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CAPITANATA/ UN REPORTAGE TRA STORIA E ARTE. ÈMILE BERTAUX RAGGIUNGE LE TREMITI. IL RACCONTO TRA LA FINE DELL’OTTOCENTO E L’INIZIO DEL NOVECENTO

Lo storico dell’arte Émile Bertaux visita il Sud Italia tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.

In un reportage de “Le tour du monde* (giugno 1899, tradotto da Antonio Motta), parla di un suo viaggio sul Gargano.

Giunto a Rodi, quando vede le Tremiti all’orizzon­te, non può resistere alla tentazione di visitare le iso­le che, un tempo, avevano dato vita al “regno fanta­stico di Diomede”. Troppi riferimenti storici lo spin­gono in quella direzione. Se non può sperare di scoprire la tomba di Giulia, “che mo­rì in quello scoglio sperduto dopo essere stata esiliata da Augusto”, conta di trovare almeno le rovine di quella abbazia che aveva fatto del­l’Isola di San Nicola una Montecassino in mare aperto.

E così un bel mattino, Bertaux noleggia una barca di pescatori. Il viaggio è avventuroso. I marinari, “prudenti come i compagni di Ulisse“, non puntano di­ritto sulle isole. Seguono un’usanza antica, costeg­giando il Gargano fino alla punta che separa le lagune di Lesina e di Varano, e che dista da Tremiti solo una ventina di miglia. Ma a mezzogiorno non riescono ancora ad inoltrarsi in ma­re aperto: c’è calma piatta, “bonaccia morta”. Bertaux, in pochissime ore, ha modo di apprendere tutto il nu­trito repertorio che un pe­scatore del Gargano «può proferire contro i Santi e Cristo in persona, quando è scontento di loro».

Arrivata la sera, gioco­forza i marinai devono ras­segnarsi. Gettano l’ancora dinanzi alla spiaggia deser­ta di Varano. Dormiranno tutti, alla men peggio, nella stessa barca, sotto la gran­de vela.

Il giorno successivo, pri­ma dell’alba, il vento di ter­ra trascina finalmente l’im­barcazione al largo e alle undici del mattino, sono trascorse più di ventiquat­tro ore dalla partenza da Rodi, Bertaux sbarca final­mente alla piccola «mari­na» di San Nicola Carabinieri e guardia- ciurme, armati fino denti, lo aspettano sulla spiaggia: quest’isola, infatti, come l’Elba e una delle isole di Ponza, funge da bagno pe­nale. Il giovane viaggiatore tira fuori dalla tasca l’au­torizzazione per visitare le prigioni e le caserme, che gli è stata concessa dal go­verno italiano, e, scortato, oltrepassa i passaggi delle mura fiancheggiate da tor­ri, percorrendo un dedalo di fortificazioni del XVI se­colo. Il direttore della prigione lo riceve molto amabilmente, lo invita a pranzo e gli fa preparare una stan­za Il pomeriggio e la mat­tinata seguente sono appe­na sufficienti per fare | un’attenta ricognizione di tutte le maestose architet­ture.

L’abbazia, arditamente costruita dai monaci Bene­dettini sugli scogli, non mo­stra costruzioni anteriori alla fine del ‘500. Soltanto la chiesa conserva un bellis­simo pavimento con un mo­saico dell’ XII secolo ed un magnifico “retablo” vene­ziano di legno scolpito e dorato. La facciata di Santa Maria a Mare, decorata con belle sculture, porta im­pressi «i buchi delle palle di cannone che nel 1809 la flotta austro-russa lanciò contro il battaglione cisal­pino che difendeva l’isola in nome di Napoleone».

Ma il bastione tremitense non è nuovo a questi furiosi assalti: «Già, nel XVI se­colo – precisa Bertaux – la superba fortezza, allora in possesso dei (Canonici) Regolari Lateranensi, ave­va resistito coraggiosa­mente all’attacco dei va­scelli turchi, comandati dal pascià Pialy».

Per Bertaux è giunto il tempo di lasciare l’isola, il vento si è alzato. Per tor­nare in terraferma, noleggia una barca di pescatori che fa rotta per Termoli. La bora aspra e fredda solleva la barca leggera; le onde alte spumeggiano, sciabor­dando. Un branco di delfini appare sulla scia del na­tante, sfidando i marinai al­la corsa. Bertaux si lascia trasportare dall’immagina­zione, in un viaggio a ritroso nel tempo… Quel battellino si trasforma in quel­le agili “fuste” che avevano trasportato, “verso la mon­tagna cinta di nuvole”, i pi­rati musulmani, ellenici ed illirici. In quelle stesse ac­que, i delfìni (che qui sono una presenza familiare) ascoltavano la musica delle isole greche popolate di “poeti, che avevano tra­sportato sui flutti dell’ar­cipelago il cantore di Le­sbo”. I gabbiani che sfioravano la barca, lanciando un grido di richiamo, non erano forse i compagni di Diomede che Zeus, dopo la morte dell’eroe, trasformò in uccelli marini (..le diomedee, appunto) perché potessero vegliare per sem­pre sulle sue spoglie?

Il flusso dei ricordi “clas­sici” viene bruscamente in­terrotto: un marinaio into­na una canzone in netto contrasto con il ritmo lento e doloroso dei canti dei montanari del Gargano. Un nome, “Caserio!”, colpisce Bertaux. E’ il nome di un anarchico italiano che ave­va pugnalato, nel 1894, il presidente della repubblica francese Carnot. Altre pa­role come “Sociale, l’Inter­nazionale… suonano strane sulla bocca di quegli uo­mini semplici. Un altro ma­rinaio, trascinato dall’e­sempio, inizia a cantare “L’Inno dei lavoratori”.

In un lampo, Bertaux ca­pisce tutto: «Quelli che avevano portato questi canti di nuove battaglie nell’isola di Diomede, di Giulia Augusta e dei mo­naci di San Benedetto, era­no gli ottocento uomini di ogni nazione, di ogni sorte, che il capriccio di un mi­nistro dittatore aveva riu­nito su quest’isola, in cui dovevano trovare, secondo un amabile eufemismo, il domicilio forzato, domicilio coatto. Gli isolani di Tre­miti cantavano al mare le canzoni sovversive degli “anarchici” contro Crispi».

maria teresa rauzino

edicoladelsud