Emilio Sereni ha sicuramente dato un enorme contributo alla ricerca storica riguardante l’economia agricola del primo quarantennio del Regno d’Italia con la pubblicazione, nel 1947, del saggioIl capitalismo nelle campagne (1860-1900)[1]. Un’opera che ha messo a disposizione degli studiosi una vasta raccolta di materiali,permettendo di indagare con una nuova metodologia la storia del Paese che la “storiografia idealistica” aveva del tutto trascurato.
Sereni, nato a Roma nel 1907, frequentando a Portici la facoltà di Agraria, insieme a Manlio Rossi Doria si iscriveva nel 1926 al Partito Comunista e nello stesso tempo prendeva coscienza delle condizioni di sottosviluppo del Mezzogiorno, mettendo in evidenza la «mancata rivoluzione agraria del Risorgimento»; mancata, nonostante l’interoprocesso storico del nascente Regno d’Italia era stato condizionato da movimenti di masse rurali, spesso degenerati in aperte rivolte o, addirittura, in vere e proprie guerre contadine per l’acquisizione della terra[2].
Secondo i critici del saggio quella rivoluzione agraria mancata non poteva essere considerata come un’alternativa realizzabile, mentre Sereni la ritenevatale,«perché intrinsecamente coerente con tutto il processo della rivoluzione democratico-borghese e nazionale», nella traumatica transizione da una struttura economico-sociale feudale ad una capitalistica[3].
Un passaggio che non poteva avvenire saldamente senza la «liquidazione del regime feudale della proprietà terriera» e la nascita di un «regime fondato sulla libera proprietà e sulla libera impresa contadina», radice delle rivendicazioni contadine prima e dopo il processo risorgimentale[4]. I moti contadini, basati su «obiettivi economici e sociali progressivi», non si erano tradotti in una effettiva realtà storica perché il Risorgimento italiano era stato sempre sotto il controllodi forze politiche reazionarie, considerato che persino l’area repubblicana del Partito d’Azione si trovava «in aperto e diretto conflitto» con le masse contadine, «proprio in quanto usurpatori delle terre feudali e comunali, che quelle masse rivendicavano» specie nel Mezzogiorno[5].
La borghesia italiana al potere, completata l’unificazione con la conquista di Roma, al pieno dominio politico doveva necessariamente aggiungere quello economico mediante la formazione accelerata di un mercato nazionale che, in un’Italia ancora agricola, creasse le premesse per lo sviluppo del capitalismo industriale. Per favorire il passaggio cruento dalla produzione per
[1] E. Sereni, Il capitalismo nelle campagne (1860-1900), Torino, Einaudi, 1947.
[1]E. Sereni, Il capitalismo nelle campagne (1860-1900), Torino, Piccola Biblioteca Einaudi, 1968, p. XXI.
[1]Ivi, pp. XXII-XXIII.
[1]Ivi, p. XXIV.
[1] Cfr. Ivi, p. XXV.
autoconsumo ad un mercato nazionale occorreva innanzitutto sopprimere le barriere doganali negli Stati preunitari, applicando al nuovo Regno la modesta tariffa piemontese, ma anche creare rapidamente una rete ferroviaria e stradale che permettesse di raggiungere i punti più estremi della penisola. Secondo Sereni, «tutto il processo di unificazione del mercato e della vita nazionale si compie sotto il segno, sotto la direzione e nell’interesse delle nuove classi che hanno conquistato il potere, e che se ne servono ai loro fini, spezzando gli ostacoli che si oppongono a questo incremento dei traffici e degli scambi materiali e intellettuali»[6].
Nella finanza pubblica è la voce relativa al costo del processo di formazione del mercato nazionale che pesa maggiormente, comportando un feroce inasprimento del carico fiscale che la borghesia dominante farà pagare caramente alle misere masse popolari[7].
Soprattutto nel Mezzogiorno, e nelle aree interne e arretrate della penisola, la produzione essenzialmente agricola era basata sull’autoconsumo familiare, tanto che nei piccoli e medi poderi contadini venivano prodotti i beni primari necessari non solo al soddisfacimento alimentare della famiglia, dal grano all’olio, dal vino alla frutta e agli ortaggi, dal lino alla canapa.
La produzione della piccola azienda contadina era rivolta anche al campo delle produzioni industriali: attrezzi agricoli, mezzi di lavoro e di trasporto, materiali da costruzione, combustibili, sementi e concimi venivano prodotti in azienda senza alcun ricorso al mercato. In particolare, nel settore tessile centinaia di migliaia di donne filavano e tessevano a domicilio sia per soddisfare i bisogni familiari sia per andare incontroalle richieste dei primi opifici industriali. In definitiva, nel 1860 vi era una
[1]Ivi, p. 11.
[1] Sulla formazione del mercato nazionale cfr. ivi pp. 3-13.
[1]Ivi, p. 18. [1] Sulla separazione tra agricoltura e industria cfr. ivi, pp. 13-26.
modeste disuguaglianze economiche del 1860 che diventano a fine secolo un vero e proprio consistente divario. Di conseguenza, il «Mezzogiorno diviene, per il nuovo Regno d’Italia, uno di quei Nebenländer (territori dipendenti), di cui Marx parla a proposito dell’Irlanda nei confronti dell’Inghilterra, dove lo sviluppo capitalistico industriale viene bruscamente stroncato a profitto del paese dominante»[7].
Tra l’altro, nel giro di qualche decennio ad invadere i mercati del Sud subentreranno i prodotti della grande industria agevolata settentrionale, portando alla totale rovina l’industria casalinga e trovando nel nuovo regime protezionistico del 1887 un mercato meridionale da poter sfruttare senza la concorrenza estera, diventata fastidiosa.
Distrutta l’industria casalinga a domicilio, separate le attività agricole da quelle prettamente industriali, instaurato un nuovo regime protezionistico penalizzante per le produzioni agricole meridionali, alle aziende contadine del Mezzogiorno vengono a mancare i presupposti per la sussistenza. Secondo Sereni, la «questione meridionale» nasce durante il processo di formazione del mercato nazionale e si acuisce man mano che l’economia italiana si sviluppa capitalisticamente[7].
Il saggio di Sereni ha suscitato un ampio dibattito nel Secondo Dopoguerra, tanto che nella riedizione del 1968, nonostante studi e ricerche più recenti, Sereni ha ritenuto di non aggiornare in alcun modo la nuova edizione richiesta da Einaudi, considerando i saggi contenuti nel volume come «capitoli di una vasta opera sulle classi e le lotte di classe nelle campagne italiane, dall’epoca della decomposizione del regime feudale sino all’età contemporanea», le cui radici avevano conservato validità dal punto di vista dell’impostazione metodologica, visto che la questione meridionale e la questione agraria erano ancora problemi nazionali irrisolti[7].
Ai numerosi critici dell’opera, particolarmente ostili e polemici, Sereni contrapponeva la validità metodologica basata sull’analisi della struttura socio-economica della società italiana post risorgimentale: il presente, come Gramsci aveva più volte ribadito, non poteva ignorare gli effetti negativi o positivi delle strutture economico-sociali ereditate dal passato. Ai suoi critici Sereni rimproverava un’impostazione metodologica che rappresentava la storia come «una successione di processi e di eventi intrinsecamente arbitrari, casuali e occasionali», dal meccanico fatalismo, finendo per «identificare ed esaurire la “storia” nella storia di quelle forze e di quelle classi sociali che, in quella determinata fase» avevano«momentaneamente avuto la prevalenza», escludendo le «forze e classi» soccombenti, e cadendo così inevitabilmente nella «supina idolatria del fatto storico in quanto fatto» escludente ogni possibile alternativa storica. In conclusione, Sereni criticava decisamente «la tenace sopravvivenza, nella nostra storiografia, di quell’orientamento idealistico», prettamente crociano, che portava a giustificare gli eventi storiciritenuti necessari, finendo per presentarli erroneamente come i migliori nell’ambito di un processo storico[7].
strettissima connessione nell’azienda contadina tra attività agricola e industriale manifatturiera, protrattasi nel Mezzogiorno almeno fino a fine secolo con il lavoro salariato a domicilio nelle campagne; un’attività che forniva «una parte importante dei prodotti manifatturati al mercato nazionale», mentre la produzione artigiana della famiglia contadina soddisfava«direttamente i bisogni in prodotti industriali delle masse rurali»[1], costituendo un’attività fondamentale per l’equilibrio e la salvaguardia dell’economia della piccola azienda contadina e per il sostentamento delle popolazioni rurali.
Sul finire dell’Ottocento lo sviluppo capitalistico del mercato nazionale ha già imposto la distruzione delle attività industriali legate all’azienda contadina, rendendo fattiva la cosiddetta «separazione tra agricoltura e industria» con la scontata diminuzione progressiva della popolazione addetta all’agricoltura[2], che nel Mezzogiorno non trova altra via che l’emigrazione.
La politica liberista del nuovo Stato unitario corrisponde alla precisa esigenza di consolidare e rafforzare il dominio della borghesia quale classe dominante, intensificando i traffici commerciali e internazionali tramite la neutralizzazione delle barriere doganali e lo sviluppo interno delle vie di comunicazione. Il mercato italiano viene naturalmente invaso da prodotti manifatturieri esteri a basso costo che rovinano l’economia domestica legata alla piccola azienda contadina, accelerando la «separazione tra l’agricoltura e l’industria».
Prodotti esteri, che seppur facendo una spietata concorrenza alladebole e nascente industria incentivata nel settentrione, finisce per favorire la formazione di un mercato interno per la stessa industria che lo Stato favorisce e agevola nel nord con tutti i mezzi possibili. In sostanza, la concorrenza estera porta sul lastrico la piccola imprenditoria industriale specie meridionale e favorisce la concentrazione e lo sviluppo di grandi gruppi industriali nel nord del Paese.
Nel Mezzogiorno, laddove prevale un’agricoltura estensiva volta all’autoconsumo con traffici commerciali estremamente risicati tipici dell’assenza di uno sviluppo capitalistico agrario, la forzatura al brusco passaggio da un regime protezionistico pesante ad uno libero,l’inasprimento del sistema fiscale, l’unificazione del mercato nazionale e lo sviluppo capitalistico accentuano le
[1]Ivi, p. 37.
[1]Sulla formazione del mercato italiano interno per la grande industria cfr. ivi, pp. 26-41.
[1]Cfr. ivi, pp. XV-XVII. [1]Sulla critica al saggio, sulle diverse impostazioni metodologiche e storiografiche, sulla storiografia idealistica propriamente crociana, cfr. ivi, pp. XVI-XXVII.
carlo michele eugenio