PANORAMICI GARGANICI
1934
Turista – scrittore pugliese, Nicola Serena di Lapigio, nato nel 1875, pubblica già dal 1913 sul giornale La Tribuna una serie di articoli, in cui mostra una vibrante predilezione, quasi un innamoramento, per il Gargano.
In Panorami garganici, edito nel 1934, “la multiforme malia di paesaggio e di vicende”, che il Serena di Lapigio scopre in questa terra, gli fa scrivere di San Nicandro: “All’ingresso del paese mi mostrano i famosi pozzi, che son circa duecento, allineati e schierati in molte file con le lor bocche aperte, sopra una bassura. Salvo le fiamme, mi vien fatto di pensare alle arche degli eretici, forse perché mi dura la suggestione delle ricordanze di Svevia; e mormoro: Qua dentro è lo secondo Federico…
Invece là non c’è che acqua piovana, e tutto il paese non si disseta che di quell’acqua in verun modo filtrata o purificata”.
Tra pinete e aceri monumentali
«Colà sotto è Viesti, la remota, la perduta dal mondo. La sua solitudine dev’essere un incanto, ma a noi non fu dato visitarla». Con queste parole il Gregorovius terminava il capitolo «L’Arcangelo sul Gargano» nel suo notissimo libro «Nelle Puglie». Che differenza fra oggi e cinquant’anni fa! Arrivare alla «Sperduta» è oggi null’altro che una piacevole gita; e noi percorreremo con una facilità estrema la via che al tedesco parve forse troppo ardua a tentarsi.
La percorreremo dopo esserci affacciati su quel versante settentrionale dove il Gargano raccoglie e dispiega i suoi più dolci e teneri incanti: dopo aver rivisitato Rodi, luminosa maga adagiata sul suo fulvo piccolo promontorio a gioire dell’onde che la lambiscono, degli aranci ingemmati nella polita ricchezza verde del loro manto, degli olivi che svariano di verde argentato tutte le colline d’intorno, rigate dai freschi fremiti delle sorgive, e la corteggiano fin giù, lungo la dolcissima spiaggia che porta a S. Menaio, ed a Peschici là in fondo, «tàche eclatante sur les flots verts» come la definisce il Bertaux: crestato molosso addormentato sull’acque in un pulviscolo d’oro che sembra creargli intorno un’atmosfera di sogni.
Ed in faccia, come tenui vapori esitanti sul mare, le isole Tremiti.
La percorreremo dopo avere a lungo battuto gli ombrati viali di quelle meravigliose pinete che sono la opulenta rivestitura arborea delle colline che discendono fino a S. Menaio e di cui Vico è la chiara dominatrice; pinete di cui ricordo la voce in una lontana estate, voce ininterrotta fatta d’un crepitio continuo di pigne che aprivano sui rami le loro squame e d’uno sfrigolio di resine trasudanti dai tronchi, mentre alla vista non cessavano mai di trasparire, fra l’intenso verde delle chiome tondeggianti e tra i fusti, le vivaci purezze d’un cielo di turchese e d’un mare di limpido zaffiro, sul quale ci pareva di spenzolarci ad ogni istante e presso al quale tuttavia non ci riusciva mai di giungere all’aperto.
La percorreremo dopo aver attraversato la foresta Umbra alla quale non ci si può avvicinare senza ripeterci versi di Orazio e di Virgilio, e che mai mi era parso così seducente come è ora, arricchita dai colori dell’autunno. Le stesse sue prime avanguardie, le brune macchie, sparse dapprima e poi sempre più alte e compatte, porgenti ad ogni passo variati motivi di quadri, offrono aspetti di così severa bellezza che potrebbero già di per sè stesse appagare l’attesa di chi ignorasse che quella è soltanto l’attraente introduzione d’una sinfonia, la quale non ha pari per la maestà delle forme monumentali e la varietà dei toni che dal più acceso al più profondo s’intrecciano e si avvicendano in una possente armonia.
La strada che serpeggia in delicate curve, inoltrandosi sotto più alti fusti, diventa a poco a poco sempre più soffice e riposta: diventa il viale senza prevedibile fine d’un immenso parco, dove a tratti si corre sopra fruscianti tappeti d’un rosso vivo, mentre, al disopra delle rugose o cinerine masse cosparse di licheni dei giganteschi tronchi, s’addensa il tremulo intrico dei mille verdi, dei rossi, dei gialli, e, dove il sole prevale, tutto in alto è invasato di luminose trasparenze, e tutto in basso sfavilla di monetine di luce agitantisi in una allegra irrequietezza di farfalle d’oro.
Questa immensa foresta di bei faggi, d’aceri, di tigli, di allori spinosi, distesa su grandissima parte della colonna dorsale del Gargano per tutte le sue cime e per tante ombrate gole e per tanti dolci pendii, è di una stupefacente continuità, sì che parrebbe possibile camminarci dentro per giornate intere senza mai vederne il termine: bosco foltissimo, dove tuttavia la gioia della luce sembra non dover mai essere negata pur se venga attenuato l’ardore del sole, e dove di tanto in tanto un albero di tronco più ampio e possente s’aderge a dominar sui vicini sormontandoli come il capo d’una vivente comunità immobilizzata dal pondo dei secoli in una monumentale stabilità fremente di voci corali e vasti murmuri.
Il patriarca di questi capi di comunità arboree fù senza dubbio il famoso acero che i re borbonici avevano dichiarato monumento nazionale e che nel 1870 fu venduto per una somma da nulla. Poiché un disco del suo tronco è custodito in un museo di Roma, noi possiamo sempre interrogarlo circa l’età che l’albero aveva quando fu reciso; ma non più solennemente questo ce la rivelerebbe se si adergesse ancora lì, pensoso gigante, a tutelare i ricordi millenari del suo sterminato popolo vegetale?
Come l’orizzonte ci si apre alla vista, e campi e prati ci appaiono nelle vallate e su per le spalle coltivate altre groppe boscose si scoprono succedentisi in piano sovrapposti, come terrazze digradanti, come onde accavallantisi, fino laggiù dove il mare s’indovina e non si vede ancora.
nicola serena di lapigio