Sacerdotesse, indovini, guerrieri e santuari nella terra che sfugge al moderno.
Nei «Quaderni del Sud», Pasquale Corsi, docente dell’Università di Bari, ha brillantemente ricordato i miti della terra garganica affacciata sul mare Adriatico fra asperità impervie e audaci discese a picco. Il Gargano è da sempre una terra benedetta, con delle acque che – da Rodi a Mattinata – assomigliano agli occhi di giovani ragazze un po’ greche e un po’ «barbare», venute da nord per trovare consigli amorosi nel nome di Cassandra.
I due antichi santuari presenti sul promontorio del Gargano rappresentano un piccolo compendio mitico, mai consumato dal tempo e mai totalmente verificato, proprio per non sciupare il mito stesso. Scrive il geografo Strabone: «Si vedono su un’altura, di nome Drion, due templi, l’uno di Calcante sulla cima: gli sacrificano un montone nero e quelli che consultano l’oracolo, dormono sdraiati sulla pelle; in basso ai suoi piedi (c’è) quello di Podalirio, distante dal mare circa 100 stadi: e qui scorre un fiumicello, che guarisce le malattie del bestiame».
Il brano, come precisa lo stesso Corsi, ha attirato l’attenzione di diversi autorevoli studiosi (archeologi, antropologi, grecisti). Anzitutto quel che incuriosisce è il nome del monte: è detto Drion, ma perché? La denominazione indicherebbe un bosco o un boschetto. Pare che quella zona fosse ricoperta, un tempo, da alberi, come ancora lo sono altre alture del Gargano, come la Foresta Umbra, che ha il mare ai suoi piedi, e corrisponde all’area dove ora sorge Monte Sant’Angelo (qualcuno erroneamente ha pensato e scritto che quest’area fosse la città di Cerignola, nel Foggiano, ma la tesi è totalmente accantonata per evidentissime ragioni geografiche).
Precisa ancora Pasquale Corsi: «Tra l’altura e il mare ci sono dunque tre posti che attirano il pellegrino: in alto, il tempio di Calcante; a mezza costa un fiumicello purificatore, che può essere il Rio degli Angeli, particolarmente limpido nel mondo antico; e presso la marina (ma non troppo) un tempio dedicato a Podalirio, ritenuto figlio di Asclepio (guaritore per eccellenza), fratello del medico omerico Macaone: dunque famiglia di guaritori».
Come noto Podalirio è il guaritore, tra gli altri, di Filottete, e poi, dopo la guerra di Troia, si sarebbe occupato anche della figlia del re di Caria. Podalirio, insieme al ben noto Diomede, dopo i fatti di Troia sarebbe arrivato in Puglia, quella costola ellenica, che onora l’indovino Calcante.
In un bel saggio di Yves Lafond e Vincent Michel, dedicato ai santuari di tutta l’area del Mediterraneo, sulla scia dello studioso Lechat, che si rifà a fonti antiche come Pausania o Plutarco, raccogliamo ulteriori dettagli sulla ben nota pratica dell’ incubatio, da cui derivava, spesso, la buona salute (il rito è ben presente anche nell’Eneide). In che cosa consisteva questo rito?
L’incubatio era una pratica molto diffusa nell’antichità e prevedeva di addormentarsi nei pressi di un luogo sacro, con la speranza di ricevere, dalle porte dell’aldilà, in sogno, la visita del dio, coi suoi preziosi consigli. Il rito consisteva soprattutto nel presentarsi di persona al santuario prescelto (di sacrificare almeno un montone e poi di sdraiarsi a dormire su quel vello nero).
Proprio in relazione a questa ritualità quasi medica possiamo agganciarci a un altro nome, ben noto sulla cima del Gargano: quello di Licofrone, autore di Alessandra/Cassandra, la quale avrebbe aiutato le giovani vergini nel matrimonio (sui culti femminili della Daunia resta insostituibile il catalogo, per Grenzi editore, a cura di Marina Mazzei, con la collaborazione di Marisa Corrente).
L’opera di Licofrone è ammantata di un linguaggio enigmatico, che conferma la teoria aristotelica, secondo cui l’enigma non è solo un gioco, ma una vera e propria abilità di chi, in quanto sapiente, tenta di dipanarsi fra le metafore più ardue dell’esistenza (sull’opera sono certamente da consultare gli scritti del grecista Massimo Fusillo).
Come ha, poi, spiegato l’archeologo Silvio Ferri, dalla Grecia all’Italia possiamo parlare di una sorta di koiné anatolica, accomunata dai viaggi di ritorno degli eroi omerici, ma anche da usanze e linguaggi affini. Alcune stele ritrovate da Ferri raffigurano scene nuziali e di vita quotidiana: molitura del grano, pesca, caccia, tessitura ma anche scene erotiche e rappresentazioni di sacrifici rituali con eroi, animali fantastici e reali. Le opere risalgono a un periodo compreso tra l’VIII e il IV secolo a.C. e provengono da Ordona, Ascoli, Melfi e Arpi. Sono un patrimonio unico, in Europa, costituito da circa duemila pezzi incisi su ogni facciata. Silvio Ferri precisò, dopo i ritrovamenti, che i Dauni provenissero dalla Tracia, come i Troiani, legati alle usanze di quel popolo dei «Paviones», il cui simbolo era il pavone, che si ritrova molto spesso.
Allungando senza fatica lo sguardo, l’occhio, quasi a mo’ di conforto, si posa poi sulle Isole Tremiti, dove è ben difficile immaginare che Diomede sia naufragato! Avete mai visto quei luoghi?
È molto più probabile credere al suo volontario riposo su queste bellissime e appartate terre, a cui poi Venere, dea dell’amore vissuto con bellezza, affiancò i fedeli compagni, trasformandoli in armoniosi gabbiani delle isole Diomedee.
C’è qualcosa di cui, però, si parla poco quando si legge e rilegge l’interessante bibliografia garganica, spesso molto citata: nella genuinità di questi luoghi gli eroi hanno probabilmente voluto dimenticare di essere miti eterni e hanno scelto l’errore, l’anomalia della quotidianità, l’imperfezione faticosa e vera degli uomini comuni, continuamente in bilico fra una soluzione e la disperazione. È anche per questo che, nonostante le fonti archeologiche e letterarie, molti di noi scelgono l’immaginazione, l’imprecisione della strada poetica, per credere che quelle sacerdotesse, quegli indovini, quei guerrieri hanno vissuto i loro momenti più umani proprio su quel territorio petroso, che ancora cerca di sfuggire alla devastazione moderna.