Una cucina sorprendentemente personale, che riesce a mantenere una profonda eleganza e, allo stesso tempo, risulta decisamente focalizzata sull’intensità dei sapori: al Gio’s Giuseppe Ricci dà sostanza all’alta gastronomia d’hotel.

Uno degli aspetti più romantici, se si pensa a The St Regis Venice, è il suo essere defilato, nascosto in un angolo quieto, vicinissimo ai luoghi nevralgici di Venezia che si trovano solo a pochi passi di distanza e allo stesso tempo in un beato isolamento. In sintesi, un vero emblema di esclusività. L’ingresso quasi non si nota, è sobrio, in delicato contrasto con il lusso comunque mai ostentato dei magnifici interni che si spalancano allo sguardo una volta entrati.

Terzo hotel di questo marchio della Marriott in Italia dopo Firenze e Roma, è frutto di un paziente e prezioso restauro di quello che fu lo storico Grand Hotel Britannia, la cui prima apertura risale al 1895, anno dell’inaugurazione della Biennale; nota da rilevare, il primo hotel a Venezia ad aver messo a disposizione di tutti gli ospiti l’energia elettrica. Tra i tanti celebri personaggi del passato che qui hanno soggiornato vale la pena ricordare Claude Monet, grande pittore impressionista passato di qua nell’autunno del 1908.

Per nulla scontata invece la presenza di un ristorante, il Gio’s, dove ci si sposta ben oltre la classica cucina internazionale, molto ben fatta ma senza una particolare anima. È in particolare a cena che questo angolo elegante si trasforma in grande luogo di accoglienza gastronomica. Merito di un team che vede a capo delle cucine l’executive chef Giuseppe Ricci, con il quale lavorano a stretto contatto Sirio Mignucci, executive sous chef e l’head chef Iulian Colesnic.

Il percorso di Ricci, classe 1985, è piuttosto articolato, ma il suo amore per l’alta cucina, da come ce l’ha raccontato, non è stato esattamente a prima vista: “Vengo da Vieste, e lì lo sbocco principale è nel turismo, quindi ho fatto l’alberghiero anche un po’ per necessità, perché confesso che da ragazzino non avevo voglia di fare quasi nulla. Così i miei mi hanno detto ‘vai e impara un mestiere’. Dopo il primo anno ho iniziato subito a fare le stagioni come apprendista e mi è piaciuto, anche perché lo chef che ho incontrato in questo albergo, l’unico cinque stelle della zona, era super-appassionato e ha fatto appassionare anche me. A quel punto, sorprendendo tutti a partire da me stesso e dai miei genitori, ho iniziato a interessarmi seriamente alla cucina.”

Da lì viene selezionato insieme ad altri tre ragazzi per un’esperienza all’estero e si ritrova a Londra: “Facevamo 120 coperti ma in un modo completamente diverso da come l’avevo visto fino ad allora, trentadue cuochi con una divisione in partite in modalità francese. Sono rimasto colpito e me ne sono innamorato, non era scritto solo sui libri, un sogno”. Rimane al Galvin tre anni e mezzo, accanto a un sous chef che aveva lavorato con Gualtiero Marchesi, Alain Ducasse e Robuchon, dal quale apprende molto sui prodotti. Tramite lui va al Dorchester da secondo chef e lì, dove sarebbe rimasto altri quattro anni, si comincia a capire quella che sarebbe stata la direzione della sua cucina: “I piatti erano esteticamente bellissimi, ma il gusto non si allineava alla mia aspettativa, eppure le tecniche c’erano, così come i prodotti, di qualità incredibile. Ci avrei messo meno bellezza ma più sostanza.”

Giunto alla fine dell’esperienza rifiuta una proposta a Le Louis XV per rientrare in Italia: “Volevo tornare a cucinare a modo mio”. Va dai Santini al Pescatore, ma anche qui le sue aspettative si arenano su una cucina di materie prime eccellenti ma anche di piatti troppo ‘istituzionali’ per i suoi gusti. Una breve esperienza all’Acanto a Milano ed è la volta di Venezia, al Bauer, con Giovanni Ciresa: “Una delle persone che mi ha lasciato di più, forte e con una squadra solida.” Lì gli arriva la proposta del Danieli, dove rimane quattro anni prima di stabilirsi al St Regis. La sua è una cucina sorprendentemente personale, riesce a mantenere una profonda eleganza e allo stesso tempo è decisamente focalizzata sull’intensità dei sapori.
Merito anche di una grande caparbietà che lo vede molto attivo sul fronte di una selezione dei fornitori senza compromessi: “Venezia e i suoi dintorni sono ricchissimi di prodotti, ti devi sbattere tantissimo per reperire quelli giusti ma in questo modo riesci a trasmettere agli ospiti il gusto. Non si può pensare di mangiare le stesse cose che mangi altrove, perché le persone si aspettano qualcosa che si trova solo qui, oltre naturalmente ai classici piatti italiani. E poi la mia idea è di attirare, insieme ai turisti, i clienti locali, perché se capiscono che la sostanza c’è tornano, oltre a vedere un ristorante in albergo sotto una luce differente.” Giuseppe Ricci è anche convinto della necessità di avere una cucina perfettamente organizzata e in grado di far uscire piatti adeguati a prescindere dal contesto: “Non si deve percepire una differenza, ad esempio mangiando al bar a un livello inferiore rispetto al ristorante. E così dev’essere anche per il room service.”