Questa leggenda è la più recente ma si innesta su un antichissimo mito garganico.
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Nel centro di monte Gargano, tra l’aridità delle colline pietrose che la circondano, vi è un’oasi di silenzio e di pace, una immensa macchia verde. E’ il cuore del monte misterioso e suggestivo che non pulsa di battiti violenti e scomposti, che non ha fremiti, che non ha sussurri, ma dove la vita si conta a secoli, si alimenta nella terra, si purifica nell’aria e si trasforma in bellezza.
Sono alberi maestosi che svettano contro il cielo, tanto stretti da sembrare addossati l’uno all’altro, belli per la robusta e florida vegetazione che l’humus del terreno consente, chiome verdi, fitte come maglie di un manto, dove il sole penetra a fatica e l’azzurro s’intravede appena tra gli squarci, dove vivono pochi uomini sperduti fra i tronchi, la cui vita si indovina dal fumo che si sprigiona dalle carbonaie e dai colpi ritmatici della scure e dal ronzio della sega. E sembra che il tempo non trascorra mai perché tutto è quiete, nella immobilità dei fusti legnosi, fitti e serrati, sui quali gioca e mormora ai venti la giovinezza caduca delle foglioline verdi, là dove l’edera s’arresta e i rami conquistano il cielo. Il faggio predomina sui carpini e sull’acero, sulle querci e sugli elci; ma di tanto in tanto appare l’agrifoglio dalle piccole bacche di un rosso vivo, ed il tasso longevo e venefico s’inserisce solitario e quasi funereo.
Rare vie solcano la selva immensa ed ondulata; ma se il visitatore su di esse s’inoltra o si avventura per le mulattiere pittoresche sulle quali caracollano i muli carichi e che battono i boscaioli taciturni, sentirà alfine quell’ istesso religioso raccoglimento che agli uomini dell’antichità pagana fece ritenere i boschi luoghi sacri, per quel senso di smarrimento che prende quando si è di fronte alla maestà del creato.
Al limite della foresta vi è un albergo e poco distante dal rifugio una chiesa. Una piccola chiesa, nascosta fra gli alberi che la ricoprono con i loro rami come serti di amore, con un campanile per lei troppo alto e stretto che assomiglia a un minareto.. Piccola casa di Dio e del Santo padovano, nell’immensità possente di tanta natura viva, trasfigurazione terrena di un pensiero divino. E possente e diluviale è l’acqua quando scende dal cielo, per cui piccoli laghi si
formano nelle doline e dissetano i caprioli ed i nibbi, le lepri leste ed i tardi armenti, ed i pastori anche quando acqua non hanno.
Qua e là, nei pressi dei cantieri, capanne di boscaioli, fatte e coperte di tronchi. Tutto è legno nella foresta e tutto ritorna all’epoca primitiva, forse antecedente a quella della selce scheggiata, che non ha però lasciata traccia per la caducità della materia. E come le capanne, sono di legno gli scanni e le scodelle, i giacigli e le posate, i pavimenti ed i recinti. Anche all’aperto dove il faggio prevale con le sue radici affioranti, sembra camminare sopra un’ossatura di legname tanto esse sono fitte e superficiali.
Questa è la selva Umbra, cuore del Gargano, dove, nel 1948, si decise di festeggiare la « Sagra della Foresta », l’ultima domenica di luglio.
I giornali e la radio annunziarono e diffusero la notizia della manifestazione; e l’attesa era grande specialmente sul Promontorio.
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E un giorno, di un luglio stranamente piovoso, cominciarono ad apparire, sui muri delle vecchie case dei paesi garganici, numerose copie di un manifesto in cui predominava un verde forte, denso con arabeschi di cielo cilestrino. Da un lato un intrigo di tronchi scuri, mentre dall’altro rami frondosi si spingevano nella parte superiore e coprivano un monte, chiazzato anch’esso di verde sulla cui cima s’elevava un castello, con una torre più alta verso il cielo.
Appollaiato su una grossa branca, in risalto fra il groviglio dei rami, appariva la figura di un mostro, dal volto umano e con una folta capigliatura coronata da due corna caprine. Sul labbro inferiore faceva scorrere una fistula tenuta dalle dita contorte ed unghiate, mentre il torso nudo, seguiva l’arco del ramo che lo sosteneva. Le gambe pelose ed i piedi erano anche caprini, e gli occhi sensualmente socchiusi davano al volto un’espressione di gaudio satanico. Su tutto quel verde risaltava una scritta bianca: « Sagra della Foresta — Bosco Umbra nel Gargano. 24-25 luglio 1948, mentre in calce un bel verso del geniale autore del manifesto, marcava il sapore agreste dell’opera: E la voce di Pan dentro ti scorre. (A. Petrucci).
Quando l’attacchino scendeva dalla scala, un piccolo capannello si formava ed i visi meravigliati dei montanari si attardavano a guardare. Poi man mano i capannelli si scioglievano, se ne riformavano degli altri durante i giorni e nelle sere, fin quando non se ne videro più. Ma nei paesi del Promontorio cominciò a circolare una voce. Una voce pavida e sommessa da principio, che in poco tempo crebbe e fu di dominio comune, che formò oggetto delle chiacchiere delle comari e degli ozi dei campagnuoli, che divenne poi certezza perchè tutti la ripetevano. Dove era sorta, nessuno lo sapeva.
Ma in ogni paese si diceva che la notizia era venuta dal centro vicino sicché la patria d’origine rimase ignota. Può darsi però che la leggenda si sia creata con elementi di diversi luoghi, per le aggiunte che accompagnano ed arricchiscono ogni riferimento, per cui i caratteri e i particolari possono ritenersi di tutto il popolo dello Sperone.
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La voce, dunque, diceva così.
In quel bosco immenso che è nel cuore del Gargano e che si chiama Foresta Umbra, vivevano nel tempo antico gli animali feroci e fino a pochi anni addietro si trovavano ancora cinghiali e lupi. Per la permanenza ed il grande numero di fiere, la foresta ha potuto sopravvivere al taglio, pure avendo l’uomo, un pò per volta, distrutto gli animali. E quando il pericolo era quasi cessato, il Governo vi aveva mandato le guardie forestali, alle quali forse, per la loro inflessibilità nella difesa del bosco, gli uomini preferivano gli animali feroci. In quei tempi antichissimi era avvenuto un fatto il cui ricordo terrorizzava ancora e faceva rabbrividire.
Viveva nella foresta una giovane bellissima, figlia di un uomo e di una dea che tutti, uomini e bestie rispettavano e temevano. Era bruna, con occhi nerissimi che lampeggiavano stranamente, con una chioma corvina che folleggiava al vento, con una pelle rosea che sembrava intessuta di petali, flessuosa, perfetta al cui confronto anche Venere avrebbe perduto il suo primato. Tutti i maschi la desideravano ma nessuno ardiva avvicinarla per possederla, perché come la madre, anche lei era ritenuta una dea. La chiamavano Gargara, la ninfa della foresta, ed uomini e bruti a lei s’inchinavano felici di servirla pure di avere da lei un sorriso, una occhiata dolce, una carezza lieve e fuggevole. Fra i bruti vi era un satiro il quale, al solo scorgerla da lontano, era assalito da un tremito di desiderio, molte volte convulso, incontinente, che lo faceva acquattare a terra mentre lo sguardo inebetito non sapeva staccarsi da Gargara. Solo di questo satiro la fanciulla aveva paura, e cercava di fuggirlo mentre il bruto sempre più insistentemente la cercava.
Avvenne che in una notte d’estate, mentre Gargara dormiva distesa su un mucchio di foglie secche in una conchetta di rocce, cullata dal murmure di una fonte vicina che giuliva cantava per la vallata profumata di muschio, il satiro, avvicinatosi all’acqua per dissetarsi, la vide e, in un desiderio pazzo, cercò di soddisfare le sue brame. La foresta fu svegliata dagli urli della ragazza e fu un accorrere di essere umani e di fiere in difesa di Gargara. Il satiro potette dirsi fortunato se riuscì a sfuggire alla loro ira ed a dileguarsi nelle ombre della notte e nell’intrigo dei tronchi. Ma giurò vendetta.
Il padre Giove aveva un vecchio rancore con” la dea madre di Gargara perché, invaghitasi di un mortale, lo aveva preferito a lui nell’amore. Il satiro sapeva tutto questo ed al sommo Giove si rivolse per essere vendicato. E tanto pregò e tanto supplicò e fu così insinuante nel ricordare al padrone dell’Olimpo lo smacco subito per essere stato posposto ad un misero mortale, che alla fine Giove cedette ed unì la propria vendetta a quella del satiro. Fu allora che il capo degli dei, nella sua onnipotenza, trasformò Gargara in un giovane e rigoglioso acero che da quel giorno divenne l’albero del satiro.
Che sui rami di esso si accovacciava, lo difendeva da chiunque volesse danneggiarlo, ne accarezzava le foglie e dalla sua fistula cavava lunghe nenie lacrimevoli. E l’albero viveva così da migliaia d’anni, diventato enorme nel tronco e nella chioma, nella vailetta profumata di muschio, laddove Gargara era stata sorpresa nel sonno. Nessuno ardiva toccarlo perché si diceva che il solo tagliarne un ramoscello, portava sfortuna. Ed era conosciuto col nome di millacero, considerato da tutti come il pregio maggiore della foresta.
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Era avvenuto intanto, come si è accennato, che gli uomini avevano spopolata la selva dalle fiere e solo sparuti caprioli sopravvivevano quando il Governo vi installò le guardie forestali. Ma qualche boscaiolo sosteneva che Umbra era ancora abitata da esseri soprannaturali che si dileguavano all’apparire dell’uomo e che non si riusciva mai a vedere bene, tanto erano lesti nel fuggire quasi avessero la virtù di diventare invisibili. Fra questi esseri soprannaturali si annoverava un mostro che aveva volto umano sormontato da due robuste corna caprine, e le gambe lunghe e pelose ed i piedi pure caprini.
Emetteva accenti inarticolati ed ogni tanto nella foresta si sentiva un suono flautato, triste, e nelle note vi era un pianto accorato come per la nostalgia di un bene perduto per sempre. Perché nel frattempo — un’ottantina di anni addietro era avvenuto che la spregiudicatezza e la prepotenza di un funzionario governativo, avevano abbattuto il millacero per farne mobili per la sua casa. Il funzionario aveva, da allora, passato molti dispiaceri, ma la foresta era stata orbata da quel gran pregio ed all’infelice satiro non rimaneva più neanche la realtà arborea come unico ricordo della donna amata. Si affermava che era stato visto di sfuggita qualche volta quell’essere immondo che da migliaia d’anni si aggirava per la foresta.
Qualcuno assicurava addirittura di aver finanche tirato contro di esso parecchi colpi di fucile, andati a vuoto quasi che un potere arcano deviasse il piombo. Fin quando in un giorno imprecisato dell’inizio di quella estate piovosa, una pattuglia di guardie aveva sentito nella boscaglia il suono flautato e triste e( richiamato dalla dolcezza delle note, si era avvicinato cautamente al luogo da dove proveniva. Ed aveva scorto, appollaiato su un tronco, il mostro mezzo uomo e mezzo capra che dava fiato alla fistula. Le guardie allora, avevano sparato da lontano con i loro fucili mitragliatori ed il mostro era caduto al suolo, ferito ad una gamba. Ghignava, ringhiava, contorceva le dita lunghe ed armate di unghie enormi, batteva il terreno con lo zoccolo della gamba ferita e cercava di raddrizzarsi per fuggire. Le guardie tentavano di intimidirlo tenendo i fucili spianati ed emettendo alte grida, nella speranza anche di richiamare rinforzi sul luogo.
Perché non volevano ammazzare un esemplare così raro che esse stesse non avevano mai visto. Poco dopo giunse un pastore che aveva addosso un’ampia rete, di quelle che servono per fare recinti mobili per le mandrie. La rete era stata stesa cautamente sul mostro per tenerlo imprigionato ed assicurata al suolo con molti picchetti. Poi il pastore era corso al comando per chiedere rinforzi. Nel frattempo la pattuglia delle guardie aveva assunto una posizione d’attesa, allontanandosi di poco dall’essere fiabesco, che aveva smesso di dimenarsi e di ringhiare. E sembrava esausto di forze nella sua immobilità.
Riassicurate le guardie chiacchieravano e fumavano sedute alla base di un tronco secolare. Ma ad un tratto violenti sobbalzi scossero la rete che, rotta dalle corna del mostro, ne lasciò uscire la testa e le spalle; e certamente fra poco avrebbe ceduto maggiormente e lasciato scappare l’uomo-capra. Fecero in tempo le guardie a scaricare i loro fucili sulle gambe della preda, che, ancora colpita, si accasciò al suolo con terrificanti urli e con una espressione infernale sul volto. Tremò il cuore delle guardie che invocarono Sant’Antonio, protettore della foresta. Sopraggiunse poco dopo l’ufficiale comandante il distaccamento con un buon numero di militi ed i più coraggiosi si avvicinarono al satiro che legarono con grosse funi e catene.
Lo caricarono su una di quelle carriole basse che si usano nella foresta per il trasporto dei tronchi, e lo portarono nei pressi della caserma dove fu rinchiuso in una robusta capanna di boscaioli, guardata costantemente da più sentinelle armate. Fin quando il Prefetto della provincia non ebbe stabilito che il mostro doveva essere assicurato in una massiccia gabbia di ferro per essere esposto al popolo e poi ucciso in pubblico, nella foresta, il 25 luglio. In quel giorno sarebbero convenuti nel bosco tutte le autorità ed i sindaci della regione e poteva andarci chiunque lo desiderasse con i molti automezzi che erano stati messi a disposizione da tutti i paesi del Promontorio. Sarebbe stata una grande festa; finanche il Governo avrebbe mandato da Roma il suo rappresentante per assistere all’uccisione di quel mostro infernale che portava iattura al Promontorio e che aveva fin’allora tenuto lontano dal Gargano ogni progresso civile, mentre il resto d’Italia aveva tante cose che i garganici da secoli sognavano senza mai riuscire ad ottenerle. Ma chi avrebbe avuto il coraggio di assistere all’uccisione del mostro che sarebbe stato certamente duro a morire per i millenni che aveva sulle spalle?… E poi… chi sa che quello non era il diavolo e che cosa poteva scatenare ! Forse era meglio rimanersene a casa.
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Tutto questo dicevano allora le comari nei loro conciliaboli ed i contadini nei riposi e lungo i tratturi. Così sorse la leggenda della Sagra che circola ancora sebbene in tono minore, con 1’aggiunta che la ripetizione annuale della festa è la celebrazione di quel giorno in cui il Promontorio fu liberato dal mostro. Però moltissimi garganici, uomini e donne, andarono alla Sagra ma nessuno vide il mostro; si confusero invece in una moltitudine di gente che animò la foresta fino a notte inoltrata, lieta, sorridente, noncurante della pioggerella. Al ritorno in paese e nei giorni successivi, i burloni riferirono di aver appreso da sicura fonte che l’uomo-capra era stato ucciso alla sola presenza delle autorità, mentre la folla ballava sullo spiazzo avanti l’albergo-rifugio.
Giuseppe D’Addetta
Scrittori Dauni – 1960 –
(8 continua)