Aveva solo sei anni, quando, al principio del secolo, vide per la prima volta un’automobile.
La macchina superò ansimante la salita e giunse in paese con a bordo un candidato politico che cercava di far colpo presentandosi con il nuovissimo mezzo, mai visto fino allora in quel collegio appartato e collinoso.
— La carrozza senza cavalli!… La carrozza senza cavalli ! …
E la folla fece ressa intorno al veicolo dal quale discese, con sussiego e larghi sorrisi, l’aspirante deputato.
Ma la moltitudine non si accodò a lui, incantata dalla nuova meraviglia, al cui volante un uomo sembrava avere qualche cosa di diabolico, come l’ordigno che pilotava.
Qualche vecchierella si segnò finanche, e tutti arretrarono timorosi allorché l’uomo infernale girò faticosamente la manovella di avviamento e, dopo vari tentativi, il motore cominciò a scoppiettare con un fracasso mai sentito nel borgo, e la macchina partì celermente.
Così nella mente del bimbo s’era inserito, quel giorno, un mondo nuovo, fatto di strade senza fine e di straordinari veicoli brontoloni che le percorrevano a velocità fantastiche, sempre rincorsi da una scia bianca nella quale turbinava la polvere, trasportando uomini diversi da quelli fìn’allora conosciuti, intabarrati in lunghi camici e con il viso ed i capelli imbiancati dalla soffice coltre che ricopriva le vie e si volatilizzava al contatto delle ruote gommate, impazzite girandole senza scintille nella notte che seguì, il bimbo si vide al posto del conducente, seduto dietro l’enorme volante.
E poi, sveglio e nel sonno, sognò sempre macchine che rombavano, scie bianche su strade polverose tormentate da veicoli sfreccianti, paesi sconosciuti, distanze annullate, il nuovo mondo rivelatosi a lui in quel giorno che si faceva sempre più lontano. Il mondo nuovo la cui voce man mano s’irrobustiva, mentre il nitrito del cavallo s’affievoliva gradatamente, fino a diventare appena percettibile nel fracasso dei rombi e degli scoppiettìi ormai frequenti anche nel paesino sperduto del bimbo, fra le balze di una terra desolata.
Fin quando un giorno, e poi tutti i successivi, arrivò nel borgo, ansante, un autobus in servizio pubblico per il trasporto degli ancora timorosi viaggiatori. Poi, sulla piazza del paese, racchiusa fra la scenografia asimmetrica delle case vivacemente colorate, non vi fu più il bimbo ad attendere la rumorosa postale, che qualche volta sbuffava vapor d’acqua ed acqua bollente dalla bocca del radiatore, ma un adolescente a cui l’ordigno non era più assolutamente ignoto. E nel trambusto degli organi che il cofano nascondeva, gli sembrava alle volte di udire il palpito di un cuore d’acciaio, in una orchestrazione di fasi succedentisi ininterrottamente in quel complesso meccanico che l’uomo aveva meravigliosamente creato per accorciare le distanze e moltiplicare il tempo.
Ma sulle rotabili gli pareva sempre che corressero, impazienti spose fiabesche con lunghe code bianche e vaporose trasfigurate ad ogni istante dal vento, mentre ai bordi ancora s’impennavano e scartavano i cavalli, quasi a protestare contro il nuovo mondo che soppiantava il vecchio, divinamente.
Il bimbo intanto era diventato uomo.
* * *
Un’atmosfera tragica di guerra avvolse il mondo. E sulla piazza del paese si attendeva ogni giorno, con ansia, la carrozza senza cavalli che portava il giornale.
Ma non vi era più il vecchio bimbo. In lontane terre d’oltremare, egli sembrava un essere infernale ad altre genti che per la prima volta vedevano l’automobile. Galoppava il suo autocarro grigio a gomme piene per piste bucherellate e sconnesse, mentre ai margini fuggivano gli armenti e gli equini, terrorizzati dall’inconsueto mostro fragoroso che dalla coda eruttava fumo e faville.
E nelle lunghe marce sulle retrovie, erano frequenti i suoi colloqui con il motore; ne interpretava il ritmo, gli starnuti, gli sforzi, l’affanno. Qualche volta doveva fermarsi perché anche da quel radiatore fuorusciva vapor d’acqua ed acqua bollente come dagli autobus che arrivavano al borgo natio. Sostava allora fra gli ulivi, e lui e la sua macchina riprendevano vigore. E gli sembrava di essere nelle campagne del suo Mezzogiorno, ancora bimbo fra gli oliveti alti che dalle zolle fertili o anche dalle rocce grige si spingevano maestosi contro il cielo, così come in quella terra che un mare impastato d’azzurro divideva dalla sua.
Fantasie d’albe dorate e di tramonti mesti sul lago trascolorante dominato dai monti turchini, gli passavano per la mente durante le soste in cui la macchina si raffreddava, mentre alle volte gli giungeva l’eco delle cannonate, terribile voce della morte vagante arcigna fra la gioventù abbrutita e forse senza domani. Poi la marcia riprendeva ed il motore ricominciava a cantare la sua canzone gioiosa, su un ritmo più franco, con una voce più fresca, in un tono più alto.
* * *
Un giorno, una piccola automobile riportò in paese il vecchio bimbo, divenuto dottore, più orgoglioso della sua macchina che del titolo professionale. La prima e l’unica del borgo; però molto più veloce di quelle di un tempo, quando il dottore era il bimbo attonito avanti l’automobile del candidato politico, con il motore meno rumoroso e con la manovella d’avviamento sostituita da un bottone sul cruscotto che bastava premere per far girare il volano ed azionare gli organi.
E la piccola macchina del dottore, cantò allegramente per le balze e le valli d’una terra tormentata e solitaria, in un ritmo celere e gioioso, come quello del cuore dell’uomo giovane che la guidava. Non bolliva l’acqua con il borbottio d’una pentola al fuoco mentre sul radiatore luccicava una scritta: Annamaria.
Perché alla sua macchina il dottore aveva dato il nome della mamma, ubbidendo ad un richiamo dell’anima che univa la donna e la vettura in un’unica passione. Che si confuse maggiormente da ima notte in cui la mamma si sentì molto male e fu urgentissimo un intervento chirurgico, impossibile e praticarsi in paese. Docile la macchina si mise in moto quando fu premuto il bottone del cruscotto e camminò saggia e veloce fino alla lontana città dove sapienti uomini in camice bianco vinsero la morte. Da allora la piccola macchina assurse ad altezza di idolo per il suo padrone.
* * *
Passarono gli anni.
La mamma ormai accusava il male delle molte primavere vissute e nessun prodigio poteva più vincerlo. Era un motore umano logorato dall’età.
Pure la carrozza senza cavalli era già vecchia e superata nella forma e nella meccanica. Non bastava più riparare la carrozzeria, sostituire pezzi, darle un volto nuovo con vernici fresche. Il male degli anni non si può combattere; era stanca la vecchia macchina, come la mamma del suo padrone, stanca di anni. E sembrava che la stanchezza dell’una si comunicasse all’altra quando in qualche giorno nessuna delle due poteva camminare. La mamma, tanto pallida da gareggiare con il candore delle lenzuola, era immobile a letto; solo negli occhi si rifletteva una vita debole, tenuamente.
La vecchia macchina non rispondeva più al bottone del cruscotto e neanche i giri affannosi della manovella d’avviamento riuscivano a ridestare i battiti del monoblocco. Lucevano solo le cromature; sul radiatore brillava ancora Annamaria.
E in un giorno triste, si chiusero per sempre le pupille della mamma. Il cuore cessò di battere, il corpo esangue s’irrigidì ed assunse il freddo del metallo, simile a quello della piccola carrozza senza cavalli.
Ma quando si girò la manovella d’avviamento della vecchia automobile ferma da tempo, quasi per miracolo, il monoblocco riprese a battere. In coda al corteo, con ritmo stanco, Annamaria seguì il feretro della donna della quale portava il nome. Poi fu riposta e da quel giorno nessuno più riuscì a metterla in moto.
Solo al vecchio bimbo sembrava di udire nelle notti di vento, un sommesso rombo salire dalla rimessa ed alternarsi con il mormorio dei distanti cipressi, come in un colloquio d’anime nel lento disfarsi della materia.
Giuseppe D’Addetta
Scrittori Dauni – 1960 –