Da alcuni relatori del convegno tenutosi a Vieste nel 1989, oltre a un libro, Uria Garganica, che per la mancanza delle conclusioni dei relatori e del presidente dei lavori finisce per identificarsi con un falso storico, ha prodotto anche il cattivo gusto di una ingiusta critica a Plinio che persiste tuttora nella letteratura viestana. Capita da sempre che alcuni, volendo piegare la realtà delle testimonianze degli antichi scrittori ai propri teoremi, ricorrano a emendare i testi originari.
Qualche tempo fa un articolo del <Corriere della Sera> ricordava che Plinio era comandante di una nave. Allora lo scrivente ha pensato che come tale, mentre era in giro per il Mediterraneo, Plinio ha avuto contatti con realtà, popoli, culture, ed ha conosciuto molti fatti e nomi che ha poi riportato nella sua Storia Naturale tanto asetticamente da ricorrere all’elenco alfabetico, forse per non dimenticarne alcuno nelle sue trascrizioni, a volte citando lo stesso luogo con nomi diversi. Come è capitato più volte per Vieste.
Letta in questi termini, la Storia Naturale di Plinio resta uno dei tentativi più antichi di raccolta e pubblicazione di notizie in un testo enciclopedico, scritto tra il –23 e il +79 in cui è vissuto e al quale Plinio il genere umano può esprimere solo una profonda gratitudine.
Fra i tanti fatti tramandati da Plinio vi sono alcuni che riguardano la memoria di Vieste che altrimenti sarebbe andata perduta. Uno di questi fatti riguarda i Metinates ex Gargano citati tra i popoli della Daunia da Plinio (Nat. Hist. III. 105. Ed. Einaudi), che testualmente scrive: “Hinc Apulia Dauniorum cognomine a duce Diomedis socero, in qua (..) Metinates ex Gargano”. Cioè “Quivi l’Apulia dei Dauni nome preso dal suocero del condottiero Diomede, nella quale .. i Metinates ex Gargano”. Premesso che l’A-pulia significa senza porta, cioè aperta, che nasce dal Continente Apeira di Omero che aveva come Capitale l’isolata in mezzo al mare grandi flutti Skeria, che dall’indeuropeo sker indica l’approdo, anche del naufrago Odisseo, nella isolata in mezzo al mare grandi flutti e antica città portuale naturale di Vieste in quanto Pizzomunno; Pizzo del Mondo, ora Europa, vasta vista. Che Skeria sia Vieste viene tra l’altro testimoniato dai porti, due, osservati da Odisseo al suo arrivo in città e di fatto esistenti storicamente ed archeologicamente ai lati dell’istmo del viestano Montarone, toponimo di origine greca che da moun(az)- tauro(s)-one(m) conduce a un “peduncolo, o soliduncolo isolato ma non distaccato dalla forma di corna di un toro possente”, insieme con le alte e belle mura della città, osservate sempre dall’incantato Odisseo, perché fatte di pietre squadrate di palmi 8/9 di alteza, di palmi 4 di larghezza e di palmi 2 di spessore che dopo l’insabbiamento causato nei secoli dai venti sono venute fuori sul limite dell’istmo del Montarone periodicamente e dopo abbondanti piogge testimoniate dagli scrittori viestani Giuseppe Pisani nel 1600, Vincenzo Giuliani nel 1680, il sacerdote Teodoro Masanotti nel 1800 e nell’anno 2000 emerse in occasione dello scavo delle fondamenta per l’ampliamento dell’Hotel Mediterraneo, su un cui lato alcuni di questi massi si trovano tuttora depositati. Tanto per essere breve si aggiunge la presenza sul fianco di Vieste del bastione di pietra chiamato “u Puzmume”, toponimo di origine greca proveniente dalla fusione di pougx (leggi punxi) = mergo: uccello acquatico, ma vedi i faraglioni di Monte Pucci di Peschici e la Baia dei Mergoli presso Mattinata, – Momos di mume è il dio greco della risata e della maldicenza. Bastione di pietra che viene minacciato di essere vomitato sul fianco della città di Skeria dal vendicativo Poseidone, ma che Omero segnala come già presente perché a questo stesso bastione di pietra si attaccano in episodi separati sia Eracle e sia il naufrago Odisseo per salvarsi dai marosi provocati da questo dio. A questo si aggiunge la presenza dello Scoglio, di cui il portolano Gratiosus Benincasa (Atlante Nautico del 1435) scrivendo di Vieste aggiunge: “Chananzi sie vn picholo schollietto ebbasso chome vna galea pare lontano” ma che oltre a simboleggiare un’Arca, è la nave dei Feaci, nome omerico derivante dalla luminosità (fai) delle punte (acis) dei corni del
Montarone, Ma nave che al ritorno dall’isola di Itaca, sempre Vieste, viene affondata e pietrificata con una manata del vendicativo Poseidone per ammonire i Feaci a non accompagnare più nessuno dopo averlo fatto con Odisseo riportato all’isola di Itaca. Sempre Vieste, per la presenza dei due corni sui quali poggia la città di Itaca similmente all’antica Vieste che si poggia sui corni del Montarone;per il porto munito di una corrente d’acqua dolce chiamata Aretusa, che è la stessa presente nel porto dei Lestrìgoni con la corrente d’acqua dolce chiamata per esigenze poetiche Artachia, che è la stessa del porto dei Ciclopi al cui interno si trova una polla d’acqua dolce ed è la stessa che fa traboccare d’acqua dolce le acque del porto dell’Isola di Trinachia che portano direttamente al viestano Pantanella, toponimo di origine greca che da Panta-ne(a)el(os)la(às) significa un “completamente-nave-appoggio-rupe”, cioè una “rupe completamente approdo (indeur. sker) di nave”, con l’acqua dolce che tuttora scorre nel Canale della Chiatà, ora canalizzato sottoterra per esigenze abitative, ma che tuttora sfocia nel mare all’interno dell’attuale porto artificiale viestano. Infine per la seconda visita a piedi di Odisseo in compagnia di suo figlio Telemaco, del suo fidato porcaro Eumeo e del suo bovaro Finezio al Regno dei Morti di Omero in cui scorrono tre sorgenti: dette Stige che si fonde con il Cocìto e acque che una volta mescolate si fondono con quella del Piriflegetonte dando origine al finale Acheronte che sfocia nel mare. Tre sorgenti ora anonime che perennemente sgorgano dando origine a un canale, altrettanto anonimo, che tuttora sfocia nel mare di Scialmarino nei pressi della rovinata Merino.
Una volta precisato tutto ciò e considerata la nobiltà della citazione di Plinio e nel cercare la cittadinanza dei Metinati, che di sicuro sono un antico popolo del Gargano, è nata la solita diatriba tra i vari scrittori, compresi alcuni Viestani che, accettando supinamente quello che appare un duplice emendamento al testo di Plinio, hanno avuto tuttavia il merito di sviluppare una piccola letteratura sull’argomento.
Così nel tempo, a colui che sembra l’autore del predetto emendamento, Cristofaro Cellario (Notizie delle Antiche Città) che scrive: “All’estremità del Gargano (vi) è una città, volgarmente detta Vieste, nelle rovine di antico (tempo), & la distrutta città Episcopale di Merino, da cui sono i Merinates ex Gargano di Plinio”.
Seguono il Giuliani (Memorie Storiche di Vieste) che scrive: “L’altra è la distrutta città di Merino, rinvenendosi presso Plinio i popoli Merinnati”, cui si aggiunge il Vescovo viestano pure di nascita Natale Maria Cimaglia (Antichità di Venosa) che scrive: “da qui a coloro che vanno verso il Promontorio del Gargano, si presenta Merino vicino al mare di cui è possibile vedere i ruderi a circa tre miglia dalla città dei Viestani verso settentrione, i quali (ruderi) anche ora conservano il nome di Merino; gli abitanti di questa città sono detti da Plinio Merinati”.
Circa mezzo secolo più tardi, agli inizi del 1800, il sacerdote viestano Teodoro Masanotti (I primi abitatori del Gargano e vicinato), la cui arguta opera meriterebbe una più larga diffusione anche se in questo caso stimola la fantasia dei Mattinatesi scrivendo: “Havvi a levante del Gargano Mattinata, quale nome deriva dall’ebraico siriacoMat-tin (regione fangosa), onde i suoi abitanti fino ai Romani si dissero Mattini, o Mattinates, ricordati da Plinio Seniore, essendo quella campagna tutta fangosa, per lo scolo dei monti circostanti, e per l’aggregazione delle melme, che vi depositano le acque provenienti dalla gran valle detta di Carbonara“.
Quasi ai nostri giorni il deceduto Maestro di Scuola Elementare originario di S. Giovanni Rotondo, Matteo Siena, che spesso ha tratto conclusioni per davvero irreali e che su <Il Faro> del 17. 10. 2003 testualmente ha scritto: “E per chi sostiene che la zona era abitata dai Merinates, o Etinates o Matinates ex Gargano, ricordato da Plinio, in un elenco in ordine alfabetico, dobbiamo pensare ad una popolazione stanziata in Puglia, chissà in quale parte, perché Plinio non cita per nessune di queste popolazioni la localizzazione e, inoltre, quell’ex, per chi ha studiato il latino lo sa molto bene, sta a significare proveniente dal Gargano. Se questa popolazione era ubicata sulla fascia costiera del Gargano, i geografi dell’epoca l’avrebbero ricordato”.
Ma, superando questa strampalataggine poiché in questo caso il complesso significato del latino ex diventa il riferimento a un punto di partenza, di derivazione, cioè di appartenenza dei Metinati all’Apulia dei Dauni e non esclusivamente a un moto da luogo, cioè a una separazione, o ad una dipartita, c’è da chiedersi chi sono per davvero i Metinnates ex Gargano citati da Plinio tra i popoli Dauni? Sicuramente Viestani secondo il loro modo di chiamarsi Vestysane. Per inciso va precisato che la Daunia, antico nome della Puglia, ora ridotta alla provincia di Foggia, ma tempo addietro tutto territorio della aperta sul mare (a-pulia significa senza porta) Vieste. Anche perché i Dauni non prendono il nome da Dauno, suocero di Diomede che sposa sua figlia Euippe: buona cavalla, ma più realmente dalla fusione dei greci dauò: dormo; nyos: a) nuora, b) sposa. Col risultato di una dormiente sposa, cioè distratta, perché pronta per il matrimonio ma non ancora sposata, qual è l’isolata in mezzo al mare grandi flutti Vieste con i nomi della dea greca Estia, poi romana Vesta anche nei panni di Minerva, per la loro comune verginità rimasta perenne. Condizione di illibatezza che si ritrova nella leggenda del bel pescatore Pizzomunno, personificazione del Montarone sul quale poggia la vecchia Vieste, e della sua amata fanciulla, figlia di un locandiere viestano, bella come il Sole di nome Uria. L’attuale Cristalda, infatti, è un nome inventato dall’ex Carlo Nobile in occasione della partecipazione del Liceo Scientifico di Vieste al carnevale di Manfredonia del 1965 con un carro allegorico avente per oggetto la leggenda viestana.
Il nome Uria deriva dalla personificazione dell’emissione perenne di acqua (gr. oureò, leggi ureò) delle poetiche, mitiche e storiche correnti viestane che tuttora sfociano subito nel mare. Si pensi al “per davvero gorgogliante” del Gargaros di Omero come altro nome di Vieste cui si aggiunge il nome di Gargaria dell’Italia di Aristotile. Un dato di fatto che rivela come sia più giusto che avvenga e come di fatto è certamente avvenuto per logica continuità nella creazione di questa leggenda viestana. Il polivalente nome di Uria, fra cui l’equivalente Oriha per una fanciulla pronta per il matrimonio ma non sposata, in quanto isolata in mezzo al molto sciabordio del mare, fu imposto dai Romani poiché il nome Vesta, loro prima dea protettrice e nome romano di Vieste, città da cui dipendono i loro natali e in sostituzione del suo nome greco Estia, non si poteva pronunciare, pena di morte, per motivi strategico-militare-religiosi.
Sull’identità dei Metinates si possono fare due valide ipotesi, una al maschile e l’altra al femminile, secondo l’uso greco (ma della Magna Grecia, cioè dell’Antica Grecia, o della Megale Ellas, titolo usurpato come tutto il resto dall’attuale Grecia), riferendosi innanzitutto a un popolo che, dal suffisso greco ates, significa: è dipendente da, o discendente di, in questo caso Metinna, nome romano del dio greco del vino Methymna che rende etimologicamente compatibili le varianti Metina, Matinna e Matina.
Per quanto riguarda l’ipotesi al maschile si richiama l’identità greca di Metinna come il dio della vite e del vino che trasmette questa arte agli uomini, poiché Methymnaios è innanzitutto un epiteto di Diòniso, detto pure Bacco, nome che significa <dio dai molti nomi> le cui prerogative sono strettamente legate al vino e ai suoi fumi. Il greco Methymna è il dio del vino che ha trasmesso questa arte al pater matutinus Giano, il primo contadino Romano, ma personificazione di Vieste, figlia del Mattino, a coltivare la vite e a produrre vino e per questo tanto noto e amato dagli uomini da essere identificato come un dio. Per questa sua prerogativa, Giano diventa la figura parallela del biblico Noè, il quale dopo il Diluvio Universale durato 40 giorni, come scrive a ragione Enrico Bacco (Il Regno di Napoli diviso in dodici provincie – sic), fondò sul luogo del suo approdo la prima città della rinnovata Terra col nome Vesta in onore della moglie Vesta che, morta durante l’approdo, viene seppellita sullo Scoglio di S. Eufemia, o di S. Eugenia che, non a
caso, ha le stesse approssimative dimensioni della biblica Arca (m 146 di lunghezza, m 25 di larghezza e m 15 di altezza).
Premesso che lo Scoglio viestano è pure l’isola disabitata e tomba di Diomede mentre l’altra diomedea è la falsa isola detta Teuthria: biancastra, per il calcareo Montarone il cui istmo Diomede avrebbe voluto tagiare per renderla una vera isola ma che non riuscì per sopravvenuta morte (Strabone. Italia), questo Diluvio è un fatto derivato dal viestano poeta Omero secondo il quale dopo il Diluvio Greco di 9 giorni di pioggia lo scampato figlio di Minosse, Deucalione insieme con sua moglie Pirra approdano con la loro Arca sul Parnaso. Altura marittima ora accaparrata dall’attuale Grecia, mentre si tratta dell’immerso sul mare Montarone viestano sul quale, secondo Omero, Odisseo venne ferito al ginocchio dalla zanna di un cinghiale durante una battuta di caccia, da cui il nome Ulisse, ferito. A questo si aggiunge che anche lo sbarcato a Vieste Noè fu il primo contadino biblico a coltivare la vite, a produrre e bere vino, tanto che venne spesso trovato ubriaco. Il nome Giano, personificazione di Vieste in qualità di Pizzomunno, proviene dai latini ianua, porta (della Terra), e ianus, passaggio, ma sul sentiero del vasto, largo, alto e forte mare con tre giorni di navigazione verso l’Aurora nel pescoso Ellesponto minacciato dall’indispettito Achille. Ma partendo dalla viestana spiaggia di Scialmarino che è la stessa della Troia di Omero, con l’aggiunta dello scrivente nel considerare il diffuso remoto terrore che si aveva di subire naufragi facendo due soste notturne obbligatorie. La prima presso l’isola di Pelagosa, o Pelagrosa, un’isola fino al 1600 viestana venduta a una famiglia Slava da un Vescovo viestano. La seconda presso l’isola La Cazza, l’attuale Lagosta, anche perché, sempre per Omero, l’Ellesponto veniva chiuso dalla Tracia. Un dato di fatto essenziale per escludere definitivamente il canale marittimo stretto da due terre del Bosforo che, oltretutto, con un percorso Ovest-Sud/SudEst, che astronomicamente non è diretto verso il punto di nascita del Sole nel giorno del solstizio d’Estate, da cui il termine “Greco” mentre tutto il resto è da considerare barbaro, a cominciare dall’attuale Grecia, ma anche perché il Bosforo viene chiuso dal Mar Nero, quindi oltre la Penisola Balcanica, identificata da Omero come Tracia. Infatti il vento detto Grecale a Vieste, figlia del Greco, proviene sempre da Nord-Est che è la stessa posizione di nascita del Sole nel giorno del solstizio d’Estate (il 21 Giugno), in cui sorge esattamente da dietro la punta di Nord-Ovest dello Scoglio del Faro e vento che i Montanari tuttora definiscono il Vento di Vieste.
Giano che come figura parallela di Noè (noi!) va identificato pure con il greco Pilunno (portone), re e dio del Gargano ma personificazione di Vieste in quanto Pizzomunno, come porto di approdo, di passaggio, sul mare dall’occidente all’oriente e viceversa; un sentiero da e per il mare. Vieste, che con la presenza di Methymna rivela origini antecedenti la cultura biblica e che come Uria era famosa anche per le cure della vite e per il suo buon vino che veniva esportato in ogni angolo della vecchia Terra.
La versione femminile di Methymna invece conduce al culto della greca Artemide, presente archeologicamente a Vieste nelle epigrafi della grotta del Faro, o di (S.) Eufemia, o di (S.) Eugenia, che inneggiano all’omologa latina Venere Sosandra, cioè ausiliatrice di uomini veri, forti; ossia la dea Venere di prima maniera le cui prerogative, prese in parte dalla precedente dea protettrice di Roma Vesta, furono dai Romani in un secondo momento trasferite alla loro dea Minerva, la figura parallela della greca Pallade Atena, la cui protome appare continuamente effigiata sulle antiche monete coniate dalla autonoma zecca viestana. Inoltre, con l’epiteto di Metimnese, Artemide si identifica con una vergine baccante che trova la sua diretta parallela nell’altra baccante Myrina (ora Merino) che Omero definisce “molto balzante” assumendo i panni della Gran Madre Fertile. In pratica la Luna che si muove nel cielo più del Sole e che con i suoi quarti provoca le maree e le conseguenti piogge che rendono più fertile la Terra. Una versione che, oltre la vicinanza tra Vieste e Merino, renderebbe curiosamente analoghi i Metinates e i Merinates. Tutto ciò, se da una parte rivela l’origine indeuropea di Merino, peraltro confortata anche dal
nome indoeuropeo Vesta (cinta, incinta, fortificata – da rupi) qual’ è Vieste, dall’altra non ci farà mai conoscere quanto sia intenzionale l’indovinato emendamento dei Methymnates con i Merinates del Cellario, anche se si tratta di nomi inerenti un’unica realtà Viestana.
Indipendentemente dal genere di Methymna, la sua radice sanscrita madhu, greca methy, indica una bevanda inebriante, appunto il vino che è tuttora presente, per esempio, nella imprecazione dialettale viestana: <mannagghie a la madosche>, per alcuni, <mannagghia a la mèdosche (gr. methuscò)” per altri, che quindi significherebbe: “mal n’abbia l’ubriacatura”.
Inoltre, nel verbo greco methyò da cui i Methymnates, compaiono significati che anticamente distinsero i Viestani, quali: l’essere molli, snervati, abbandonati, isolati, perduti, caduti in rovina, come pure l’essere impregnati di acque marine, soprattutto per i marosi del latino aestus dei Vestysane. Come pure per le acque sgorganti dalle gole delle varie correnti d’acqua viestane e infine l’essere inebriati. Ma l’essere inebriato, l’essere fuori di sé, l’andare in bestia, donde il nome dantesco di Terra di Bestia ora erroneamente emendato in Terra di Bari, non è soltanto opera dei fumi del vino, ma anche di quelli derivanti dalla passione, dal tormento dei continui movimenti dei venti e del mare che trovasi nell’indeuropeo ur, nell’indoario urja, nell’ebraico fenicio hyr (da cui Hyria per Vieste), nei latini uro ed aestus.
In parte simile al greco metyò, il latino aestus e una voce onomatopeica che sta anche per il caratteristico sciabordìo delle onde del mare sospinte dai venti verso lo Scoglio e le due punte del Montarone durante le forti mareggiate e che è tuttora presente nel caratteristico modo viestano di chiamarsi <V(i-a)estysane>, che li identifica come <figli dell’aestus più alto e/o più antico> cui va aggiunto l’equivalente sentiero solstiziale estivo da cui l’attuale nome di Vieste anche come figlia del Greco, o Greca, che per sua estensione genera la Magna Grecia. Anche l’italiano antico esto significa la sofferenza, la pena presente negli svariati significati di Uria e molto bene descritta dal Giuliani quando dell’aestus dei Vestysane e del methyo dei Methymnates ex Gargano, similmente allo sciabordio delle alte ondate che infestano la Skeria di Omero, scrive: “In un tempo stesso, situata a guisa di una punta all’estrema falda de’ monti, vien dominata da contrari venti; e si osserva in tempo di bonaccia che le acque del mare portate sono in parte contraria, senza che s’impedischi fra loro il corso e la fluttuazione, per dividersi quivi i venti, e due venti spirano nel tempo stesso (.) Non vi sono valli per cui l’aere rincarcerato venghi; ma bensì di una amenità di colli godendosi, per essere, città dominata dai venti, l’aria sbattuta e ripercossa è in continuo moto”.
Prof. Giuseppe CALDERISI, nato a Vieste il 01.02.1943