Fra gli alberi della foresta tanto alti che sembravano quasi raggiungere il cielo si scorgeva, a tratti, un’alba di rosa orlata di sfumature gialle, che si affacciava all’orizzonte oltre le colline degradanti verso il mare. La foresta pareva sonnacchiosa sotto il manto verde bucherellato delle foglie, mentre sulla strada bianca s’arrampicava, con un coro di mille cigolii, un vecchio traballante carro, disordinatamente carico, ai cui lati, ora incitando con suoni gutturali il magro ronzino, ora spingendo il veicolo su per l’erta, camminavano lenti e silenziosi un uomo dall’incipiente vecchiaia e suo figlio appena sul limitare della giovinezza.
Quanti anni sono passati su questa foresta! Esclamò ad un tratto il vecchio come a conclusione di un lungo, intimo soliloquio. Un sospiro profondo riempì quindi la breve pausa! E sono anche tanti anni che non la rivedo!
E poi rivolto al figlio aggiunse: — Venni qui una volta con tua madre quando la forza dell’amore e della giovinezza ci faceva credere nella conquista dell’avvenire.
Fece schioccare in alto la frusta, contrasse il volto come in uno spasimo e si rinchiuse di nuovo nel suo silenzio.
Il povero saltimbanco ricordava, mentre taceva la foresta sconfinata e la via scorreva lenta sotto il passo faticoso del cavallo.
Unico erede di uno zio ricchissimo, aveva vissuto una giovinezza gaia ed avventurosa, che sembrava non dovesse avere mai fine. In tale periodo, mentre andava in cerca di emozioni nuove, aveva scoperto, nel suburbio di una grande città, Magda, figlia di saltimbanchi ebrei e quasi per gioco aveva voluto il suo amore. Ma quando tentò di allontanarsi da lei, aveva già troppo nel cuore gli occhi profondi di Magda, nell’anima l’anima sua e nel pensiero e nella carne la sua meravigliosa bellezza. E non fu più capace di abbandonarla.
Seguì l’indignazione dello zio che istituì erede di tutta la sua sostanza un’opera di beneficenza, poi la vita grigia, senza sole, stentata, che trasformò il signore in un saltimbanco: Tonny.
Nacque Giannantonio che a dieci anni rimase orfano della madre.
E il povero Tonny riunì nel suo cuore straziato l’immagine del figlio e l’ombra della sua donna perduta.
Ma la sera, durante lo spettacolo, si ripeteva costantemente la vecchia storia del pagliaccio, dall’anima stanca e dalla faccia sorridente, mentre di tanto in tanto, Magda appariva in alto a fianco di Giannantonio, operante sulla corda o sul trapezio, quasi a proteggere il suo figliuolo. La via fu lunga e la foresta sembrò interminabile. Ad una svolta a mezza costa, apparve finalmente il grosso borgo sulla collina zigzagata dalle rampe, oltre la valle.
* * *
In una piazza del paese, sullo sfondo suggestivo di un castello merlato, furono innalzati pali, eretto un trapezio, stesa una corda metallica, dinanzi ad una folla festante di bimbi. E per tutto il giorno andò in giro un cartellone annunziante pomposamente l’esibizione del giovinetto prodigio, ginnico di insuperata destrezza.
Al tramonto lo spettacolo incominciò. Il vecchio Tonny, dal viso infarinato, nei vestiti goffi, con stentate capriole, svocinando riempiva gli intervalli. La folla si mostrava benevola di applausi a Giannantonio, conquistata dall’abilità del giovane, atleta perfetto, bruno, ricciuto, con grandi occhi mesti e neri, stranamente zingaresco nella espressione del volto.
Ma quando Tonny annunziò l’imminente esecuzione del giro della morte a chiusura dello spettacolo, il silenzio fu profondo e l’attesa trepidante. Mille volti guardavano in aria e mille cuori battevano con ritmo più lento quasi volessero ritardare ristante all’infinito. Il padre fu sotto il trapezio. Cos’aveva quella sera il suo cuore che sembrava volergli sfuggire dal petto?
L’esercizio incominciò, si svolse… ma le mani non riafferrarono il trapezio e Gannantonio precipitò, volteggiando ancora, fuori della rete di sicurezza.
Un urlo pazzo, raccapricciante della folla squarciò l’aria, un corpo cadde ai piedi di Tonny. Esanime il giovane giaceva sul lastrico mentre dalla bocca fluiva un rivolo di sangue per la guancia destra su cui la testa era leggermente reclinata. Al povero pagliaccio, chino sul figlio, giunse appena un filo di voce invocante: Papà… vedi., mamma… benedicimi, mentre due pupille meste lo guardavano con infinito a- more. Poi le palpebre si abbassarono lentamente, si chiusero.
Sembrò al saltimbanco che un gran vuotocircondasse d’improvviso mentre nel trambusto che seguì, la grande anima del popolo piangeva con lui. La gola di Tonny fu serrata da un nodo che quasi non lasciò libero respiro e le sue labbra non potettero pronunziare l’invocata benedizione, che fu solo nello sguardo paterno affogato nel pianto. E il figlio morente non sentì l’ultimo suono dolcissimo del mondo…
Nel piccolo cimitero del paese fu scavata una fossa che il popolo ricoprì di fiori. Il carro e gli attrezzi furono venduti e sul vecchio ronzino Tonny sincamminò per la via già percorsa. Ma dove andava?
Peregrinando forse ancora avendo per meta una piazza e per ideale una larga offerta popolare con la quale sfamarsi per pochi giorni ? E perché poi, ora che la vita non era che una battaglia perduta, e il mondo si racchiudeva in due tombe lontane ? Ma le tombe cosa sono ? Scrigni di tesori perduti, urne di dolore nell’umido perenne della terra.
Com’era lunga quella via e quanto era bianca, e quanto sole nell’aria diafana su quel paesaggio roccioso, chiuso in fondo, al vicino orizzonte, dalla chioma della foresta. La chioma della foresta !… Anche Magda aveva una chioma folta e scura ed era fresca come la foresta e dolce come la sua ombra.
Chi sa che all’orizzonte non vi era la chioma di Magda, la sua freschezza odorosa, la sua dolcezza lieve, carezzevole ed infinita come l’ombra della foresta!… Lento andava il cavallo scarno, sbocconceliando qualche ciuffo d’erba che riusciva a strappare dai margini della strada, mentre la mente del povero buffone errante combatteva la sua ultima battaglia e il dolore umano infrangeva il lampo divino della vita.
Sì, bisognava giungere presto laggiù all’orizzonte, laggiù per carezzare ancora la chioma nera di Magda, per risentire la morbidezza inanellata della sua testa bruna, per riavere Giannantonio che lei gli aveva rubato, per non essere più solo, solo con mille ombre che vagavano d’intorno, tetre, paurose, sghignazzanti. Corri, ronzino, corri. Ma non fare tutto quel rumore con il tuo passo claudicante, con i ferri lenti sulla strada brecciata. Bisogna prendere di sorpresa quella chioma nera che è già vicina, che mormora al vento, che rinserra il figlio giovinetto, che racchiude la vita, la gioia nella sua arruffata bellezza, che ruba alla terra il bacio del sole. Ecco, fermati ronzino.
Andrò solo a riprendere la mia vita, la mia chioma nera, il mio bambino che la madre nasconde per non farmelo vedere perché è stanca di stare ancora sola. Piano., così senza far rumore, perché Magda non ritorni su in cielo.
E gli alberi della foresta videro il povero demente ramingo con gli occhi sbarrati verso l’alto, nell’inseguimento di una visione vagante nell’aria.
— Sì… figlio mio, fermati.. Ecco, vengo lassù a prenderti… papà tuo ti asciugherà quel rivolo scarlatto che ti scende dalla bocca… Com’è grande questo cerro!….
Sempre più in alto sui rami dell’albero annoso, affannato, con i capelli grigi paurosamente scompigliati, con gli occhi sbarrati in una fissità terrificante, andava il povero saltimbanco pazzo.
Nel mormorio della chioma lussureggiante che rubava alla terra il bacio del sole, si udì un tonfo e in un gorgoglio di morte, in un sospiro: Figlio mio… tu sia… bene…. de…tto. Nell’ombra carezzevole della foresta, la benedizione paterna risuonò come la voce di Dio.
* * *
Il forestiero che attraversa una delle più belle e vaste foreste d’Italia, nota sotto, un cerro di smisurata grandezza, tre grosse pietre muschiose in un piccolo spazio recinto da una rozza stecconata. E quel piccolo prato si trasforma, in autunno, in un tappeto di ciclamini, mentre in primavera il violetto delle mammole spande d’intorno il suo profumo vaporoso.
E se il forestiero trova nei pressi un taglialegna o un carbonaio, sentirà che la pietà popolare volle riuniti nel punto ove si compì il supremo atto d’amore con la morte benedicente, i tre protagonisti della dolorosa storia in un’unico scrigno di tesori perduti, sacrario di dolore nell’umido perenne della terra.
Giuseppe D’Addetta
Scrittori Dauni – 1960 –
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