ne ha la forza, continua a dipingere suggestivi olii su tela, con fulmineo tocco, quasi l’improvvisa “illuminazione” gli possa sfuggire, come acqua fra le dita aperte. Scaglie di colore, fuso e sovrapposto a creare un tipico fermento, vibrazione, lievitazione. «I ritmi melodici che formano la vasta sinfonia dei quadri di Sangillo – osserva Milo Corso Malverna – sono come una musica in sordina, un magico coro a bocca chiusa». Rocce, lago e cielo non hanno bisogno di essere amati, lo sono già da tempo immemorabile.
La sua Terra gli si presenta nella sua essenza ancestrale: «Gargano eterno: Carsico cetaceo, / mistero / dei remoti universi».
Sangillo amava le atmosfere brumose. Il Varano diventerà il suo rifugio. Qui, gli era possibile addormentarsi e svegliarsi in un capanno, avvertendo il sommesso respiro del lago: «Gocce di luna / smerlettano la giuncaia. / Un leggero zeffiro / soffia sul lago, / mentre eco dei pescatori / si perde nel gorgo del mistero».
Lunghe notti passate nell’attesa del giorno, a osservare il Firmamento: «Cade una stella; / nel tempo della sua scia / si dissolve la mia memoria». Una vita segnata da quotidiani incroci tra la vita e la morte: «Due usci contigui: / un tocco rosa / un drappo nero. // Incontro / di inesausti / viandanti». Una sofferenza rinnovata da ricordi che non lasciano varchi: «Lapilli / di ricordi / ardono / nella memoria, / or che / martoriata / cerca / requie».
Ma il vitalismo dell’artista continua a ispirargli ‘palpiti’ di vita profondi: «Vorrei spandermi / dentro di te / come acqua / tra le rocce, / lambire / i granelli del tuo mistero; / ma tu / sei / chiarore lunare, / ove scivola / il mio tempo».
Nell’ultimo trentennio di vita, Sangillo pubblicò varie sillogi poetiche, rivelando un’ispirazione intensa e originale: “Figure e palpiti di vita” (1982), “Sapore del tempo” (1985), “Specchio di antiche lune” (1989), confluite nelle raccolte “Segni di un uomo nel tempo” (1991), “Parole e silenzi” (1992), “Sogno e memoria” (1996), “Approdi” (2002), tutte edite da Schena.
Fu lo scrittore Giuseppe Cassieri, nella prefazione a “Specchio di antiche lune”, a definire la superiore ‘essenza’ dell’arte e della poesia di Sangillo: «Figli della stessa terra, vittime delle medesime inquietudini ambientali, entrambi sedotti dal medesimo paesaggio garganico: il Varano, Santa Barbara, il Taléro. Lui però ha avuto il merito di scommettere tutto nel poco spazio che gli veniva concesso, radicarsi fino all’osso carsico sottostante, alimentare i propri doni creativi di quotidiane ansie, di infinite tenerezze».
«Non solo il poeta del disegno e del colore – aggiungeva – che certo è preminente e gli assicura un posto di rilievo nelle correnti figurative del Mezzogiorno, ma anche il poeta in versi. Da leggere, oso suggerire, in lieve abbandono, accostando l’orecchio alle minime crespature del cuore e del lago, così come occorre spalancare l’occhio sulle minime vibrazioni dei verdi e degli azzurri in disperata sinergia sulla tela, quanto più tetre si rivelano le corrispondenze umane, e come refrattario, inibito, il senso del mondo.
C’è un’immagine – in realtà un bell’ossimoro – che estrarrei dal Canzoniere amoroso e la porrei emblematicamente al centro dell’esperienza lirica che accompagna il nostro autore: “Il tuo gelo / mi ustiona”. Ecco: ho l’impressione che turbamenti e aspre veglie, malinconie e rare esultanze, passino di lì».
Teresa Maria Rauzino