«Tra poche centinaia di giorni arriva il duemila, e noi, che siamo bastian contrari, abbiamo voglia di celebrarlo pensando ai millenni andati. La mia è stata l’ultima generazione legata all’antichità.
Ho trascorso i primi anni della mia vita -a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta- senza tv, senza automobile, senza frigorifero, senza telefono, senza termosifone. Ho visto da bambino le ultime tracce della preistoria. Il braciere, lo scalda-piedi da letto per scaldare le lenzuola, la borsa d’acqua calda per difendersi dai mitici geloni, i traini dei contadini con il cane a strascico, le trottole in legno al posto della sala giochi, il calcio con la palla di plastica color cuoio, e a scuola i banchi in legno grezzo, con i sedili incorporati e scomodi, il buco con il calamaio, i quaderni neri con il bordo rosso, la penna con i pennini.
Poi, cambiando casa, nel primo palazzo costruito giù alla fontana vecchia, traslocai nella modernità. con i primi elettrodomestici grandi, potenti, resistenti. con il frigorifero che sembrava un forziere di fort knox provvisto di pedale.
Con il televisore che era un bestione obeso, oggetto di timorosa venerazione (vedetelo a distanza di tre metri raccomandavano, spegnete la luce e lasciate solo un lume sull’apparecchio rivolto verso l’alto).
Con il registratore a bobina che riproduceva nei suoi nastroni, tra il divertito stupore di noi primitivi, addirittura le nostre voci. Con il telefono a muro, nero e squillante, dalle poche cifre e con la centralinista che ti rispondeva all’altro capo del filo.
Con le ultime auto Balilla (mitica quella del capo guardia, che demolimmo appena rimessa a nuovo) e la prima seicento con le portiere controvento, che sfiorava i cento orari. Ma tutto ciò era già il passaggio d’epoca. Io vorrei invece raccontarvi di quel mondo residuale che ho conosciuto poco prima. La preistoria. sono nato prima che scoppiasse il boom economico.
Il progresso rallentava tra le curve di Mattinata-Vieste e arrivava a Vieste in differita. Appartengo alla generazione che ha visto da bambino il mondo prima della tv e dello sbarco sulla luna, prima del sessantotto, prima della nutella.
Generazione che ha conosciuto il flit, la cromatina, la brillantina linetti, il chinino, olà e spic e span, il ferro da stiro a carbone, la provvista d’olio e di salsa come segni di ricchezza e di sicurezza per chissà quale ancestrale paura di carestia; che ha giocato partite a calcetto con la chianella, che ha gareggiato con la carriola tutta in legno con le ruote a palline.
Generazione di bambini che giocava a “morte impalata” vicino alla pietra della madonna. Generazione che ha curato gli ascessi ai denti con gli impacchi di bietole e i vermi intestinali con l’aglio; che ha visto circolare in casa le coperte militari, ed ha sentito elogiare le scarpe e i bolli di cioccolata militari.
Generazione che ha conosciuto i ragazzi del novantanove e gli ultimi vecchi dell’ottocento, quelli con l’orologio da taschino, il colletto inamidato e il bicchierino di rosolio. Fummo i bambini che uscivano di casa da soli già a tre anni di età, avevamo le chiavi di casa.
Per noi il vaccaro mungeva il latte davanti agli occhi, il calzolaio, il sarto e l’arrotino ci riciclavano il passato (scarpe risuolate, giacche rivoltate, lame e lamette rigenerate), perché non si buttava niente nella società pre-consumistica; Giuseppe il barbiere, che ti dava i calendari con le donne pettorute, e ti faceva davvero un rapporto aggiornato sul paese.
Generazione che veniva vaccinata da Peppino Lasanitaria come le mucche: il braccio marchiato contro la poliomielite e la tbc. Generazione che chiamava la mensa scolastica “refezione” e che risparmiava le cinque o dieci lire nel “cicero” di creta.
Generazione che ha visto in circolazione anche la madre di tutte le nostre finanze: la moneta da una lira, divenuta piccola e impotente che, sia pure fuori corso, era ancora in circolazione quando s’affacciò alla scala monetaria la splendida cinquecento lire d’argento.
Fummo i bambini che mangiavano frutta, considerandola un premio e non una punizione, che consideravano lo yogurt latte inacidito, che masticavano zippi dolci (le radici di liquirizia) e lupini di ze’ nunzj, che ignoravano la dieta dimagrante, che portarono, fino a sedici anni, i calzoni corti.
Generazione che ha vissuto la domenica come giorno speciale, con la radio ad alto volume, l’odore di ragù per la casa e per le strade, che si faceva il bagno nella vasca anziché sotto la doccia, che indossava il vestito buono della festa solo nei giorni di festa, la camicia bianca con le stecche dentro il collo e le scarpe lucide.
Generazione che ha visto la differenza di classe: i borghesi che si riunivano al “circolo” di corso Fazzini o alla Pro Loco, e i contadini in mezzo alla piazza; i ragazzi borghesi che passeggiavano da una parte e i ragazzi del popolo dall’altra; Ciccillo… che quando vendeva un cappello ad un borghese dava un colpetto gentile sull’esterno per dare il garbo al copricapo e alle falde, e quando lo vendeva a un contadino gli dava solo un colpo rude dall’interno per gonfiarlo sulla testa e abbassargli le falde, come s’addiceva al cafone.
Finirono le classi sociali a Vieste, quando Ciccillo chiuse quel negozio. Erano tempi in cui Totò e Charlot erano due attori viventi e non due figure mitologiche. Leggevamo Blek, Tarzan e Capitan Miki, e sfogliavamo come ladruncoli La Domenica del Corriere e la Tribuna Illustrata al Circolo o da Giuseppe il “barbiere”.
Generazione che il venerdì non mangiava carne; la domenica sentiva la messa in latino; il due novembre non cantava per rispetto dei morti e non batteva le mani ai funerali; a natale lasciava la letterina sotto il piatto;
il venerdì santo vedeva piangere in processione tante persone a cui veniva in mente il figlio morto in guerra. Generazione che a ogni ora della giornata incontrava gli asini per strada. Era l’epoca in cui gli extracomunitari erano di Vieste, gli albanesi parlavano più rozzamente la nostra lingua e lo spaccio non andava oltre le nazionali sfuse senza filtro; era l’epoca delle bibite nel secchio d’acqua e ghiaccio e i cannolicchi di Unzicchij.
Si stava meglio, si stava peggio? per carità, lasciate stare questi stupidi paragoni che ognuno falsifica sulla base della propria biografia, rimpiangendo del passato la propria infanzia o maledicendo la propria miseria. era meglio o peggio?
Abbiamo perduto qualcosa e guadagnato altro? Non saprei. Posso solo dire che la poesia che si respirava nei giorni in cui Matteino Lopriore usciva di casa con il suo “tappone di pane” imbevuto di vino e ricoperto di zucchero, è stata una dei più nobili e dolci segni di umanità che io abbia vissuto: ancora oggi ricordarlo mi fa bene al cuore e alla mente.
Tutto sommato mi sento un privilegiato: la mia generazione ha vissuto come una vita in più; ha conosciuto una vita di poesia, fatta di piccole cose, ha visto un mondo che più non esiste.
E’ vero, son contento. entro nel terzo millennio dopo aver vissuto i millenni precedenti, e spero di non dimenticare, insieme con i volti di quegli anni, quella poesia che porterò sempre con me.
Mi sento un eroe dei due mondi: ho usato la spada di legno, la fionda, la cannuccia, il cerchio, il fischietto ottenuto con le due dita… e il videotelefonino. Sono l’ultimo viestano antico.»
ninì delli Santi
da la grande implosione