Gaetano Filangieri, che aveva manifestato tutta la sua avversione al sistema feudale con la Scienza della legislazione, sostenendo trattazioni amministrative e tributarie non più differibili, volendo far fronte a serie riforme al fine di rilanciare un’economia delle produzioni e del commercio e desiderando affrancare le plebi rurali da pesi e vincoli feudali, offrendo loro un sistema di educazione e di istruzione, nel 1787, allo scadere di una breve ma intensa esistenza, è chiamato dal primo ministro JohnActon a far parte del Supremo Consiglio delle Finanze, nonostante la sua Scienza della legislazione avesse – unitamente a vasti consensi europei – destato aspre critiche negli ambienti antiquati e conformisti della corte napoletana. Qui, si ritrova ad operare con personaggi del calibro di Delfico, Galanti, Grimaldi e Palmieri.
Filangieri opera fiducioso che i sovrani illuminati, Carolina e Ferdinando, sosterranno le sue idee moderniste e progressiste. Mai temendo le inimicizie autorevoli e gli ostacoli influenti provenienti dal mondo baronale, era profondamente convinto di far sentire al popolo «la voce della libertà» e di ravvivare in esso «la memoria de’ suoi preziosi e inalienabili diritti».
In riferimento al diverso atteggiamento sugli abusi feudali del marchese salentino Giuseppe Palmieri, collega di Filangieri nel Supremo Consiglio delle Finanze, il meridionalista Giovanni Carano Donvito riprende la tesi di Giuseppe Pecchio (Storia della Economia Pubblica in Italia, Lugano1849, pp. 225-226):
«Deve rammentarsi che laddove il Filangieri era un filosofo che spingeva le sue osservazioni sino ai confini dell’utopia, Palmieri era il ministro di una monarchia assoluta, un uomo di affari e di esperienza, che, sebbene inclinato a correggere molti abusi, pure non voleva produrre la scossa d’una intiera demolizione […] Aggiungasi che Filangieri scriveva prima della Rivoluzione francese e poteva dilettarsi d’immaginare e di additare all’Europa una nuova esistenza politica, mentre il Palmieri scriveva durantela Rivoluzione francese, e, intimorito da questa, non osava accennare che a riforme esenti da ogni pericolo» (G. Donvito Carano, Meridionalismo ed Economisti di Puglia, Bari 2024,p. 62).
É lo stesso Filangieri a riferirci i dettagli che lo porteranno a scrivere nel 1788 il celebre Parere presentato al Re sulla proposizione di un affitto sessennale del così detto Tavoliere di Puglia(Milano 1822, pp. 333-355):
«… nell’anno 1788, allorchè si trattò nel supremo Consiglio delle finanze di Napoli, se in vece dell’affitto annuale del Tavoliere di Puglia, col metodo della professione, fosse stato conveniente di stabilire un affitto sessennale col metodo ordinario della pubblica subasta; per indi da questa prima operazione potersi passare a quella più utile e più grande della ripartizione di tutte le terre dello stesso Tavoliere in perpetua enfiteusi. Il cavalier Filangieri richiesto dal Re del suo parere, lo ripone colla seguente Rimostranza» (Ivi, p. 336).
Sin dalle prime pagine del parere Filangieri manifesta apertamente, destando lo sconforto di Melchiorre Delfico e di Giuseppe Maria Galanti, di essere favorevole all’affitto sessennale, perché convinto che negli Stati in cui «vecchi mali ed antichi errori opprimono il popolo», le novità per riuscire utili ed eseguibili non possono essere disgiunte da un sistema complessivo che abbia piena cognizione dell’origine dei «mali» stessi. Perciò – secondo Filangieri – le sole proposte possibili in relazione al Tavoliere, percorribili senza correre rischi ed andare incontro a mille incognite, «si riducono a quelle poche operazioni le quali, senza spezzare e scomporre l’erronea catena, né ingentiliscono soltanto alcuni anelli». É in quest’ottica prudente che si configura la sua proposta a sostegno dell’affitto sessennale (Cfr. ivi, p. 337).
Non che in Filangieri esistano aperture alla tutela degli eccessi feudali e alle concessioni ecclesiastiche, è che Filangieri vede i passaggi del processo di sviluppo economico e le fasi della civilizzazione delle plebi rurali attraverso un sistema complessivo e organico di riforme e non tramite singoli interventi decontestualizzati.
Filangieri, tuttavia, rimane sempre più convinto che le terre del Tavoliere in mano a pochi «beneficiati» siano la vera causa della miseria dei non proprietari «mercenari» e dello spopolamento della Daunia.
Lo storico Raffaele Colapietra interpreta il parere di Filangieri come l’unica soluzione possibile per un passaggio che dall’affitto sessennale avrebbe portato il locato alla definitiva enfiteusi perpetua, senza correre il rischio della «paventata possibilità che della censuazione beneficiassero i soli pugliesi, e peggio ancora, i soli capitalisti, con la dannosa esclusione degli abruzzesi» (P. di Cicco, Il problema della Dogana delle pecore nella seconda metà del XVIII secolo, in «la Capitanata…», Foggia, a. VI (1966) n. 1-6, p. 67).
Melchiorre Delfico, sfuggito al patibolo nel 1799 avrà un futuro nel Consiglio di Stato all’arrivo di Giuseppe Bonaparte. Nel 1788 avevapubblicato il Discorso sul Tavoliere di Puglia(Napoli, 1788), occupandosi della transumanza relativamente agli aspetti giuridici ed economici.
Ben distante dai tentennamenti di Gaetano Filangieri, Delfico – aveva già espresso tutta la sua avversità al regime feudale, alle concentrazioni latifondiste e alla conservazione dei privilegi baronali ed ecclesiastici – si lancia decisamente a favore della divisione delle terre ai contadini contro una società classista nettamente divisa tra ricchi e poveri. Per Delfico non è solo una questione di giustizia sociale: il rilancio dell’agricoltura del Tavoliere, non più condizionata dalla pastorizia transumante, è uno dei fattori risolutivi ai fini dello sviluppo della Daunia e del suo ripopolamento. E non solo: l’aumento di proprietari che si dedicano seriamente alle terre deve essere l’obiettivo di qualsiasi Stato moderno che voglia assumere il ruolo di controllo in un sistema economico nuovo, incentrato su una produzione affrancata da vincoli e basato sul libero scambio.
Drastica l’opposizione di Delfico contro coloro che, interessati a spargere ignoranza e pregiudizi, sostengono e caldeggiano l’archetipo di un Tavoliere votato alla sola pastorizia a causa di fattori climatici ed ambientali immodificabili.
Tra l’altro, proprio in quegli anni, un frate di Vico nel Gargano, Michelangelo Manicone, meditava da scienziato e da naturalista sui fattori climatici e meteorologici e sulle dinamiche antropiche che avevano comportato lo spopolamento di un Tavoliere reso sempre più simile ad un deserto, pur essendo situato in area mediterranea.
Le tesi di Delfico saranno pienamente confortate dagli studi, imperniati scrupolosamente sull’osservazione e sulla sperimentazione, di Manicone: uno studioso di non poco conto se il georgofilo Nello Biscotti – autore del testo Padre Michelangelo Manicone – Un dimenticato naturalista del Settecento – scriverà, nel 1996, che«con Manicone per la prima volta si fa Storia naturale in Capitanata e con la sua opera si vivono le tappe fondamentali della storia delle scienze naturali che culminerà con la nascita dell’ecologia, la scienza delle relazioni che si caratterizzerà come la più umana delle scienze poiché chiama in causa l’uomo. E Manicone già nel Settecento chiamava in causa le sue scelte, le sue responsabilità di fronte ai cambiamenti climatici del Gargano, all’aridità del Tavoliere in conseguenza degli intensi disboscamenti che allora avevano interessato queste terre» (Foggia1996, p. 14).
Michele Eugenio Di Carlo
(Società di Storia Patria per la Puglia)