Serafino Razzi, viaggiatore instancabile e predicatore inviato nel 1574 “priore di civita di Penna’ in Abruzzi in aiuto della Riforma di quei paesi”. Il toscano Serafino Razzi (1531 – 1611) ha lasciato un vivace resoconto del suo Viaggio a Santo Angelo nel Monte Gargano l’anno 1576.
Pubblicato a L’Aquila nel 1968, per le cure di Padre Benedetto Carderi, con il titolo di Viaggi in Abruzzo, il manoscritto del taccuino del pellegrinaggio conserva “il fascino di un’asciutta cronaca trecentesca, non priva – come scrive Antonio Motta – di qualche pennellata locale”. Distante appare l’impianto narrativo dalla travatura che Marcello Cavaglieri organizza nel volume II Pellegrino al Gargano, pubblicato nel 1680.
A SANTO ANGELO NEL MONTE GARGANO
Il Giovedì a 27 di Settembre, detta messa, e fatta colazione partimmo dalla Porcina, et al nono miglio, nell’entrata del Monte Santo Angelo, trovammo Santa Maria di Stignano, divozione che ottanta anni sono si scoperse: e sessanta che fu data a i padri Zoccolanti. I quali usano a tutti i viandanti che qui arrivano la charità, se però la chieggono e la vogliono. E ci narrò il Vicario di detto luogo, come una botte di vino, solita durare un mese, per i meriti della gloriosa Vergine, dandone a i devoti peregrini era durata due mesi.
Da Stignano, beuto che avemmo un poco ancora noi, partimmo, et salendo per quella valle trovammo al terzo miglio San Marcuccio, Terra picciola e murata, abondante di pomi, e di castagne. E più alto un altro miglio trovammo San Matteo: Badia del signor Giovan Vincenzo Caraffa, cavalliere di Malta, e priore di Ungheria. Ove sono liberati gli Indimoniati, e coloro che sono morsi da i cani arrabbiati sono sanati. E cinque altre miglia più avanti, trovammo San Giovanni, Terra posta alle radici del monte più interno di Santo Angelo, verso oriente. Ove fùmmo alloggiati, e ben trattati dal signor Vicario forese, o vogliamo dire Foraneo, Don Bernardino del fiorentino, nipote del Vicario generale dell’Arcivescovo di Manfredonia: per essergli noi stati raccomandati dal p. fr. Domenico da Penna. Abonda questa Terra singolarmente di mandole, onde nella stanza in cui dormimmo nera un gran montone.
Il Venerdì mattina a 28 di Settembre 1576 levando di buon (bora) e camminando da San Giovanni dodici miglia, per una valle, e per colline, giungendo in compagnia di molti altri pellegrini, dopo una terribile salita fatta nell’ultimo, alla desiderata città di Santo Angelo. E così stanchi, e sudati andammo a visitar la Sacra Spilonca.
Ma non ci potemmo entrare stando sempre chiusa, fuori del tempo che si officia, e si dicono l’hore canoniche. Fatta adunque breve orazione alla porta, ci demmo a cercare di alloggiamento. E non essendo in questa città osteria alcuna che alloggi, fummo avviati a i due conventi che ci sono, cioè di San Francesco della Scarpa, e de i padri Celestini: appresso dei quali sogliono, come dicono alloggiare i forestieri religiosi che qua su vengono. Ma trovando in quelli presi da altri tutti gli alloggiamenti, stavamo in pensiero dove dovessimo voltarci, quando un’huomo da ben, venditore di vino, ci condusse nella casa sua, e con molta cortesia ci trattò, et alloggiò quella sera, essendo afezzionato a i Toscani, e a i Fiorentini, per essere istato, come diceva, in quelle parti, alcuna volta a vendere della manna, di cui gran copia si raccoglie in questo monte di Santo Angelo.
Venuta l’hora del Vespro, in compagnia degli altri pellegrini scendemmo la veneranda scala di 56 scaloni in circa, che conduce alla sacra grotta, e chiesa, dicendo per ogni scalone un pater nostro et un’Ave Maria. E confesso che così peccatore, non potei da due o tre volte, inscendendo cotale scala, contenere le lagrime. Stetti al primo scalone ginocchioni, ma poi per la gran moltitudine veggendo che gli altri stavano in piedi dicendo detto pater nostro et Ave Maria co’ la faccia volta in verso la spilonca, mi conformai loro. Scesa detta scala, larga, et ampia, et arrivati alla porta ch’è di bronzo, aspettammo qui un poco, in certo cortile, con silenzio, tanto che ella si aperse.
Poscia entrando, dicemmo le nostre orazioni, visitando dopo il santissimo sacramento, lo altare consacrato da San Michele Arcangelo: e considerammo molto bene tutto quel sacro luogo, eletto da i Santi Angeli.
È la detta spilonca, di lunghezza da oriente a occidente poco meno di un tiro di braccio. E di larghezza da mezzodì a settentrione, un terzo meno. In testa dalla parte occidentale sta il choro su ad alto, e rilevato parecchi braccia, per cagione dell’humidità: e nell’altra testa verso oriente sta l’altare di San Michele, nella parte più bassa della spilonca, riserrato dentro a un picciol cancello. E detto aitar piccolo, e semplice, e vi si vede sopra un San Michel’Arcangelo di marmo, non di giusta natura, ma come di un fanciulletto, per la strettezza credo, e bassezza del luogo. Intorno a cui si veggono alcune figure di basso rilievo in rame dorato: che per la grande humidità non vi si conservano dipinture. Sopra il predetto altare per cagione della stessa umidezza si vede un tavolato, o quasi soffitta. Dicono che di notte non s’entra mai in detta spilonca, né si apre, se non dopo levata di sole, quasi lasciando le notturne laudi a’ gli Angeli celestiali celebrare. Vi sono molti altri altari alla destra, et alla sinistra. E sotto il choro è una cappella sotterranea, ove co’ altre reliquie si mostra un pezzo di legno della croce di nostro signore.
Sopra la detta grotta sono assai lecci, e terreno erboso, e vi si cammina per tutto. Narrommi un Rev. Sacerdote, come una certa donna, sendole venuti a casa certi amici forestieri e dovendo sollecitamente loro preparare la cena, si ricordò di havere veduto, su i lecci di Sant’Angelo alcuni rami mezzo secchi, e per cuocer più presto un paiuolo di maccheroni preparati per detti hospiti, andò, e colse detti rami secchi, e ne fe buon fuoco. Ma quando poi, stimando che cotti fossero, gli volle cavare, altro non trovò in detto paiuolo che acqua. Onde fe \ avvisate l’altre donne che non ardissero di mai più cogliere rami da quei sacrati lecci, contando il miracolo a lei avvenuto. E l’osservano fino al dì d’oggi.
Il Sabbato mattina alli 29 di Settembre 1576, festa de i santissimi Angeli, detto il nostro officio, e riconciliato, celebrai per favore particolare, allo altare del Santo Arcangelo, e nella fine della messa comunicai il nostro compagno et un amico secolare. E da poi a mezza messa cantata, co’ la buona grazia del Rev. signor Vicario in assenza del Rev.mo Arcivescovo predicai con frequente, e divota udienza, a honor di Dio, e dei Santi Angeli. Dopo convitati desinammo in casa di certo huomo dabene.