È il protagonista maschile di Vermiglio, la rivelazione italiana della Mostra di Venezia. Tommaso Ragno si augura che questo «piccolo film» faccia scuola. Perché il cinema di qualità è una risorsa per tutti. Ed è ora che il nostro Paese lo capisca.
QUESTO ARTICOLO È PUBBLICATO SUL NUMERO 39 DI VANITY FAIR IN EDICOLA FINO AL 24 SETTEMBRE 2024.
Nessuno a Venezia, tra gli addetti ai lavori, aveva previsto che Vermiglio avrebbe vinto qualcosa, tanto meno il Leone d’argento – Gran premio della giuria, un po’ il secondo posto alla Mostra del Cinema. Neanche Tommaso Ragno, che è il protagonista maschile di questa storia in realtà molto femminile, diretta da Maura Delpero: «È stata una grande sorpresa. Essere stati chiamati e scelti per il concorso principale era già tantissimo. Se fosse stato un film di Almodóvar, forse avrei potuto aspettarmi un premio, ma questo è il secondo lungometraggio di Maura, ed è un film “piccolo”, con mezzi limitati. Non che non ci fossero elementi per il premio, ma non me l’aspettavo proprio».
Vermiglio è la storia di una famiglia, delle sue gioie e dei suoi dolori, tra le montagne della Val di Sole, in Trentino, durante la Seconda guerra mondiale. La trama in realtà conta poco perché la forza del film è in questo piccolo mondo di una volta ricreato sul grande schermo, con le sue continue madeleine sensoriali, l’odore del latte caldo e della legna, le vecchie coperte di lana, e poi la montagna, un microcosmo magico e insieme opprimente. Ragno interpreta il capofamiglia Cesare, padre di sette figli e maestro del paese, un uomo di quelli che non esistono più, taciturno, tutto d’un pezzo, serio, concreto e con qualche segreto.
Attore tra i migliori in Italia, con tanto teatro e cinema, e anche prestige tv (il tangentista di 1992, il prete maniaco del Miracolo di Ammaniti e anche l’americana Fargo), di Tommaso Ragno non si sa niente e non per errore: «Non parlo della mia vita privata», mette in chiaro lui. E sarà per questo o forse per la sua capacità di trasformarsi anche fisicamente che lo rende ogni volta diverso che il suo nome è tra i più quotati del nostro cinema, ma non così noto tra il pubblico. Risponde da casa sua, a Roma, tra grandi silenzi.
Perché ha deciso di partecipare a questo «piccolo film», Vermiglio?
«Perché quando ho letto la sceneggiatura ho capito subito che era un lavoro di grande valore: è raro trovare sceneggiature scritte così bene. C’è il dialetto, c’è una società e ci sono comportamenti che non conosciamo più. Il mio lavoro, come quello degli altri attori, era di intonarci a quella verità del film».
Ha conosciuto uomini simili al suo Cesare di Vermiglio?
«Sì, mio nonno, ma soprattutto il mio bisnonno, che era nato alla fine dell’Ottocento ed era andato a lavorare in America. Sono figure che per me rappresentano un mondo perduto. Mi ha colpito soprattutto la dignità profonda. Ma la cosa bella è che non ci sono lezioni morali, i personaggi sono rappresentati e trattati per quello che sono. È un film impregnato
di sobrietà. E di silenzio».
Come fa a diventare i suoi personaggi?
«Cerco di essere aperto e di lavorare insieme al regista e agli altri attori. È come lavorare con
il Das, si fa una prima forma, partendo dall’intuizione, e poi si demolisce, si ricostruisce, si migliora e si aggiusta tutto. Richiede grande concentrazione e serietà. E anche innamorarsi del proprio personaggio».
Lei di cosa si è innamorato del suo in Vermiglio?
«Del legame fortissimo con la montagna, un luogo davvero potente, di meditazione, perché tutto è in verticale, si va sempre a guardare verso l’alto. Lì è davvero venuto fuori il fantasma del mio personaggio».
Che rapporto ha con la montagna?
«Ero isolato da tutto, la prima libreria era a due ore di macchina, diciamo che è stata un’esperienza forte. In quella natura non senti l’alienazione che provi in città ma vivi anche grandi difficoltà, il freddo per esempio, devi essere forte fisicamente per vivere in montagna. Non mi è rimasto un amore sfegatato, ma il set mi ha lasciato una certa nostalgia per i luoghi».
Nel suo discorso di ringraziamento, la regista Maura Delpero ha detto che Vermiglio non sarebbe stato possibile senza il sostegno pubblico, perché avrebbe tradito sé stesso: non si sarebbe potuto recitare in dialetto e probabilmente avrebbe dovuto scegliere un cast più popolare. Che cosa ne pensa?
«È un discorso complesso, ma di sicuro il sostegno pubblico ha a che fare con la qualità del film che si intende fare. Il finanziamento ha dato a Maura la libertà di fare il film che voleva e, in questo senso, il caso di Vermiglio deve far riflettere: è un film che ha ottenuto un riconoscimento in uno dei festival più importanti del mondo. È chiaro che non tutti i film devono essere dello stesso tipo, ma è fondamentale continuare a produrne alcuni di un certo livello e che possano rimanere in futuro. È come le Olimpiadi: ogni Paese porta i suoi atleti e tutto il mondo guarda. Vogliamo anche noi restare in gara o no?».
Nanni Moretti, a Venezia, ha parlato di una nuova «pessima legge sul cinema»: quella voluta dall’ex ministro Sangiuliano che limita il tax credit, cioè il credito d’imposta, alla produzioni.
«Io non sono un attore che porta finanziamenti né un produttore, posso solo dire che sia Maura Delpero sia Moretti hanno tirato in ballo una questione importante e cioè l’interesse del nostro Paese per il cinema».
Com’è?
«È evidente che tipo di interlocutori abbiamo e quanti sforzi dobbiamo fare per far capire quanto sia importante il cinema. Spero che Vermiglio non resti un semplice fiore all’occhiello, un caso isolato, ma che faccia scuola. Non è così importante produrre un capolavoro dopo l’altro, ma continuare a fare film liberi sì».
Ha detto poco fa che non è un attore che porta finanziamenti, ma è amatissimo dai registi e dai critici. Perché non è una star?
«La star e l’attore sono due cose diverse. Ci sono motivi diversi per cui un attore viene scelto rispetto a una star. Io cerco di fare bene il mio lavoro e sono contento di lavorare tanto, non cerco visibilità. Non mi interessa che si sappia cosa faccio nella mia vita privata, anzi non voglio proprio. Poi ci sarebbe tutto un discorso da fare sulle star di oggi: Martin Scorsese ha spiegato bene che oggi a portare la gente al cinema sono i film, le storie, non più i divi».
La sua riservatezza è in controtendenza rispetto al mondo dominato dai social.
«Per me è importante mantenere una certa distanza per preservare l’illusione su cui deve lavorare un attore. Cerco di condividere solo contenuti che abbiano valore. Poi secondo me questi social non dureranno a lungo, almeno non in questa forma».
Sempre a Venezia, Maura Delpero ha anche ringraziato «chi aiuta la conciliazione tra lavoro e vita privata», questione difficilissima per le donne, e si è augurata «che la società cominci a considerare questo come un suo problema». Da uomo che cosa ne pensa? Lei ha figli?
«Non amo parlare della mia vita, ma da genitore posso dire che l’unità in una famiglia è importante. La sua dichiarazione mi ha fatto male, mi ha fatto riflettere su una cosa che è un problema enorme. La società dovrebbe fare di più, ma non ho soluzioni pronte e non voglio neanche dire cose retoriche come “siamo tutti femministi” perché viviamo in un mondo che è più troglodita di quel che era prima. Le ho dato un’altra risposta sgraziata, vero?».
Va bene così.
«Grazie, perché non ho soluzioni e non voglio inventarmele».
valentina colosimo
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