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IL DIBATTITO ILLUMINISTICO DI ECONOMISTI E SCRITTORI DEL TARDO SETTECENTO SULLA REGIA DOGANA DI FOGGIA

Era stato Ferdinando Galiani, nella prima edizione del Trattato della moneta nel 1751, – lo ricorda Pasquale di Cicco (Il problema della Dogana delle pecore nella seconda metà del XVIII secolo, in «la Capitanata», Foggia. a. VI [1966] n. 1-6, p. 63) – il primo ad aver sostenuto in maniera decisa l’affondo contro il sistema della Dogana delle pecore.Quello di Galiani restava un tentativo isolato: i tempi non erano affatto maturi, intanto che le condizioni economiche e socio-demografiche consentivano ancora il primato della pastorizia sull’agricoltura nel Tavoliere delle Puglie.

Nella seconda metà inoltrata del Settecento, il progetto ferdinandeo fisiocratico, anti-vincolista, e moderatamente liberista, spingerà scrittori, riformatori ed economisti a riconsiderare più concretamente la possibilità di una riforma sostanziale della Dogana o, addirittura, l’eventualità di una sua soppressione. I condizionamenti economici muteranno velocemente e l’aumento dei prezzi favorirà l’agricoltura granaria, non la pastorizia della lana; in altri termini, la «ragione agricola» avanzerà rispetto alla «ragion pastorale»(Cfr. S. Russo, Abruzzesi epugliesi: la ragion pastorale e la ragione agricola, in Mélange de l ‘école française de Rome, Moyen age – Tempsmodernes, tome 100, 1988, 2, p. 931).

Nella prima parte del Settecento era invece del tutto naturale e scontato schierarsi dalla parte della «ragion pastorale», come documentato ampiamente dal foggiano Andrea Gaudiani, oltre che nel 1731dall’insigne socio dell’Arcadia napoletana Stefano Di Stefano: entrambiassegnavano all’agricoltura un ruolo del tutto secondario e marginale (Russo, op. cit., p. 925).Mentre, già prima, Marcantonio Coda si era andato cimentando con i principi, le leggi e i privilegi della Regia Dogana pubblicando un testo(Breve discorso del principio, privilegi, et instruttioni della regia dohana della mena delle pecore di Puglia, Napoli1666).

Il foggiano Andrea Gaudiani (1652–1716), avvocato doganale, scriveva nel 1700 un manoscritto riportante, nella prima parte, informazioni concernenti l’amministrazione della Regia Dogana (Notizie per il buon governo della Regia dogana della mena delle pecore di Puglia, Foggia1981) e, nella seconda parte, i privilegi concessi ai locati con le leggi che governavano la Regia Dogana. L’intento evidente del Gaudiosi era quello di conservare alla pastorizia del Tavoliere l’acquisito status quo, relegando l’agricoltura ad una mera funzione complementare, come egli stesso riferiva spiegando i tre motivi che avevano indotto la Regia Corte ad affittare ad uso semina parte dei terreni destinati prima alle pecore:

«Il primo fu l’utile publico del regno […] perché quando il regno abbonda di vettovaglie, mandandosi fuora entrano denari, ogni vassallo più volentieri e con facilità pagare i pesi fiscali, et ogn’uomo per povero che sia ha campo aperto, e maggiore commodo per provedersi di pane. Il secondo motivo fu l’utile grande dell’istessa Regia Corte, si perché in questo modo cava più lucro da detti territorii che affitta a coltura, di quello che riceve da locati per pascolo delle pecore, come ancora, essendovi grano in abbondanza, estraendovi ricava dalle tratte summe di consideratione, solendosi concedere dette tratte alla raggione del 4%.E per ultimo vi concorre anche l’utile del massaro…Per le suddette ben ponderate riflessioni la Regia Corte nell’anno 1555, essendo viceré in questo regno d. Berardino de Mendoza, risolse non meno per il pubblico beneficio, che per il magnifico servizio di S.M. togliere una porzione di territorio alle pecore e destinarla ad uso di coltura per affittarla a massari campo non in perpetuo, ma per certo tempo» (Gaudiosi, op. cit., pp. 179 ss).

Ma bisogna aspettare l’opera di Stefano Di Stefano(Della ragion pastorale over comento su la Pramatica LXXXIX “De officio procuratorisCaesaris”, Napoli1731) di Agnone, – avvocato doganale, dal 1734 governatore della Regia Dogana –, perché la complessa e intricata materia riguardante il tipo di gestione territoriale sia affrontata nella sua compiutezza, pur se ammantata da una visione idealizzata ed arcadica.Tanto che il Di Stefano sarà l’esperto più consultato e citato dagli autori, dagli economisti e dagli illuministi che affronteranno, nella seconda metà del Settecento, le problematiche connesse alla gestione doganale, nel tentativo di dipanare i vigorosi e ricorrenti processi conflittuali derivanti da un sistema sempre più criticato e contrastato, man mano che il «secolo dei Lumi» andava emanando i suoi ultimi bagliori.

Ancora nel 1760, avvalendosi del parere del Genovesi del quale era stato allievo, Nicola Fortunato poteva inneggiare «in senso ultrapastorale all’industria della lana»(R. Colapietra, Il Tavoliere di Puglia banco di prova dei riformatori e degli scrittori economici nel secondo Settecento, in Illuminismo meridionale e comunità locali,Napoli, 1988, p. 151),«la più antica e la più soddisfacente a’ comuni bisogni […] il vero nerbo per sollevare ed esaltare alle stelle un’intera Nazione, ancorché abietta e depressa che mai fosse»(N. Fortunato, Riflessioni intorno al commercio antico e moderno del regno di Napoli, Napoli 1760, p. 104).

I tempi cambiano definitivamente alla soglia degli anni Ottanta del Settecento: le posizioni antiliberiste e vincolistiche del secolare sistema della Dogana, retaggio di oscure logiche medievali, sono messe a dura prova da un illuminismo napoletano maturo, supportato da un largo seguito negli ambienti politici e culturali della Capitale. D’altronde, le politiche economiche e sociali di re Carlo di Borbone avevano sortito un aumento demografico in tutto il Regno, persino in Capitanata, la cui conseguenza più percettibile risultava nel più consistente approvvigionamento di generi alimentari proveniente dall’attività agricola. Scontato, quindi, il progressivo aumento dei prezzi delle derrate agricole e la conseguente messa in discussione del particolare regime pastorale a cui rimaneva soggetto e subordinato il Tavoliere delle Puglie.

Ma, ancora nel 1767, Nicola Fortunato in un nuovo testo (Discoverta dell’antico Regno di Napoli col suo stato a pro della sovranità e de’ suoi popoli, Napoli 1767), limitandosi a semplici suggerimenti su come eliminare le cause portatrici della decadenza del regime della Dogana, dimostra di non percepire come il sistema della pastorizia transumante, così come concepito dagli Aragonesi, si stia avviando al tramonto, tanto che Pasquale Di Cicco giudica l’argomento trattato dallo stesso con «un ottimismo avulso dalla realtà» (di Cicco,op. cit., p. 64).

Un ottimismo che pare essere ancora comprensibile nel 1767. Un ottimismo confermato da Antonio Silla, deputato generale dei locati, il primo ad attestare che, fin tanto che le proposte di censuazione rimanevano congetture di pensatori perditempo, esse non avrebbero destato alcuna preoccupazione. Ma tutto cambia nell’ottobre del 1782,«avendo la M. del Re formata una nuova Giunta per il sollievo delle sue Regali finanze, il primo piano, che si propose a que’ degnissimi Ministri, fu appunto questo della Censuazione»(La pastorizia difesa…, Napoli 1783, p. 7).

Come rileva tra gli altri anche di Cicco (op. cit., p. 64), il dibattito sull’opzione della censuazione si allarga e il lavoro della Giunta napoletana scatena lo studio appassionato dei riformatori illuminati dell’epoca con opinioni e pareri, spesso del tutto divergenti, sul futuro della pastorizia transumante e sulla derivante destinazione economica dei vasti territori saldi del Tavoliere delle Puglie soggetti al regime vincolistico della Dogana. Un regime vincolistico che pur dovendo continuare ad essere produttivo fiscalmente, secondo la nuova ottica corrente a fine Settecento nei cenacoli culturali, non poteva più non tenere nel debito conto la «pubblica felicità» delle popolazioni rurali che costituivano le vere forze motrici ai fini della produzione di ricchezza.

In verità, già avevano contribuito a formare una nuova coscienza i seguenti testi pubblicati a Napoli nel 1780: l’Esame economico del sistema civile di Filippo Briganti; la seconda edizione del Trattato della moneta di Ferdinando Galiani; il Piano di Riforma per la pubblica economia delle provincie del regno di Napoli, e per l’agricoltura delle due Sicilie di Domenico Grimaldi. E a seguire, nel 1781, Lo stato politico ed economico della Dogana della Mena delle pecore di Puglia, in tre volumi, di Francesco Nicola De Dominicis e la Descrizione dello stato antico ed attuale del Contado del Molise, in due volumi, di Giuseppe Maria Galanti.

Tuttavia è il 1783 l’anno della svolta, quando, subito dopo i manifesti propositi della Giunta per la censuazione delle terre del Tavoliere, Domenico Maria Cimaglia pubblica, sempre a Napoli, il Ragionamento dell’Avvocato de’ poveri… Nel mentre, con tesi opposte a quelle del Cimaglia, nello stesso anno, Vincenzo Patini di Castel di Sangro e Antonio Silla di Scanno, pubblicano rispettivamente il Saggio sopra il sistema della Regia Dogana della Puglia, suoi difetti e mezzi di riformarlo e La pastorizia difesa.

Ad emergere, e a porsi su un piano più elevato, è proprio la proposta di Cimaglia, relativamente alla quale, tessendone l’elogio, di Cicco scrive:«L’avvocato dei poveri, Cimaglia, nel suo “Ragionamento”, non a caso dedicato al Principe di Migliano del Supremo Consiglio d’Azienda, individuava, senza mezzi termini, nella Dogana la causa remota e presente della mancanza di popolazione di Puglia, e, per le sue norme proibitive a favore della pastorizia, la riteneva responsabile della carenza di estese piantagioni e di una giudiziosa agricoltura […] Con una mirabile modernità di concetti, sosteneva la censuazione del vasto demanio armentizio, ed avvalendosi con intelligenza dell’esperienza derivantegli dalla sua professione e dal suo impiego, suggeriva le modalità e i caratteri che avrebbero dovuto informare l’auspicata enfiteusi» (di Cicco,op. cit. pp. 64-65).

Anche Colapietra – dopo aver illustrato le tesi tradizionaliste e conservatrici del Patini, contrario alla censuazione e arroccato in difesa dei privilegi dei locati e, quella ancora più intransigente del Silla – focalizza la sua attenzione sul testo del Cimaglia, mettendolo a confronto con gli scritti degli autori citati:«Ben più conosciuto di essi, il foggiano Domenico Maria Cimaglia, a cui si deve la terza opera doganale di questo cruciale anno 1783 […] unifica per la prima volta, e quindi inevitabilmente semplifica, la questione del Tavoliere in una impostazione dottrinaria generale, radicalmente eversiva, con un senso vigoroso dell’assolutismo riformatore» (Colapietra, op. cit. pp. 158-159).

Colapietra riconosce al Cimaglia l’acquisita e imprescindibile competenza per affrontare la complessità di una materia tanto vasta, quanto intricata; tale da non poter essere esaminata e trattata solo su principi puramente ed esclusivamente teorici:«Sennonché, avvocato dei poveri come è da tempo, Cimaglia ha lungamente ed operosamente vissuto, come del resto i due scrittori abruzzesi, in mezzo alla materia di cui tratta, sicché in lui l’enunciazione teorica non è fine a sé stessa, bensì vale come piattaforma pregiudiziale su cui erigere un ricco e concreto edificio di osservazioni particolari, centrato bensì sulla censuazione perpetua mediante l’assegnazione di poste fisse, ma integrato da proposte di miglioramento colturale, così pastorali come agricoli, grazie allo spirito d’intrapresa del nuovo ceto rurale a cui i locati, trasformati in proprietari sedentari, avranno dato vita… » (Colapietra,op. cit. p. 159).

michele eugenio di carlo

(società di storia patria per la puglia)