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NEL RACKET DELLA MAFIA ESISTE IL METODO FOGGIA. I GIUDICI: ESTORSIONE AMBIENTALE, QUI IL PIZZO SI RISCUOTE CON LA PAROLA

Esiste un «metodo Foggia» nel panorama estorsivo italiano, quella che i magistrati definiscono «estorsione ambientale», in cui basta la parola che evoca la ferocia dei clan per incassare il pizzo, senza dover necessariamente ricorrere a avvertimenti. La sentenza pronunciata il 25 ottobre dal Tribunale dauno nella tranche foggiana del processo «Decimabis» a 12 imputati con altrettante condanne a 130 anni di carcere per mafia, estorsioni, usura ha ribadito la centralità del racket per la «Società foggiana».

Come è sempre stato, sin dalla sua fondazione nei primi anni Ottanta sino a oggi. Se alle origini i mafiosi puntavano su una vittima per volta, costruttori essenzialmente, pretendendo tangenti miliardarie arrivando anche a uccidere, adesso le richieste si sono abbassate (da 500 euro a 4mila euro mensili, cui aggiungere l’una tantum che può arrivare a 50mila euro pretesa da alcuni estorti) ma la platea delle vittime riguarda tutte le categorie produttive: costruttori, commercianti, imprenditori, titolari di bar, discoteche, autodemolizioni, pompe di benzina, agenzie di pompe funebri, concessionari d’auto, artigiani, ambulanti e persino fantini perché tra gli interessi dei clan ci sono anche le scommesse sulle corse ippiche, puntando sul sicuro previa minaccia di chi gareggia.

Il metodo foggiano Il pm della Dda Bruna Manganelli nelle 781 pagine della requisitoria depositata nel processo concluso 6 giorni fa che ha visto i giudici accogliere quasi integralmente le richieste dell’accusa, si è soffermato a lungo sul «metodo mafioso foggiano, riconoscibile in quel porsi in modo amichevole nei confronti delle vittime delle estorsioni.

Nel presentarsi come interlocutori benevoli; creditori disponibili, pazienti, disposti a concedere un piccolo sconto, ma inflessibili nella riscossione del pizzo; consapevoli della propria forza di intimidazione e della conseguente condizione di assoggettamento della vittima. Chiaramente nel caso di vittime riottose, o non perfettamente a conoscenza della Società foggiana come può essere per imprenditori forestieri, non si esitava a ricorrere a metodi intimidatori più espliciti, come svelato dalle intercettazioni: ceffoni e avviso a un imprenditore di fuori provincia: prepara 50mila euro e 4mila euro al mese, se no ti devo uccidere».

L’estorsione ambientale «La sistematica, generalizzata e incessante pressione estorsiva della Società» (l’analisi del pm) «va di pari passo col diffuso e radicato senso di omertà. Caratteristiche che nel tempo hanno profondamente condizionato i caratteri della relazione tra estorsori e estorti, favorendo un progressivo passaggio da un modello tradizionale fondato sulla minaccia esplicita e sulla violenza diretta e immediata, a un metodo molto più subdolo e insidioso qual è l’estorsione ambientale, in cui il radicamento del sistema mafioso fa sì che non sia più necessario da parte degli associati fare continuo ricorso a esplicite minacce e violenze, essendo sufficiente in questo particolare contesto ambientale poter contare esclusivamente sulla carica intimidatoria insita nella fama criminale».

Nemici ma complici In ragione di questa unità di vedute, estorsive, «e pur a fronte di una endemica contrapposizione per la leadership, le batterie Moretti/Pellegrino/Lanza e i rivali Sinesi/Francavilla convergono nella partecipazione alle estorsioni. Vista l’impossibilità di dividere Foggia in zone di competenza di una singola batteria con conseguente autonomia nella gestione territoriale, a causa del concreto rischio di non rispettare i patti e far scoppiare nuove guerre e provocare altri omicidi, i clan – ha rimarcato il pm – hanno deciso di gestire in comune le attività estorsive».

La cassa comune Nacque da questa pax mafiosa la decisione dei clan di creare una cassa comune dove far confluire i proventi degli affari illeciti – secondo il pentito Patrizio Villani ogni mese pizzo e droga fruttano circa 220mila euro – per pagare stipendi mensili agli affiliati, mantenere detenuti e loro famiglie, sostenere le spese legali. La lista delle vittime del racket con le somme estorte e quella dei mensili riconosciuti agli affiliati, fu sequestrata il 18 dicembre 2019 in casa di un mafioso grazie alle rivelazioni di Carlo Verderosa pentitosi qualche ora prima.

Volevano uccidere poliziotti Ma se la «Società foggiana» mostra una faccia… amichevole alle vittime del racket, non dimentica certo la propria «matrice violenta e spavalda, emersa anche dalla volontà di colpire le forze dell’ordine e di uccidere un ispettore della squadra mobile», per vendicarsi delle sue serrate indagini, come sottolineato dalla Dda. Progetti di morte rimasti tali svelati dai colloqui tra alcuni mafiosi registrati dalle microspie: «dovevamo uccidere…» (seguono i nomi di due poliziotti); «bastardo in faccia, quel cornuto di… lo dovevo sparare in testa, ora gli devo accendere l’auto».

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