Menu Chiudi

NEL GARGANO DEI GRANDI VIAGGIATORI (7)

Il Gargano

1907

Armonia di contrasti anche nella testimonianza fotografica, è la cifra della mono­grafia illustrata II Gargano del romagnolo Antonio Beltramelli (1879 – 1930). Un viaggio esaltante è consegnato alla pubblicazione, apparsa nel 1907 nella serie “Italia Artistica ” diretta da Corrado Ricci per le edizioni dell’Istituto Italiano d’Arti Grafiche di Bergamo.

Prima di entrare nei “paesi della febbre”, Beltramelli si congedava così dalla rivie­ra: “Fra gli archi e i ricami delle rame vigila il mare in una luminosità stanca ed è, in quest’ora, simile ad uno specchio d’oro. Quattro paranzelle nere solcano le acque lucenti e si incorniciano fra ramo e ramo in deliziose visioni.

L’anima serena del Gargano riposa qui, su la beata riva, in una terra di paradiso”. Un mondo di dura precarietà e di pura elegia mediterranea è restituito attraverso una scrittura vibratile, speculare della solarità e sempre in cerca di lidi su cui placarsi.

Nei paesi della febbre

Scendo verso i paesi della febbre. Seduto sul largo basto della mia cavalcatura guardo sotto di me, fra gli olivi diradantisi, distendersi il lago di Varano che si impadula ai margini. Una fitta vegetazione di cannucce delimita il terreno palu­doso dal terreno coltivato a grani. Il regno della febbre (e può dirsi veramente questa, una fra le regioni più malariche d’Italia) non ha alcun aspetto sinistro, anzi per la ricchezza della vegetazione, per la varietà de’ suoi paesaggi, attrae.

In questa regione sorgeva un tempo la città di Varano o Barano dalla quale prese nome il lago. L’ultima memoria che si abbia di Varano risale al 1067 quando l’imperatore Ottone II ne confermò alla Basilica di San Michele la donazione, fatta da Ludovico IL Da tale documento si apprende come la città fosse fortificata.

Gli storici della regione vogliono che Varano fosse una tra le tante città fon­date da Diomede; questa anche è l’opinione del Sarnelli. Nessuna tradizione, nessun documento ci precisa come e quando sia stata distrutta; scomparve dopo il mille e agli uomini non rimase di lei altro retaggio se non il nome. Le acque del lago ne celano forse in qualche parte gli ultimi ruderi.

Il sentieruolo che scende ripido fra grandi macchie di ginepro in questi ultimi colli tenuti in gran parte a pascolo, è sabbioso, sì che la mia cavalcatura lascia quel suo ballonzolare che mi era di grave danno, per darsi ad un passo funerario. Un vero turbine di mosche e di zanzare mi attornia; sono costretto a nascondere gran parte del viso con un fazzoletto per difendermi dalle acute punture.

Il lido che divide il lago dal mare è detto dai nativi l’Isola. E un terreno sabbioso solcato da canali, nel quale abbonda la vegetazione. Un bosco di pini marittimi ne percorre buon tratto.

Alla Torre Sansone scendo da cavallo e mi dirigo verso uno strano villaggio di capanne che sorge un poco più lungi. Scorre in questo tratto un largo canale fra isolotti di altissime cannucce. Vien chiamato Fiume di Varano. Il villaggio che osservo non ha nome è un agglomerato di capanne nelle quali vivono i pescato­ri. Ogni capanna è circondata da un’altissima cannicciata su la quale sono diste­se reti e vari arnesi da pesca ed ha attorno gruppi di fichi d’india, alberi da frutto e fiori.

Tutti gli abitanti ne sono lontani forse a quest’ora, non odo una voce, vedo solo un fanciullo che siede all’ombra dietro una macchia di rovi; ma riten­go inopportuno rivolgergli la parola; tanto non ci intenderemmo. Vado alla ricerca di una imbarcazione per spingermi più innanzi lungo l’Isola ed entrare nel lago.

Ad un altro gruppo di abitazioni che si adossano ad una fra le tante torri di guardia innalzate nel Medioevo trovo un vecchio pescatore che scarica dal suo sandalo una bracciata di stipa; acconsente a condurmi ove desidero. Visito frattanto la sua capanna che è formata da fasci di cannucce gli uni sovrap­posti agli altri sopra una rozza impalcatura di pali; all’interno comprende un solo ambiente nel quale è un letto, una tavola, qualche sedia e un focolare. Alle pareti sono appese numerosissime reti.

Nell’alto è praticata un’apertura per dar la via al fumo. Alla domanda che rivolgo al proprietario del come vi abiti e se vi stia a disagio, mi risponde che ci si sta benissimo e che, nelle notti di grande burrasca, non vi penetra neppure un fil di vento.

Non dimenticherò mai la caratteristica di questo piccolo villaggio che sorge fra i miasmi in un paese abbandonato — è uno specchio di vita primordiale che si è serbato incorrotto a traverso tante civiltà! Ogni capanna fa a sé; ha il suo orto, il suo piccolo giardino, i pali per tender le reti: ciò che occorre ad una vita che di poco abbisogna per compire il suo ciclo breve.

Il sandalo del mio vecchio pescatore è qualcosa di più antico ancora, scavato com’è in un sol tronco di quercia. Tale tipo di imbarcazione è comune sul lago; ma si usa solo quando il tempo è quieto perché si capovolge facilmente. Ci avviamo fra gli isolotti di cannucce che stormiscono alla brezza del mare: le idrometre spia­no su le acque quasi immobili il guizzare dei pesci; grandi libellule iridate, turchi­ne, violacee seguono il nostro andare, tremando nell’aria per l’attimo del loro amore violento.

Sotto lo specchio chiaro delle acque si allungano in aggrovigliamenti strani le alghe nerastre; paiono tentacoli e viscide serpi e immani piovre intente all’agguato. E la putrida vita della melma, nella quale ha il suo giaciglio eterno la scarmigliata febbre che anelita e trema in una insaziabile concupiscenza.

Vedo ad un certo punto, gli attrezzi per catturare i cefali e le anguille; sono ben differenti da quei mirabili lavorieri da pesca che si usano nelle nostre lagune a Comacchio. Qui tutto è primitivo. Due semplici ardiate disposte a V all’im­bocco di un canale; al vertice vengono applicate le nasse, che sono reti a vari compartimenti; il pesce vi penetra e non ne può più uscire.

Il mio duce mi racconta come molte volte, piacendo a Dio, si faccia una abbondantissima pe­sca. Passiamo per il canale che si sta scavando allo scopo di rendere facile e continua la comunicazione delle acque del lago con le acque del mare, volgiamo a sinistra fra un intrichio di piccoli canali, ove sono alcuni sandali abbandonati fra la stipa, mezzo sepolti dalla melma.

Si leva ad un tratto con un lungo frullo uno stuolo di uccelli palustri; un grido acutissimo corre l aria: salgono, si di­spongono in triangolo, dirizzano il grave volo verso il mare. Eccoci al lago. Una livida distesa di acque corsa a torno a torno (tranne dal lato ove si stende l’Isola) da una linea continua di colli; lungo le rive si scorge, a grandi distanze, il biancheggiare di qualche casa.

Le acque leggermente increspate dal vento sono, in certi punti, profonde, in altri lasciano vedere il fondo melmoso a pochi palmi. Il mio vecchio mi dice come l’inverno si abbiano qui tempeste furiosissime. Osservo lunghe file di pali confitti nella melma, servono per tendervi le ardiate al tempo della grande pesca. Le torri del lido spuntano qua e là fra il verde con la loro corona di merli ghibellini. Non so perché, sono così piccole e goffe, che mi ricordano un giuoco di scacchi.

La miseria, la vera miseria di questa gente perseguitata dalla febbre, la trovo più oltre, lungo le rive del lago, dove sono mietuti i grani.

Incontro, sotto questo sole infuocato, un gruppo di donne che si recano ad attingere l’acqua ad una cisterna non lontana. Sono gialle, risecchite; una va innanzi alle altre levando le braccia scarne a reggere un grande vaso di argilla che porta sul capo; ha il viso spaventevole: un teschio rivestito di pelle, animato da due grandi occhi cinerei infossati nelle occhiaie; i cenci che le ricoprono la per­sona non valgono a nasconderne le asperità; sembra un mucchio d’ossa scric­chiolanti che un tragico ardore animi e sospinga.

I piedi scalzi sono bruciacchia­ti dalle arene che ardono e vanno, vanno fra questo ispido strame infaticabil­mente. Dietro la prima seguono altre donne, una nasconde il viso nel fazzoletto; non vedo di lei se non le mani, grandi, su le braccia scarnite.

Si avvicinano in silenzio; è sì fosco il loro aspetto che pare debba seguirle alle terga una Erinni vendicatrice, l’ombra del fùrore. Quando sono a pochi passi levano il viso a guardarmi, qualcuna sorride:

— Iddio ti dia bene, signoria!

Non nascondo di avere avuto improvvisamente alla gola un impeto di sin­ghiozzi

antonio beltranelli