Il Giuliani “Memorie Storiche di Vieste” a pag. 206 scrive: “il XLV vescovo viestano Lorenzo Kreaytter ha fatto registrare e dipingere nell’episcopio della città che quivi si condusse S. Marino Germano, dichiarato vescovo nel 74 a cui successe S. Lucio, entrambe del vescovato della distrutta Merino. Seguì il Vescovo Settimio che partecipò al Concilio Romano nel 187 e poi con un balzo di 697 anni di vacanza di sede, si arriva ad Anastasio che addirittura nell’anno 928 fu creato pontefice col nome di Leone VI, Fabio Angelino (1015), Domenico Arrigone (1032), Sindigero Carafa (1048), Odoardo Morelli (1054), Francesco De Sanctis (1082), Agostino Petronio (1137)”. Il che testimonia l’antichità del vescovato merinense et bestesane dal 74 in poi.
Nel 1618 E. Bacco nella riedizione de: “Il Regno di Napoli diviso in dodici Provincie” aggiunge un intero capitolo: <Descrittione della città di Vesta> dove a pag. 147 scrive: “& da Spartaco nella Guerra servile fu tenuta per capo della sua impresa, dando ai Romani per dui anni grandissimi travagli, conforme scrive Appiano Alessandrino, e passata poi sotto l’imperio dei Greci, fu tenuta per chiave del Monte predetto; in tanto che alcuni Vicarii degli Imperatori di Grecia, che in quel Monte teneano la Corte volentieri faceano residenza in Vesta. Questa città è sede Vescovile antichissima quale havvi avuti molti Vescovi, che sono pervenuti al Pontificato, tra i quali fu Clemente II, Leone VI & ai tempi nostri Gregorio XIII, che come Vescovo di Vesta intervenne al Concilio Tridentino (.) Qui in Vesta s’imbarcò Papa Alessandro III con l’armata del Re Ruggiero per la volta di Venetia (.) Qui smontò San Pietro Celestino Papa quando dal mare fu impedito a passar oltre”.
Il riferimento ai tre Vescovi di Vieste diventati Papa viene fatto dal Vescovo viestano pure di nascita Niccolò Cimaglia che preoccupato dalle richieste di soppressione della assai povera e disagiata diocesi viestana fatte insistentemente da tutti i Vescovi predecessori, nella relatio ad limina inviata al Papa Benedetto XIV in data 6 maggio 1752 ne rinverdisce la nobiltà facendo presente che: “tre dei suoi vescovi pervennero al pontificato; certamente Leone VI, Clemente II e Gregorio XIII”.
Mentre poco si sa della cattura a Vieste di Papa Celestino V, dopo il gran rifiuto della sua cattedra di Papa e che durante la sua fuga ha sostato per nove giorni in località viestana detta Necropoli della Salata, dove fu tratto in arresto e città di Vieste dove operò il miracolo per il quale fu riconosciuto Santo, la cui salma venne riportata per due giorni a Vieste in occasione della ricorrenza del sesto centenario dalla sua morte. Cui va aggiunta la lapide in marmo fissata da qualche decennio sul costone roccioso in località “la Mancina”, da dove nasceva il primo porto artificiale di Vieste, inneggiante alla permanenza, dovuta a continui e forti marosi durati un mese, di Papa Alessandro III che si recava a Venezia per ringraziare i Veneziani per il loro aiuto dato nella cacciata dei Saraceni da Vieste, tenuta come loro roccaforte, nell’anno 914, o nel 920, e dal Gargano e dall’Italia nell’anno 964, poco si sa dei Vescovi viestani giunti al Soglio Pontificio.
A dire il vero, se il Giuliani ci fa conoscere che Gregorio XIII non è mai risieduto nella nostra città anche se da Papa amava evidenziarsi come Vescovo di Vesta anche nel Concilio Tridentino accumulando molti meriti civili, giuridici e religiosi del suo tempo, ivi compresa la famosa riforma del Calendario Romano, nulla è pervenuto né di Leone VI né di Clemente II.
Se si pensa ad altre città che dedicano monumenti ai loro Papa diventa controproducente che i Viestani non abbiano mai pensato di fare altrettanto. Anzi, per ricambiare l’affetto che Papa Gregorio XIII, al secolo Ugone Boncompagni, nutriva per il Vescovado Viestano da qualche decennio è stata dal Comune di Vieste fatta sostituire la dedica a Ugo Buoncompagni su una stradina chiusa partente da Via Madonna della Libera. Se si parte dal fatto che il Vescovo Cimaglia non poteva avallare un fatto privo di fondamento è possibile fare delle considerazioni sull’appartenenza alla sede di Vieste dei Vescovi che poi diventarono Papa con i nomi di Leone VI e Clemente II, precisando che questa tesina vada supportata con documenti vaticani, bizantini o costantinopolitani, ora Istanbul, e nella chiesa germanica di Bamberg.
Per fare delle considerazioni ragionevoli è necessario un breve antefatto storico, sia pure circoscritto ai secoli IX, X e XI, per capire il mondo in cui circoscriversi. Infatti è stato questo un periodo molto travagliato per la Chiesa di Roma. Sia per fatti interni, come la lotta tra le famiglie nobili per il papato che portò all’elezione di Papa e di Antipapa. Sia per fatti esterni caratterizzati dal dualismo tra la Chiesa di Bisanzio che allora vantava un maggiore potere temporale e spirituale in quanto sede dell’Imperatore, e la contrapposta Chiesa di Roma, sede di un papato in quel tempo assai travagliato perché dipendente da autorità estranee alla Chiesa. Successivamente
sorse l’altro dualismo tra i Bizantini e i Normanni. Ai Normanni la Chiesa di Roma dapprima si alleò per scacciare i Bizantini per poi tornare ad allearsi con i Bizantini per scacciare i Normanni. In questo stesso contesto si inserisce la lotta tra i vari ducati e le famiglie nobili di Roma schierate pro e contro gli uni e gli altri, a seconda della loro convenienza, con lo scopo di conquistare il potere politico dell’Italia e nello stesso tempo quello religioso mediante l’imposizione dei loro Papa, che a volte avveniva con la destituzione o addirittura con l’eliminazione fisica dei loro predecessori. Perciò quanto è avvenuto per i Papa si è ripercorso per i Vescovi, sostituiti da amici fedeli di quelli che di volta in volta si alleavano con quanti rappresentavano i poteri forti degli imperatori che si alternavano nel possesso pure dell’Italia. Come pure dei casati loro alleati che avevano l’allora legittimo potere di determinare la scelta dei Vescovi. In questo stesso periodo Vieste era ancora un porto naturale fiorente, strategico, capo di un naturale sentiero marittimo facilitato dalla presenza di isole intermedie nell’attuale Mare Adriatico che veniva attraversato con i mezzi di navigazione del tempo. Situata idealmente a metà strada tra Roma e Bisanzio, quindi tra Oriente e Occidente, Vieste ebbe per un’ultima volta un ruolo centrale geografico, politico e religioso, tanto che fu eletta Unica Città-Diocesi della storia della Chiesa Pontificia Romana. Sulla grande importanza di Vieste in questo periodo c’è la testimonianza del Giuliani, che scrive: “Certamente sotto i Greci Costantinopolitani fu la Città di Vieste capitale dello Stato Greco nel Gargano e vicinato”, aggiungendo che: “l’ultimo catapano dei Greci fu vinto e preso in Vieste Città, che mai si rese ad altre nazioni, mantenendosi sempre fedelissima ai Greci, e l’ultima fu, che insieme con Bari, presa anche da Roberto Guiscardo nel 1070, passò in potere dei Normanni”. Da altri documenti risulta che a Vieste Roberto detto il Guiscardo fece prigioniero l’ultimo catipano, o catapano bizantino di nome Ciriaco Bennato. Un altro aspetto da considerare, per capire la situazione del tempo, è che la Diocesi viestana era povera e poco ambita e, quindi, pur essendo strategicamente rilevante per gli Imperatori, che comunque facevano nominare Vescovi i loro amici fidati, era nello stesso tempo posta al di fuori delle lotte dei casati, che proprio per la simultanea marginalità territoriale di Vieste rispetto a Roma designavano Vescovi umili. Quand’anche costoro non disdegnassero di manifestare il loro desiderio di dare le dimissioni, o di essere trasferiti, o addirittura brigassero per la soppressione della Diocesi viestana per essere certi del trasferimento in altre sedi più ricche e meno disagiate o isolate. Furono perciò in molti che, pur conservando il titolo di Vescovo di Vesta, non vi risiederono, delegando i compiti ai loro Vicari dal momento che questo comune disegno veniva respinto sistematicamente dal sommo Pontefice che li obbligava ad essere fedeli alla loro sposa (Giuliani). Ma il più delle volte la soppressione del Vescovado viestano non venne decretata dal Papa anche perché bisognava superare la determinata volontà degli Imperatori e dei Re che, consapevoli dell’importanza strategica anche militare di Vieste, ne vollero conservare un certo prestigio anche per rendere più appetibile la residenza dei governatori appositamente inviati per amministrare questa piccola città di Vieste, per natura fortificata da rupi. Così avvenne certamente durante l’appartenenza di Vieste al Regno di Napoli (Spedicato) e come altrettanto dovette fare in precedenza pure il Patriarca di Costantinopoli se si considera che anche per i Vescovi di sua nomina sussistevano le stesse ragioni logistiche, politiche e religiose per le quali era fondamentale contrapporre a Roma un avamposto bizantino in Italia, rappresentato da Vieste, città di residenza dei Vicari dei suoi Imperatori detti catipani, o catapani.
Un altro aspetto da considerare è che Vieste, che in tempi remoti costituiva il luogo tanto favoleggiato quanto sconosciuto dell’intero Mediterraneo, continuò ad avere il prestigio di una capitale, essendo il suo governatore al di sopra dei restanti maestri delle altre città e Province. Di questo si ha prova con il governatore Argiro che si fregiava del titolo di “Magister Vestis et dux Italiae, Calabriae, Paflagoniae et Siciliae”. Questo stesso dominio si evidenziò pure con altri fatti, come ad esempio per la “Terra di Bestia”, con cui Dante e Boccaccio ancora nel 1300 indicano tutta la regione Puglia poi identificata erroneamente come Terra di Bari. Infatti, alcuni portulani del 1400 chiamavano Vieste col nome di isola Bestie, ossia sacrario, derivante dall’indoario Urja, terreno sacro, o dal greco Estia, sacrario, che da Vestice diventa un memoriale, tutti remoti nomi di Vieste. La stessa intera Capitanata, ora provincia di Foggia ma in origine territorio di Vieste in quanto nome derivante dal Vicario dell’imperatore di Grecia, chiamato Catipano, o Catapano, che secondo il Bacco risiedevano volentieri a Vesta e non in altre città della Provincia, o della Puglia, o dell’Italia. Vi è infine un altro aspetto che emerge e che riguarda la cronologia dei Vescovi viestani. Di questi, i primi ai quali si può in qualche modo risalire furono Bizantini, cui seguirono altri Normanni. Si ha prova di ciò col Vescovo viestano Kreaytter di evidente origine normanna, quando nell’elencare i Vescovi viestani dall’anno 74 fino al 1137 scrive che: “Fu Anastasio nell’ottocento settanta al Concilio Costantinopolitano contro Fozio”e che “nell’anno 928 fu addirittura creato pontefice col nome di Leone VI”.Questo fa si che Anastasio, nome tipico bizantino, prende un’identità italica poiché “A lui (Anastasio!) nella sedia di Vieste successe Giovanni Romano, figlio di Cristofaro, il quale a’ 9 di aprile dell’anno 928 fu creato pontefice col nome di Leone VI”che però “poco tempo durò nel suo pontificato, essendo morto nel mese di ottobre dello stesso anno”.
Le alterne vicende tra Bizantini e Normanni in Italia fece sì che i primi furono posti in oblio dai secondi e viceversa, poiché i Normanni si rivelarono talmente sanguinari da indurre la Chiesa di Roma, come si vedrà in seguito con il predetto Magister Vestis Argiro, ad allearsi di nuovo con i Bizantini. Per questo, dopo un primo anonimo “Vescovo di Vesti cui volle unito quello di Marino”, nome quest’ultimo che necessita di una breve indagine storica poiché Marino deriva dalla presenza a Vieste, e non in altri luoghi dell’attuale Grecia, dell’altare, o sacrario, o tomba della molto balzante Myrina,che Omero situa davanti a Troo, o Troas da cui Troia,tuttorapresente nel viestano Munduncidde: monade duna. Nome e sorte di Troia presente nel toponimo della rocca di Caprareza, che dal greco capra(ina),rezò indica una troia sacrificata, o data in sacrificio. Concetto presente nell’Iliade di Omero e poi realizzato con gli eroi sopravvissuti alla Guerra di Troia nella creazione di diverse città italiche ed europee. Su Caprareza ancora nel 500 a.C. c’era “una sola torre rimasta in piedi della grande Troia (Seneca)”: torre che va individuata con il Pergamo di Priamo. Infatti nel 1200 c’era un Castellum Marini che contribuiva a dividere il territorio di Peschici con quello di Vieste (A. Russi); nel 1760 esistevano i resti di un grande fabbricato con altri elementi (Giuliani) tutti presenti nell’Iliade: Tra l’altro la realtà di una guerra poetica di Troia, o Troo, si trova nelle iniziali lettere indeuropee tr indicante rovina presente nella tragedia raccontata nell’Iliade per la tuttora sepolta dal fango Merino dal cui Munduncidde trae origine il nome della Puglia come Iapiga Mesapia. Nome che proviene dal greco Ia, latino unus, col significato di uno, unico, quindi solitario, isolato, singolare che si trova nel greco monios nel senso di monade, contenuto nei dialettali Munduncidde, Muntincidde e Muntarone che portano a un cinghiale e nel nostro caso a una sua femmina detta troia; pyga proviene dal greco pugh con il significato di cumulo in riferimento alla predetta monade duna, o Munduncidde, come pure del vicino Muntincidde di cui si dirà, che come monade rafforza l’identità con un cinghiale, per essere singularis, e nel nostro caso con una troia. Un significato che diventa valido pure il viestano Muntarone sul quale poggia il centro storico di Veste, che viene accomunato nel destino dell’omerica Troia con il suo nome di Uria, venendo entrambe leggendariamente sprofondate sott’acqua per volere degli Dèi; mes è una abbreviazione del greco mesos con il significato di centrale; apia che dal greco apios presenta il significato di lontano, remoto, quindi dell’antichità. Il nome Iapyga Mesapia in definitiva conduce a una “monade troia–centro dell’antichità” partente di fatto da Vieste, in quanto città di sua origine e non di altri luoghi della Puglia o della Terra. Un dato di fatto che già di per sé esclude l’attuale Grecia e qualsiasi altra sua città da ogni pretesa di essere patria di Omero e del contenuto dei suoi scritti. Premesso che nella piana di Merino, chiamato Piano della Battaglia, ci sono ancora tutti i luoghi e i letti dei fiumi che convogliano nel Canale della Macchia, che dal greco make è battaglia, luogo di battaglia, citati da Omero nell’Iliade. In questo Piano della Battaglia c’è ancora la Bellacollina di Omero, che non è scomparsa per la piena del fiume per un innaturale cambio di direzione e altre astruserie scritte dal commerciante d’oro di seconda mano Schliemann nel suo libro “Alla scoperta di Troia” venendo osannato, perché oltre il Canale della Macchia si trova l’attuale Muntincidde, Montincello per un monte piccolo e bello che equivale a una bella collina se guardati dalla tuttora sepolta dal fango Merino, che dopo essere stata bruciata e stata sommersa per un diluvio di nove giorni (Diluvio Greco) per la piena di questo Canale della Macchia o del fiume Scamandro presente in Omero che descrive tutti questi luoghi con l’estrema precisione in cui si trovano tuttora nel Piano della Battaglia. Nelle cui vicinanze ci sono tre anonime sorgenti, ora identificabili in ordine di origine come gli omerici Stige, Cocìto e Piriflegetonte che confluendo si immettono nel finale Acheronte, citati nel Regno dei Morti, visitato da Odisseo la prima volta su invito di Circe e la seconda a piedi quando era tornato a Itaca, ma tuttora presenti in località Necropoli della Salata, località adiacente la spiaggia di Scialmarino lunga km 5 dove tuttora sfocia nel mare. Mentre per l’Odissea Omero trae gli spunti a partire dalla Punta della Testa del Gargano, che diventa il luogo di sepoltura di Elpenore: vera speranza, partito dalla casa fatta di pietre lisce di Circe, quindi
dalla località viestana Mattoni/Calcari, facendo dopo due anni incontrare a Odisseo nel suo viaggio in mare un polmone marino per lo scoglio più piccolo dei due visti dal mare in località viestana Catharel, ora Gattarella, e che subito dopo viene incontrato come l’Isola della Sirena con il nome di Lamican, appartenente a questi due scogli, che dal greco lamie-canakeò, latino cano, indica un “mostro avente il volto di donna e la coda di pescecane-che canta”, quindi una Sirena come tuttora appare questo più piccolo scoglio se visto dalla spiaggia di Drète u Ponde, Dietro il Ponte, sempre in località Catharel. Al di qua della quale collina Odisseo poi viene trattenuto da Calypso in località Sotte u Ponde, Sotto il Ponte, che dal greco ponhto indica la pena che appare come tale in mappe del 1600 (Magini e Johannes Blaeu) ma che rappresenta la pena sofferta da Odisseo per sette lunghi anni. Inoltre Omero fa diverse puntate sul Montarone, che dopo essere stato forgiato con un colpo di tridente, rendendolo come si presenta tuttora, dal vendicativo Poseidone che minaccia di far crescere un monte per nascondere la città dalla vista dal mare: la parte di falesia sovrapposta che si nota dalla spiaggia del Castello. Omero poi presenta i punti più evidenti del Montarone a cominciare con l’isoletta del Faro simile a una nave, che viene affondata e pietrificata con una manata di Poseidone. Il quale vomita il bastione di pietra, il Puzmume che dal greco pougx-mòmos è dedicato alle malelingue, per ammonire i Feaci, nome che deriva dalla luminosità (gr. fai) dei corni (gr. acis) del Montarone, abitanti di Skeria, che dall’indeuropeo sker identifica Vieste, soprattutto per il porto del Pantanella, come città di approdo, a non dare più accompagno a nessuno dopo averlo fatto con Odisseo. Omero, oltre la roccia che pare levigata, presente sul fianco del Puzmume, che un mortale, Odisseo, non poteva scalare neppure se avesse avuto venti mani e venti piedi, passa alle viestane Rupi Ghirèe, o Girèe, quelle di Drète la Ripe, Dietro la Rupe, chiamate dai viestani le Murge Scuffelète, che dal greco scufos indica la loro forma semicircolare. A queste fanno seguito le successive Ripe Lesionate anche in modonotevole chiamate da Omero le Rupi Erranti, o Instabili, sensazione godibile pure quando il mare viene mosso da una leggera brezza. Inoltre Omero situa Scilla, un mostro con sei bocche, all’interno della grotta che si trova sull’estremità del corno destro del Montarone adiacente la Chiesa di S. Francesco detta “la Grotte i Trève”, che dal greco treò significa fuggire atterriti. Cosa fatta da Odisseo e il suo equipaggio dopo il prelievo di sei compagni di viaggio e che si faceva da ragazzi che una volta entrati si veniva terrorizzati da qualcuno fuggendo a gambe levate sull’unico punto tuttora esistente per entrare a piedi. Mentre sul successivo corno di sinistra Omero pone Cariddi nel Crepaccio detto “u Spacche Rusenèlle” che dal greco spaò-roos o rous-neleò significa flusso e riflusso di ventre che non perdona dovuto al reale movimento di alcune onde marine che entrano facilitate dalla forma di imbuto aperto verso il mare delle rocce antistanti depositandosi nella successiva grotta che una volta riempita fuoriescono con un’unica violenta ondata facendo vedere la sabbia sul fondo del mare descritto pure da Omero. E che sulla parte interna di questo crepaccio c’èra fino agli anni 1970 un albero di fico selvatico rinnovato di tanto in tanto perché tagliato per farne legna da ardere, su uno dei cui rami si attacca Odisseo per salvarsi, lasciandosi cadere sull’albero della zattera alla sua fuoriuscita dalla grotta. Omero infine cita i due porti viestani: il primo indicato come “una piccola roccia grandi flutti trattiene”, che si trovava nell’entroterra del Puzmum la cui più grande roccia contenente alcune bitte incavate è stata ultimamente eliminata per fare posto all’Hotel Bikini. Il secondo porto si riferisce al più confortevole Pantanella per la sua sorgente di acqua buona da bere che tuttora scorre nel Canale della Chiatà sfociandonel mare all’angolo dell’attuale molo turistico. Canale che viene citato in quattro differenti porti dell’Odissea, precisamente nel porto dei Lestrìgoni, in quello dell’isola dei Ciclopi, in quello dell’Isola di Trinachia o delle Vacche del Sole e in quello dell’isola di Ithaca. A questo si aggiunge il motivo per cui Vieste, una città piccola ma dotata di due porti naturali facenti capo a un sentiero marittimo, chiamato dal viestano Omero Ellesponto che in pratica divideva in due il suo Oceano. Con alla sinistra, guardando il mare, il Golfo Adriatico, detto dagli sfaccendati e ignari ragazzi Viestani di alcuni decenni fa il Mare Piccolo, chiamato dai pescatori viestani le Acque de Fòre (mano) o di sinistra o della mano mancina, toponimo viestano appartenente al lato sinistro del corno di sinistra del Montarone visto da monte. E sulla destra di Vieste il Mare Ionio conosciuto dagli stessi ignari ragazzi viestani come il Mare Granne (grande), divisione valida ancora in mappe del 1600 (Magini. Iohannes Blaeu). L’Ellesponto che per Omero e per traduzione letteraria del greco pontos è un sentiero del forte e alto mare, o il braccio del vasto mare diretto da Vieste verso Levante (gr. ellès), o verso l’Est, o verso l’Aurora, o verso l’Oriente di cui Vieste è figlia, che viene minacciato di essere percorso per tre giorni di navigazione verso l’Aurora dall’indispettito Achille (Iliade. IX, 360-363), capo degli Elleni e termini derivati. Poi da altri storici individuato come Stretto Ionico oltre il quale c’è il Golfo Adriatico (Polibio), o il Laurento (Livio. Storia di Roma I,1) che sull’ideale sbarco di Enea aggiunge: “Troia viene chiamato il luogo in cui essi primamente sbarcarono, e troiano è detto quindi il territorio” senza immaginare che Enea e, anche per alcuni altri storici, tutti gli eroi sopravvissuti alla guerra di Troia non si fossero mai mossi, né potevano essendo figure poetiche; o la Via Luminosa (Strabone), o la Via senza Via (Virgilio), o il Ponto Eusino (Erodoto), che parimenti all’Ellesponto significa il sentiero del mare forte e alto diretto verso Eos, l’Aurora, l’Est di cui Vieste è figlia come lo è del Greco, quindi pure città Greca. Un dato di fatto che esclude il canale marittimo stretto da due terre qual è l’attuale Bosforo che conduce al Mar di Marmara, o d’Azov e poi al Mare Nero, erroneamente individuato come Ponto Eusino (Diz. Greco Rocci) che di fatto si trova oltre la Tracia, dal cui mare provenivano il Sole e tutti i venti diretti verso la spiaggia di Troia (Il. XXIII, 230) e quindi pure verso Vieste. Un sentiero o braccio del vasto mare, o Ellesponto, che dai due porti di Vieste, già inoltrata nel mare per km 50, 300 stadi di Strabone, che con l’aiuto delle isole intermedie, nell’ordine: Pelagosa o Pelagrosa, Làgosta o La Cazza, si arriva a Meleda o Sabbioncello per l’adiacente Tracia, i cui Traci chiudevano l’Ellesponto (Iliade, II,844). Due isole che solo in questo tratto di tutto l’attuale mare Adriatico consentivano due necessari e inevitabili riposi notturni nei tre giorni di navigazione di Achille e che quasi un secolo fa veniva impiegato dai bastimenti viestani per raggiungere l’attuale Croazia poiché in quei tempi i viaggi notturni erano evitati perché assai temuti.
Una volta precisato ciò e per tornare al primo anonimo “Vescovo di Vesti cui volle unito quello di Marino”, nome quest’ultimo basilare per l’elezione di Vieste anche come unica città diocesi d’Italia poiché secondo il Morelli (Dei e Miti) alla voce Myirinna e poi Marianne, indica la Gran Madre Fertile che si trova tuttora nell’altare, o sacrario, o tomba della molto balzante Myrina di Omero che è la monade duna del viestano Munduncidde da cui i “vescovi di Viesti cui volle unito a quello di Marino”. Secondo l’Enciclopedia Rizzoli Larousse che alla voce Maria, presente nella S. Maria di Merino tuttora venerata a Vieste, la fa derivare da Myrina e che alla voce Mariamne aggiunge: “Mariamne, o Ay-Mari dell’Asia Minore, da ay, corrispondente alla lettera a, racchiude il significato di inizio, il principio, mentre filosoficamente è la preposizione universale affermativa. L’Ay-Mari, la sumera Marienna, l’indoeuropea Mirinna, la greca (in realtà Marian e l’omerica) Myrina (per la viestana Merinum et Marinum ac Mirinum.est unum et idem. Sac. Della Malva), realizzano la continuità del pensiero filosofico religioso pre-cristiano che, dalla Luna fu poi riversato interamente su Maria. La Luna diede un grande impulso alla formazione dei miti relativi alla fertilità, alla prosperità ed alla ricchezza, ed assunse una figura mitologica preminente. Infatti, la stessa dea fenicio-babilonese Afrodite (mitologicamente partorita insieme con suo fratello Apollo dall’omerica Latona su uno scoglio errante perché costretta: l’isoletta viestana), detta anche Mirtèa, o Mirtoessa, era una dea lunare della fertilità, cinta nel corpo da una corona di mirto”. A dimostrazione di uno stretto rapporto tra causa ed effetto questa fertilità, in realtà provocata dalle maree generate dalle fasi o balzi della Luna, compare nel territorio della prospera Vieste quando: 1- Strabone del Gargano scrive: “Tutta questa terra è fertile e produce ogni genere di prodotti“; 2- il Bacco quando di Vieste scrive: “Ha il suo territorio fertilissimo & ripartito dalla Natura in piani e in colli con mirabile simetria; & per industria è adornato d’alberi fruttiferi in gran copia (.) Ha l’aria perfettissima e molto salubre“; 3- don Natale Fazzino, vicario di Monsignor Accarisio Vescovo di Vieste quando nel 1646 scrive: “nè di antichità e Religione, nè per amenità di sito o altro che fare bella può una città, a niuna altra d’Italia è seconda“. 4- il Giuliani quando nel 1760 scrive: “Fertilissime sono le Vestane campagne, e di bellissime piante adornate” aggiungendo che: “Non vi sono valli per cui l’aere rincarcerato venghi; ma bensì di una amenità di colli godendosi, per essere la città dominata dai venti, l’aria sbattuta e ripercossa è in continuo moto. Ciò si comprova per non vedersi di frequente inalzar nebbie; nè queste dominare di notte tempo” concludendo,”Così facilmente e non in altro senso, alcuni alludendo alla nostra città, dal suo territorio che senza coltura frutti produce”. Sta di fatto che la venerazione di S. Maria di Merino venne festeggiata col nome di Myrina e suoi equivalenti civilmente anche in tutte le regioni del Mare Mediterraneo Orientale almeno dall’8000 a.C., confermata dall’esistenza in località viestana detta Defensola della più antica fabbrica di selce d’Europa risalente a 6000 anni a.C., fino all’anno 1797, quando diventò una festa religiosa a condizioni concordate e tuttora valide.
Una volta precisato ciò e per tornare a quanto scrive il Sarnelli (Cronologia de’ Vescovi et Arcivescovi Sipontini p. 150) sull’anonimo Vescovo come suffraganeo di Alberto, arcivescovo di Siponto eletto da Papa Pasquale II nell’anno 1100, il Giuliani passa a Maragdo (per il Sarnelli, p. 165: Morando), eletto Vescovo Vestano nel 1155, senza che nessuno si occupi del Vescovo di Vieste, Alfano, che nel 1019 in un documento del Cartolario Tremitese si firma come Vescovo della “Marenense et Bestesane Ecclesiae” precisando “che correva il suo 26° anno di vescovado” e aggiungendo che: “Nel nome del Signore. Nel 59° anno dell’impero dei signori Basilio e Costantino, nostri santissimi imperatori (..) Io Alfano, per volontà di Dio, vescovo della sede della santa chiesa di Vieste e di Merino.”. Questa dedica rivela che almeno fino all’anno 1019 la diocesi viestana dipendeva dalla chiesa di Bisanzio che di fatto nominava i Vescovi di Vieste, e non dalla Chiesa di Roma che nel 1100 la rende suffraganea di Alberto, arcivescovo di Siponto come lo è tuttora unita al Vescovato di Manfredonia/Vieste con l’aggiunta di S. Giovanni Rotondo.
E’ in questo quadro storico che è possibile verificare la veridicità delle affermazioni del Bacco sui due Vescovi di Vesta che, alcuni secoli prima di Gregorio XIII, furono eletti Papa con i nomi di Leone VI e Clemente II.
LEONE VI rientra nella lotta tra Roma e Bisanzio. Il suo precedente nome, Anastasio elencato dal Vescovo viestano Kreaytter, viene sostituito con il nome di Giovanni Romano, figlio del Primicerio Cristoforo. Leone VI succedette a Papa Giovanni X per volere di Marozia, figlia di Teofilatto e di Teodora, famiglia che impose i Papa per circa 60 anni. Papa Leone VI ebbe un pontificato di pochi mesi. Eletto il 9 aprile 928 morì nell’ottobre dello stesso anno per il Kreaytter e il Giuliani; Maggio-Dicembre 928 per l’ Enc. Rizzoli-Larousse; Giugno 928- Febbraio 929- per l’Enc. Treccani. Gli elementi che collegano papa Leone VI alla sede vescovile di Vesta sono: 1- la mancanza di notizie storiche di una sua appartenenza ad altra cattedra vescovile; 2- la sua consacrazione a Papa per volere di Marozia cheera chiamata la <papessa Giovanna> per i suoi intrighi nella morte di papa Giovanni X (928), per la sua maternità del futuro papa Giovanni XI e per il ruolo dominante che ebbe nella imposizione di altri tre pontefici a lei devoti: Leone VI, Stefano VII e suo figlio Giovanni XI. Mirando al dominio di Roma, dell’Italia e alla corona imperiale con la soggezione del papato, Marozia trattò con la corte d’Oriente tramite un’ambasceria inviata a Costantinopoli, o Bisanzio, da Papa Giovanni XI, suo figlio. Gli scopi dell’ambasciata erano combinare il matrimonio di una figlia di Marozia con un Principe bizantino e il riconoscimento come patriarca di Costantinopoli in nome di Roma di suo padre Teofilatto, figlio dell’intronizzato giovanissimo Imperatore Romano Lecapeno. Ciò avvenne prima che Marozia fosse imprigionata e, forse, eliminata da suo figlio Alberico II; 3- la successione nel vescovado viestano di Giovanni Romano, in precedenza Anastasio, rivela apertamente il suo nome e la sua partecipazione al Concilio di Costantinopoli indetto da Fozio, anche se c’è da supporre che egli si schierasse a favore del Papato di Roma per mera convenienza, se si considera opportunamente l’appartenenza fisica all’Italia della sua futura cattedra vestana. Pur nel suo breve pontificato, fu proprio l’ex Vescovo viestano Anastasio a deporre per sempre il patriarca Fozio, che era in eterno conflitto con Roma e a perorare, in quanto Papa Leone VI, la causa della nomina di suo fratello Stefano a patriarca di Costantinopoli, o Bisanzio, in successione di Marozia. 4- La qualifica di Teofilatto come “vestararius, cioè capo dell’amministrazione papale, duca, e magister militum” per la Treccani (v. Teofilatto e Marozia), mentre per la Rizzoli-Larousse (v. Teofilatto) era: “vesterarius et magister militum già chiamato agli inizi del sec. X dominus Urbis et vestiarius pontificio (forse amministratore di Ravenna) magister militum e anche consul e senator (che comportava un’elevatissima autorità a Roma)”.
Dalla lettura di questi testi appare evidente il tentativo di ridimensionare la qualifica di vestararius, vesterarius, vestiarius apparentemente priva di significato, ma in sostituzione del Magister Vestis del governatore Argiro. Ma l’equivoco va risolto poiché vestararius, vesterarius, vestiarius, diventano di comprensione più accessibile poiché derivanti da Vesta, nome romano di Vieste perché città cinta, incinta, vestita di rupi dalla cui continuità nascevano due porti naturali remotamente presenti a Vieste. In particolare il porto disseccato artificialmente nel 1874 (A. Perrone) chiamato Pantanella, toponimo derivante dalla fusione dei termini greci panta-ne(a)el(os)-làas che significa “rupe completamente navaleapprodo”, sia pure con la conferma del significato di “capo dell’amministrazione papale”, mentre il “forse amministratore di Ravenna” non trova alcuno spazio. Nel loro ordine vestararius, o vesterarius, o vestiarius ha infatti un senso solo per un Vestano, o Vestysane, o Vestino in quanto tutti nomi derivanti da Vesta, che sappia del
prestigioso ruolo di magister svolto dai catipani nell’isolata in mezzo al mare, lontana, minuta e del tutto ignota ai letterati del tempo, ma nello stesso tempo strategica città di Vieste pure quando era sotto il dominio dei Bizantini. Che secondo il Giuliani (ivi. p. 105): “la governavano con un particolare ministro col nome di maestro” (ivi p. 112): “affinché col nome avessero potuto almeno rattenere quel fasto di chiamarsi ancora signori d’Italia”. Nome di origine greca che da I-thaly(z) sta per l’isola in fiore o lussureggiante gridato per la prima volta da entusiasti giovani immigrati al loro approdo (Virgilio) nel porto del Pantanella facente parte dell’isolata in mezzo al mare Vieste, dalla quale sono partiti tutti gli altri nomi precedenti dell’Italia, e non solo, e il cui centro storico è situato sul Montarone. Toponimo di origine greca che da moun(az)-taur(os)-one(m) porta alla sua realtà orografica di un “peduncolo isolato ma non distaccato avente la forma di corna di un toro possente”. Ma che, come si è già riferito in precedenza, per essere isolato, greco monios, latino singularis: singolare, conduce idealmente a un cinghiale ed etimologicamente pure alla Troia di Omero per la vicina sepolta dal fango Merino. Zone viestane unificate nel loro destino col nome della leggendaria sprofondata sott’acqua città di Uria che parte dalla sprofondata sott’acqua Troia dal diluvio di Omero, un equivoco di tutti i successivi antichi scrittori provocato anche dalla esposizione sul mare del Montarone su cui poggia l’antica Vieste. Un fenomeno che venne trasferito altrove assumendo nomi diversi per luoghi, città, isole e Continenti mai più trovati perché dispersi in tutto il restante territorio italico ed europeo. Ne è ultimo esempio l’omerica Skeria, capitale del Continente Apeira, alla quale Odisseo giunge dopo che si era attaccato a un bastione di pietra, u Puzmum per salvarsi, come avvenne pure per Eracle, secondo Omero e da cui la colonna d’Eracle,venendo sballottato davanti a un fiume della spiaggia della Scialara. Anticamente detta u Chitrone che dal greco kutra indica una grande olla d’acqua comprendente la sei correnti tutte salmastre esistenti su questa spiaggia che insieme con quella dolce del Canale della Chiatà fanno parte del monumentale Timavo (Strabone e Plinio), che dal greco timaò-auò sta per “onorare con lamenti”, fatti dagli addolorati compagni di Diomede tramutati, eccetto uno, in uccelli dopo la sua morte e da cui le mitiche Isole Diomedee. Soloviestane anche per la presenza della falsa isola Teuthria (biancastra) che Diomede avrebbe voluto tagliare scavando un canale per renderla una vera isola (il Montarone) ma che non riuscì per la sua sopravvenuta morte, venendo seppellito sull’isoletta disabitata (Strabone) o del Faro. Anche se in questo caso Odisseo approda alla foce della prima corrente che scorre a confine con la località Scanzatore, che dal greco schenizò (scanaò): palcoscenico; za = dià: per mezzo; toreuò: fo sentire ad alta voce, che conduce a un palcoscenico dove farsi sentire a voce alta. Un fatto che avviene per il tramortito Odisseo che viene svegliato dalle grida di Nausica, principessa di Skeria, e delle sue ancelle poiché la palla con cui stavano giocando in attesa che i panni lavati e stesi al Sole sulla sabbia era caduta in questo fiume. Il nome Skeria deriva dall’indeuropeo sker: indicante un approdo presente nei greci scèriptò, che come puntello, o appoggio (di nave) equivale al greco èlos, per una caviglia di legno usata come appoggio di nave tratta in secca che compare nell’el di Pantanella, e in parte nel greco skeros perché i due porti viestani erano formati dalla continuità delle rupi del Montarone. Città di Skeria che secondo Omero e per bocca di Nausica è situata nel mare grandi flutti all’estremo del mondo. I cui Feaci, definiti da Omero come gli ultimi degli uomini rispetto agli ultimi Etiopi, convalidano l’identità del Montarone come Pizzomunno e i Viestani come Vestysane per la presenza del latino aestus. Aestus che sta sia per lo stare Vieste nel mare grandi flutti, che a lungo andare diventano talmente fastidiosi da mandare in bestia i Viestani e da cui la terra, o isola di Bestie, che partiva da Vieste per il suo restante territorio. Sia per il trovarsi dei Vestysani sul percorso del Sole nel giorno del solstizio d’estate, giorno in cui il Sole si vede sorgere dal mare frontalmente a Vieste e direttamente da dietro la punta nord occidentale della sua isoletta del Faro. Stessa direzione di provenienza dell’attuale vento di Greco proveniente frontalmente dall’omerica Tracia, che di fatto rende questa città come greca, tuttora insita nell’attuale nome greco Vieste, figlia dell’Oriente e derivati e del Greco, mentre tutto il resto era da considerare barbaro. Dati di fatto che rendono Vieste anche per il suo antico nome greco di Estia, o Istia, la primitiva Megale Ellas, passata erroneamente all’attuale Grecia che non dovrebbe essere identificata come tale perché non si trova sul percorso del Sole nel predetto giorno. Anche perché la greca Megale Ellas con a capo Vieste venne poi oscurata e trasformata dai Romani come la latina Magna, per la sottovalutata maggiore età, o maturità, Greca da cui la Magna Grecia, riconosciuta come Megale Ellas dal solo Plutarco nel Timoleon e poi ridotta fin dal tempo romano all’Italia meridionale. Anche se i confini di Vieste si
estendevano in tutto il Continente Apeira per Omero, della cui identità si dirà di più, e fino agli Spagnoli per Seneca. In Italia i suoi confini si estendevano dalle regioni dell’attuale Mare Adriatico, col Veneto, per i troiani Oinetoi, o Heneti anche per la postuma venerazione del loro nemico Diomede, e più su fino al Frìuli Venezia Giulia, nome quest’ultimo proveniente da Ilio, o Troia. E una volta considerata l’identità di Vieste come Uria, sul lato opposto dell’Italia i suoi confini andavano oltre l’Etruria e alla Liguria e forse fino al Piemonte per la presenza su un’antica mappa dell’Italia settentrionale di una città di nome Uria, che dalla posizione sarebbe identificabile con l’assente Torino, che da Turin capoluogo del Piemonte avrebbe avuto origine dalla riduzione e trasformazione dialettale del toro presente nel viestano Montaurone in quanto Uria, città situata ai piedi del monte, o all’estremità, dell’omerico monte Gargaron, ora Gargano. I porti di Skeria sono testimoniati a Vieste oltre che dalla antica realtà pure col nome di isola Bestie da alcuni portolani ancora nel 1400 e che unitamente alle lunghe mura che destavano meraviglia a vedere di Odisseo, sono le stesse ritrovate a Vieste. Composte di grandi blocchi di pietra di palmi 10 di lunghezza (o altezza), 4 di larghezza e 2 di spessore che sono emersi dopo abbondanti piogge nel 1600 (Pisani) e nel 1760 (Giuliani); nello scavo di una vigna nel 1800 (Masanotti); nel 1990 per lo scavo delle fondamenta della Pensione S. Giorgio e nell’anno 2000 per lo scavo delle fondamenta per l’ampliamento del frontale Hotel Mediterraneo sul cui lato destro sono tuttora accatastati. Mura situate sull’istmo del Montarone che servivano a proteggere la città sia dalle mareggiate, per il breve tratto adiacente la viestana Porta di Basso di cui scrive il Pisani, e sia da incursioni terrestri. Skeria che come capitale dell’omerico Continente Apeira: aperta, ora definito luogo non identificabile, ignorando che si tratta di un sinonimo dell’attuale Europa: vasta vista, che è l’estensione dell’Apulia: senza porta che si parte dai Viestani identificati come Uri Aperti del Gargano da Catullo, che per la sua attuale luminosità sostituisce l’omerico monte Gargaron, individuato come la cima meridionale dell’omerico monte Ida ricco di vene, madre di fiere per le correnti d’acqua presenti sui litorali viestani. Apertura degli orizzonti presente nel Giuliani quando mirabilmente scrive: “Nel gettarsi che fa nel seno dell’Adriatico mare il Monte Gargano, prolungandosi in mezzo alle acque circa venti miglia nella sua estremità, lascia la città di Vieste sopra uno scoglio a guisa di una penisola (il Montarone!). Rimira ad oriente, a settentrione e all’occaso il libero suo orizzonte in lunga distanza tutto bagnato dalle acque marittime, ed a mezzogiorno e da selve, e da piani, e da colli, e da monti che a poco a poco per lungo tratto s’innalzano, venendo interrotto, in niuna parte del giorno è priva de’ raggi solari. In un tempo stesso, situata a guisa di una punta all’estrema falda de’ monti, viene dominata da contrari venti; e si osserva in tempo di bonaccia che le acque del mare portate sono in parte contraria (..) per dividersi quivi i venti, e due venti spirano nel tempo stesso”; quest’ultima parte è presente nell’omerico mare grandi flutti in cui si trovaSkeria situata all’estremo del mondo, da cui il Montarone come Pizzomunno, i Viestani per Vestysane e Vieste come isola Bestie.
Inoltre da Vieste, inneggiata come Porta della Grande Madre Terra. Acqua Sorgiva in una iscrizione su pietra scritta in lingua greca arcaica tradotta dal Petrone c’è da fare delle precisazioni sull’origine della mai localizzata Iapiga Mesapia per la monade Troia centro dell’Antichità che secondo Omero viene dapprima bruciata dagli Achei e poi fatta sprofondare in una notte e un giorno per volere degli dèi con il Diluvio Greco di nove giorni di pioggia. Un fatto che l’ateniese Platone meno di quattro secoli a.C. nel Crizia dopo l’introduzione con una specie di diluvio scrive del Continente Atlantide che viene affondato in una notte e un giorno poi spostato ovviamente ed erroneamente nell’Oceano Atlantico, che dal greco a-tlenai diventa infaticabile e quindi sinonimo della terra, o grande isola affondata in una notte e un giorno chiamata Adria che ha dato il nome al mare Adriatico, che dal greco adros diventa forte, quindi sinonimo di Atlante. E che pure Uria, per Vieste, viene fatta sprofondare in una notte e un giorno per volere degli dèi per punire i suoi corrotti abitanti. A questo si aggiunge che dal greco monios, latino singularis diventa lo stesso del peduncolo, o solidungolo isolato ma non distaccato dalla forma di corna di un toro potente, o adros, o infaticabile presente nel Montarone che per essere isolato diventa pure la Iapiga Mesapia per la monade Troia centro dell’Antichità da cui tutto questo ha origine anche perché come pizzo di Pizzomunno è un sinonimo di atlante e tutto facente parte dell’omerico Continente Apeira, ora definito luogo non identificabile, come fosse una bazzecola. Una prova indiretta si trova in ciò che, dopo qualche tempo da Omero, pensarono di un’isoletta, o di uno scoglio appena affiorante dall’acqua, qual è l’isoletta viestana facente capo della veneranda Hestia, poi decaduta a donna pudenda, vergognosa, vereconda. Anche perché questa isoletta
assume la forma di un porcello marino, o delfino, presente con un timone in numerose monete uriatine, con il quale erano raffigurati Apollo e Afrodite partoriti dall’omerica Latona su questa isoletta errante viestana che perciò diventa una Troia. A questo si aggiunge il contributo alla formazione della città di Delfi, o Delfo, e del suo famoso oracolo con il suo drago Delfine, di cultura post-omerica, poiché questo nome dal greco delfis poi delfin indica un delfino nell’identità di un porcello marino, che dal greco delfys assume anche i valori di matrice, vulva, utero. In parte presenti nell’aggos da cui deriva il porto viestano del Pantanella citato come Porto Aggaso da Plinio, che sicuramente ha contribuito alla creazione dell’idea della terra italiana sempre gravida per l’uomo (A. Morelli. Dei e miti, v. Delfi), la cui tradizione viene riferita dallo stesso Plinio, per indicare la fertilità, la pienezza, la pregnanza del territorio viestano che forse fa parte della nascosta e mai prima rilevata e appurata forma allegorica della distruzione dell’omerica Troia. Altro esempio si ricava dall’isola partenopea di Capri, dal greco capra: capra; capraina: troia; capros: cinghiale, porco selvatico, derivante dall’omerica Troia in quanto distrutta come capro espiatorio, presente nella viestana Caprareza, che da una Troia data in sacrificiosi intravede il recondito valore allegorico della sua distruzione, ma che si trova nel monios dell’isolato Montarone e della sua isoletta, poiché in tempi remoti tutte le piccole isole appena affioranti sull’acqua venivano identificate come Troia, o porcello marino, o delfino, simbolo degli omerici Apollo e di Artemide, nati su uno scoglio vagante per l’isoletta viestana, come pure della lasciva romana Venere che, come Sosandra: ausiliatrice, dei naviganti solitamente accompagnati da isolati delfini, si trova in alcune epigrafi nella grotta di questa stessa isoletta. Un risultato che si compie anche perché l’essere città Partenopea di Napoli proviene mitologicamente da una Sirena di nome Partenone, o Partenope. Che dal greco parthenos e simili indica una vergine fanciulla che per essere stata rifiutata da Odisseo si lascia morire di dolore e il suo corpo dopo aver vagato per alcuni giorni nel mare, partendo dall’isoletta viestana di Lamican: isola della Sirena, giunge sulla costa di Nea-polis: nuova città, per lo scrivente navale città, dove viene seppellita (Strabone) sulla penisoletta (isola del Tirreno per Aristotile) dove c’è il Castel dell’Ovo, sulla quale in suo onore i pescatori del luogo fondarono la città col nome di lei, Partenope. Ma penisoletta che sarebbe la parte residua di una terra, o di una grande isola chiamata Megaride, che dal greco megas si ricava tutto della sua grandezza e maturità, quindi greca, come pure per l’esatta designazione della Megale Ellas per l’Italia e che, secondo la leggenda finì sprofondata nel mare, ovviamente il Tirreno. Un destino che parte da Troia che viene fatta sprofondare per volere degli Dèi per un muro costruito dagli Achei senza fare gli opportuni sacrifizi e che prosegue con la sorte della viestana Uria,scomparsa sott’acqua per volere di Dio per la vita corrotta e lascivia dei sui abitanti (Del Viscio). A dimostrazione che tutto dipendeva da Vieste c’è il polivalente suo nome di Uria, che viene citata da Strabone col nome Ourion che dal greco significa uovo infecondo, che è lo stesso di uovo cosmogonico, che una volta fecondato da origine a tutto lo scibile umano. E città di Vieste che inneggiata come Porta della Grande Madre Terra, greco Gea nata autonomamente dalla rottura di questo uovo infecondo e tuttora presente in località viestana “la Gioia”, che come Porta, indeuropeo thura, ha dato origine ai Thyrreni e al Mare Tirreno in cui si trova la città Partenope, o Napoli e l’isola di Capri, poiché la Tirrenia era il confine della terra di Uria in quanto vertice della triangolare isola Italia (Plinio). Mentre dall’equivalente aramaico turah si identifica con la Turah,greco Turos,italiano Tiro, la cui scomparsa dal mare e nel mare viene descritta con vanteria dal profeta Ezechiele nella Bibbia per esaltare Gerusalemme subentrata nella funzione di porta. Mentre l’aggiunta Acqua Sorgiva diventa il prolungamento dell’inno a Vieste in quanto Pizzomunno, ricca di acque sorgive di natura carsica, ma senza che il traduttore Petrone avesse ascoltato le contemporanee due lavandaie che nel 1907 raccontano al Beltramelli di come il mare si sia formato un nido sotto la montagna e senza avere letto Strabone sulle correnti del Timavo, monumento dell’isola di Teuthria, per il biancastro Montarone, quando delle storiche e mitiche correnti viestane scrive: “Dice però Polibio che ad eccezione di una, tutte le altre sono di acqua salata e che gli abitanti chiamano il luogo sorgente e madre del mare. Un specifico riferimento a Vieste che parte dal viestano Omero secondo il quale il mare si è formato dalle visceri della Terra e che con tutti i pozzi sorgivi, tutti i fiumi e tutte le sorgenti venivano traboccati dalla forza di Oceano, padre degli dèi e di Calypso, che abitava a Vieste in località Sotto il Ponte, o la Pena.
Per tornare al Vestiarius c’è da precisare che questo termine è una traduzione latina della qualifica del governatore Argiro, che come <magister Vestis et dux Italiae, Calabriae, Paflagoniae et Siciliae> (Lupus Protospata in Giuliani, p. 107), cioè come <supremo ministro di Vesta (Giuliani, p. 12)>, viene fatto diventare <magister vestes> per indicare uno che si fregia della <veste di maestro> (sac. M. Della Malva. Vieste e le Città della Daunia), sminuendo la funzione di Argiro. Poichè Vestararius, o Vesterarius, o Vestiarius, che con la loro radice vesta, veste, o vesti conduce chiaramente a un addetto alle cose di Vesta, o di Veste, o di Vesti, per un Vicario dell’Imperatore in rappresentanza dei restanti territori d’Italia, in sostituzione della Puglia, della Calabria, della Paflagonia e della Sicilia di cui si fregia il governatore Argiro. Una funzione che parte da Vesta e, quindi, un amministratore, un capo, un ministro anche pontificio bizantino che cura le questioni di Vesta, o di Veste, o di Vesti in delega di tutto il restante territorio, di cui scrive il Giuliani e città identificata da tempo immemore come Pizzomunno, Pizzo del Mondo. Qualifica presente nel suo antico nome greco Estia, o Istia da isthemi per un sisto, un punto fermo, o Pizzomunno, che ancora nell’anno 1000 era ritenuta città capoluogo di tutti i predetti territori afferenti ad Argiro con la testimonianza del Bacco, che nel 1618 scrive che Vieste sotto l’imperio dei Greci, futenuta per chiave del Monte predetto (il Gargano); in tanto che alcuni Vicarii degli Imperatori di Grecia, che in quel Monte teneano la Corte volentieri faceano residenza in Vesta”,da cui la qualifica di Magister Vestis dei suoi governatori, e chedopo avere esaltato “la potenza anconel mare nei primi tempi del mondo dei Vestani” aggiunge che: “i Vestani chiamano Vesta con vocabolo corrotto Veste o pur Vieste”. E quindi pure Vesti nell’identità di Vestini derivanti dalla Civitate Vestinarum citata in alcuni strumenti del 1200 (V. Giuliani. Ivi, p. 83) e identificata nel primo secolo a.C. da Strabone (Italia) come Vesti, o Festi per il digamma iniziale.
Tutto questo per chiarire che come patrocinatore di Papa Giovanni X, Teofilatto è stato a sua volta dal Papa Leone VI nominato <Vestararius> come supremo ministro pontificio, suprema autorità, maggiore referente del Papa sulle cose di Vesta, sottintendendo la difficile cura di tutto ciò che riguardava i rapporti diretti col potere politico e patriarcale dell’ignominiosa Bisanzio perché, superando la volontà scismatica di Fozio, essa continuasse a dipendere da Roma. Il Vestararius Teofilatto quindi, identificandosi come amministratore, ministro pontificio di Vesta si contrappose a un ministro bizantino, il cui magister, o governatore, risiedeva nella città di Vesta, la quale in quel tempo era in Italia la più stabile e fidata provincia di Bisanzio da cui dipendevano i Magister e i Vescovi di Vieste di nomina bizantina come si evince con il Vescovo viestano, Alfano, e con lo scambio di nome di Anastasio con Giovanni Romano. Lo dimostrano altri fatti: 1- la traduzione di vestararius, o vesterarius, o vestiarius, con un capo pontificio e amministratore; 2- Teofilatto fu nominato “vestararius” da Giovanni X per dare alla chiesa romana un ministro al di sopra di ogni sospetto, mentre era in atto un lungo conflitto contro Fozio, patriarca di Bisanzio. Questa dipendenza è dimostrata dal fatto che proprio con l’aiuto di Teofilatto, il Papa Leone VI riuscì ad avere un’intera flotta da Bisanzio per lottare in Italia contro i Saraceni, le cui navi furono bruciate nel Porto Matino, o Viestano, nell’anno 914 (G. Pisani. Croniche e memorie di Vieste dal 1664 al 1700), o nel 920 (Sarnelli, ivi); 3- Dopo la morte di Teofilatto, la qualifica di vestararius passò a sua figlia Marozia, che si avvalse anche di altri titoli per conservare il suo diritto di intervento nel papato e determinare l’elezione di Leone VI dopo averlo nominato, se non altro per continuità col vestararius, Vescovo di Vesta, città che volle conservare sotto la sua diretta giurisdizione per condizionare strategicamente Bisanzio e il suo patriarca. Più determinata del padre infatti tutto fa sembrare che con queste due nomine Marozia abbia voluto dare alla chiesa bizantina e al suo imperatore un segnale forte con l’annessione della allora bizantina diocesi viestana a Roma; 4- la prova più concreta è che con altrettanta continuità Papa Leone VI, Giovanni Romano che col nome del Vescovo viestano Anastasio, nel Concilio di Costantinopoli si schierò per la chiesa romana, facendo deporre il patriarca di Bisanzio Fozio.
CLEMENTE II è stato un Papa che, oltre a dare lustro all’arcidiocesi viestana, potrebbe da un punto di vista laico contribuire a una maggiore fortuna turistica di Vieste e del Gargano se solo riuscisse a fargli un monumento o a propagandare convenientemente in Germania che il secondo dei sette Papa tedeschi, ma unico ad essere sepolto oltralpe, dopo essere stato vescovo di Bamberga al momento della sua elezione a Papa era Vescovo di Vesta. Lo scrive il Giuliani (ivi p. 106): “Avendo rinunciato la cattedra di Bamberga, fu Clemente vescovo di Vieste”. Si pensi per esempio ai tanti tedeschi che oggi si spostano da Vieste a Manfredonia, anche se per un solo giorno, unicamente perché città fondata da Manfredi, figlio di Federico II di Sassonia. Il nome di Clemente II era Suidger, figlio di Morsleben von Horneburg, dell’alta nobiltà di Sassonia, e di Amulrad, sorella dell’Arcivescovo di Magdeburgo, Walthard. Suidger iniziò la carriera come canonico del duomo di Halbertstadt, diventando cappellano dell’arcivescovo di Amburgo-Brema,
Hermann II, che in precedenza era stato preposito dello stesso duomo di Halbertstadt. Suidger fece parte della cappella di corte già al tempo di Corrado II diventando uomo di fiducia di Enrico III. Dopo la morte di Eberhard, primo vescovo di Bamberga avvenuta nel 1039, il re destinò Suidger a questa cattedra vescovile l’8 settembre 1040, dove fu consacrato la domenica del 28 dicembre, restandole legato per tutta la vita con particolare devozione. Convocato da Enrico III nella sua discesa in Italia del 1046, Suidger si recò al sinodo di Pavia per discutere le riforme della Chiesa e condannare la simonia. Sempre al seguito del re egli passò per Piacenza, dove furono condotte trattative con il Papa Gregorio VI, e poi a Lucca e a Sutri. Qui il 20 dicembre 1046 venne celebrato il sinodo di S. Pietro, in cui si dichiarò deposto l’antipapa Silvestro III e si costrinse Papa Gregorio VI all’abdicazione. Il 23 dicembre Enrico III fece il suo ingresso a Roma e il giorno dopo convocò un altro sinodo che decretò la deposizione del Papa Benedetto IX, malgrado questi avesse rinunciato al suo pontificato fin dal Maggio dell’anno precedente. Tutte queste erano operazioni che miravano a scoraggiare i Conti di Tuscolo, che da oltre trenta anni detenevano il papato, dal fare ulteriori designazioni per il trono pontificio. Infatti, al sinodo del 24 dicembre, giorno dell’unanime elezione canonica di Suidger, designato Pontefice da Enrico III, non c’erano altri aspiranti candidati romani. Appena eletto Papa, il Vescovo di Vieste Suidger scelse il nome di Clemente II per collegarsi al primo, che fu figura prestigiosa della Chiesa, e il giorno seguente, 25 dicembre, consacrò imperatori Enrico III e sua moglie Agnese di Poitou. All’imperatore fu inoltre conferito dai Romani, e confermato dal Pontefice, il patriziato che gli assicurava parte preponderante nelle future elezioni papali. II l5 Gennaio 1047 Clemente II riunì a Roma un Concilio per rimuovere diversi abusi ecclesiastici e imporre al clero il nuovo indirizzo di riforma della Chiesa. Allo scopo di sostenere la politica imperiale con la sua autorità di Papa, Clemente II lasciò subito Roma per accompagnare nell’Italia meridionale Enrico III, che intendeva riaffermare la propria autorità tanto su Benevento, dove era cresciuto un movimento di opposizione imperiale, quanto sui territori passati nelle mani dei Normanni. Ritornato in Italia, dopo aver seguito l’imperatore in Germania, Clemente II morì il 9 ottobre 1047 nel monastero di San Tommaso sull’Aposella (Pesaro) per avvelenamento subcronico dovuto al diffuso uso di vasellame di piombo in quel tempo. Sull’appartenenza alla sede vescovile di Vesta del Papa Clemente II fa cenno il Giuliani (ivi p. 106), che scrive: “Morì parimenti a 7 di ottobre di detto anno (1048) il Pontefice Clemente II, dopo nove mesi del suo pontificato. Avendo rinunciato la cattedra di Bamberga, fu Clemente vescovo di Vieste. Si vuole dal Kreaytter e da Enrico Bacco che egli nominato fosse Sindigerio, nato in Napoli, della famiglia Carafa; l’Ughellio però nella serie de’ vescovi Vestani non ne fa memoria. Scrive bensì il Platina nelle Vite de’ Pontefici che Clemente, pria chiamato Sindigerio, essendo vescovo di Bamberga, fu in Roma nel Sinodo, che per ordine di Enrico III vi fu fatto, anzi per volontà ed ordine espresso del medesimo principe eletto Pontefice. Dallo stesso Platina, nell’indice de’ Pontefici, si vuole di Sassonia”. Come si può vedere Sindigerio Carafa compare nel primo comma di questa documentata tesina nella lista dei Vescovi di Vieste stilata dal Kreaytter
Premesso che il citato Kreaytter è stato Vescovo di Vieste dal 1697 al 1701 e che insieme con il Bacco e il Vescovo Cimaglia è al di sopra di ogni sospetto, dai fatti precedenti appare evidente che Clemente II vada considerato nel pieno del conflitto tra i Bizantini, che continuavano a eleggere vescovi nelle loro diocesi specialmente in quelle costiere, Vieste compresa, e i Normanni che finirono con il contrapporre la chiesa beneventana, dipendente da Roma, a quella viestana governata dai Bizantini tramite un loro ministro, o governatore, o catipano col nome di magister Vestis etc… Artefici principali di questo periodo storico furono Melo, signore di Bari, e suo figlio Argiro, il magister Vestis etc., qualora si consideri un antefatto e come dimostra l’epigrafe presente nella grotta del faro viestano, il doge Don Pietro aveva liberato Bari dai Saraceni, motivo del passaggio in Vieste di Papa Alessandro III, i quali avevano potuto conquistare buona parte dell’Italia con il sottinteso benestare dei Bizantini. Seguì una rivolta popolare (1009) capeggiata da Melo e dal cognato Dato contro i catapani greci. Per sedare la rivolta, Bisanzio inviò Basilio Bagiano, che in tre mesi ripristinò l’ordine. Melo non si dette per vinto e nel 1015 si recò una prima volta a Bamberga dall’Imperatore Enrico II, per chiedere il suo intervento in Italia. Come risposta, Melo ebbe la nomina di Vassallo e di Duca di Puglia, allo scopo di affermare le pretese dell’impero occidentale, o Bizantino, su questa regione. Tornato nello stesso anno in Italia e corroborato dalla sua recente nomina, nel 1018 Melo tentò di risollevare il popolo contro i Bizantini, alleandosi con i Longobardi. Dopo alcuni successi, ma sconfitto a Canne dal catapano Basilio Boioannes, Melo fu ferito e i suoi alleati decimati. Ridotto all’isolamento Melo riparò nel Gargano, dove incontrò alcuni Normanni venuti dalla Palestina per venerare S. Michele Arcangelo nella sua spelonca a Montesantangelo. I Normanni videro Melo vestito con abiti caratteristici e gli chiesero chi fosse. Nacque un’amicizia interessata, tanto che Melo invitò i Normanni a tornare in Italia per conquistarla con il suo aiuto. I Normanni si dichiararono disponibili, ma rimandarono la loro azione al ritorno in Italia. Poiché la venuta dei Normanni ritardava, Melo si recò nuovamente a Bamberga per pregare Enrico II di scendere in Puglia. Ma a Bamberga, dove già faceva parte della cappella di corte Suidger, futuro Vescovo della città, Melo morì il 13 aprile 1020, ricevendo onoranze funebri di un vero Re. Dopo la prima sconfitta di Melo, sua moglie Maralda e suo figlio Argiro erano stati catturati e mandati a Bisanzio. Argiro tornò a Bari nel 1029 e nel 1040 si mise a capo degli scontenti dei catapani Greci, che fece uccidere per vendicare suo padre Melo. Siccome i Normanni, che scesero in Italia, si resero artefici di efferatezze verso le popolazioni, nel 1042 Argiro passò di nuovo ai Bizantini, mentre i Normanni, vittoriosi, proclamarono conte di Puglia Guglielmo d’Altavilla, alias Braccio di Ferro. Nel 1043 i Normanni si divisero le città conquistate con la sola eccezione di Vieste che restò sotto il dominio dei Bizantini e del magister Argiro. Nel 1052, con la scusa di dover combattere contro i Persiani, i Bizantini richiamarono Argiro, ma i Normanni accortisi dell’inganno ferirono mortalmente Argiro che riparò in Vieste. Nel 1066 Roberto il Guiscardo prese Vieste dove fece prigioniero l’ultimo catapano dei Greci, Cyriaco Bennato, quivi rifugiatosi che, infine, nel 1070 passò sotto il dominio dei Normanni (Giuliani, p. 108).
Questo antefatto storico, che ha nel magister Vestis Argiro il filo conduttore pure tra Vieste e Bamberga, evidenzia che il Natale del 1047, giorno in cui fu eletto Papa Clemente II, Vieste era ancora unica città bizantina in Italia. Infatti il Giuliani (ivi, pag. 105) scrive: “La sola città di Vieste, governata da un particolare ministro, col nome di maestro, restò, come soggiungeremo, sotto il dominio de’ Greci” che, essendo Vieste senza un Vescovo di nomina romana la sua sede episcopale era considerata politicamente vacante e poteva essere trattata nella stessa maniera che portò alla nomina a Vescovo di Vesta di Anastasio,o Giovanni Romano, poi Papa Leone VI. Il decreto di un dominio politico/religioso da parte dei Normanni sarebbe valso anche quando la stessa cattedra non fosse stata fisicamente libera, come difatti si deduce dal Sarnelli per il capitolo sulla cronologia e vita dei vescovi viestani ripreso dal Giuliani. Questo significa che un eventuale Vescovo bizantino poteva essere sostituito da Roma o, come in questa specifica circostanza, da Enrico III re dei Normanni, senza dover scalzare altri Vescovi romani dalle loro sedi per l’elezione del Papa Clemente II. E’ perciò intuibile che, come nel 1015 Enrico II con la nomina di Melo a Vassallo e Duca di Puglia abbia voluto affermare le sue pretese politiche e militari sulla regione, così nel 1047 Enrico III con il passaggio di nomina da vescovo di Bamberga a vescovo di Vesta del futuro papa Clemente II abbia voluto affermare le pretese politiche ed ecclesiastiche dei Normanni su quanto ancora restava a memoria dei Bizantini in Italia. Di ciò si hanno alcune prove: 1- Papa Clemente II permutò la “sua dulcissima sponsa Bamberga” con Benevento poiché la Chiesa di Roma dava quella di Benevento all’Imperatore Enrico III e questi dava quelle di Bamberga e Fulda alla Chiesa di Roma; 2- la scomunica che, come segno tangibile di una perfetta simbiosi tra il Papa e il Re, Clemente II non esitò a lanciare contro Benevento, rea di aver accolto ostilmente Enrico III quando il popolo beneventano aveva rivolto apprezzamenti negativi alla moglie Agnese, di ritorno da un pellegrinaggio alla spelonca di S. Michele a Montesantangelo; 3- è quella che più interessa Vieste, poiché subito dopo (1053) Papa Leone IX, altro Papa tedesco dei Conti di Egesheim, ebbe Benevento dallo stesso Enrico III secondo il Sarnelli che scrive: “spedì un Breve a Uldarico, arcivescovo beneventano, per rivocare alle ragioni e proprietà dell’Arcivescovo Beneventano le Chiese Sipontina e Garganica” in pratica la revoca dell’annessione della chiesa sipontina e viestana effettuata dall’Arcivescovo di Benevento per la chiesa romana; 4- dal tempo di Enrico II, il re che insieme con la moglie Cunegonda guadagnò la sua elezione a Santo con la visita alla spelonca dell’Arcangelo Michele (Sarnelli), molti arcivescovi di Benevento furono germanici.
Dopo la sua morte, Clemente II fu trasportato a Bamberga, dove riposa nel duomo in un grande monumento sepolcrale poco distante da quello di Enrico II detto il Santo, il re che scelse questa città come residenza imperiale (1002), vi fondò il duomo (1004) che elevò a sede vescovile (1007) consacrata da Papa Benedetto VIII (1017) dove, secondo la volontà espressa dal re in data 8 Settembre 1040, Suidger venne consacrato vescovo il 28 dicembre 1040.
Prof. Giuseppe CALDERISI