Soffermarsi davanti alle immagini che raffigurano la passione di Cristo è una devozione molto antica della Chiesa. I cristiani si recavano in pellegrinaggio a Gerusalemme proprio per pregare nei luoghi in cui il Signore aveva vissuto le ultime ore della sua vita terrena e dove il suo corpo era stato deposto dopo la morte. Tornati dal lungo viaggio, volevano tenerne vivo il ricordo: ecco perché commissionavano a un pittore o a un ceramista di raffigurare gli eventi della Passione del Signore, la cosiddetta “Via Crucis”.
In tal modo anche coloro che non potevano recarsi in Terra Santa erano in grado, guardando queste scene, di “rivivere” la passione di Gesù. Fermandosi a pregare davanti a ogni stazione, il fedele si sentiva un suo discepolo, uno di quella schiera che lo seguiva a distanza, fedelmente, e talvolta anche infedelmente. La pratica della Via Crucis si affermò nel primo trentennio del Settecento. Il merito va ai grandi predicatori missionari: Sant’Alfonso de’ Liguori, San Paolo della Croce e San Leonardo da Porto Maurizio.
La “missione” fu, senza dubbio, uno dei più importanti eventi religiosi della storia della Chiesa. Vi ricorrevano gli stessi vescovi per portare una parola di fede in mezzo alle rudi popolazioni contadine, vissute per secoli nella superstizione. Le “missioni” erano un fatto popolare, coinvolgevano emotivamente paesi interi per alcune settimane, e l’evento era ricordato a lungo dai fedeli. Il ritmo della vita ordinaria era rotto dall’arrivo dei “Padri”, che si impegnavano in un duro lavoro pastorale per farsi capire, suscitare un’emozione religiosa, introdurre un clima di fede spontanea e immediata. La chiesa diventava il luogo delle pubbliche confessioni e del perdono: lì accadeva qualcosa di nuovo che si sarebbe ricordato per generazioni.
I cristiani del mondo occidentale sono rimasti, attraverso i secoli, molto legati al rito della Via Crucis divulgato dai missionari. Le confraternite peschiciane del SS. Sacramento e del Purgatorio ripetono, nelle domeniche di Quaresima antecedenti la Pasqua, la versione di Sant’Alfonso de Liguori (1696-1797). Tramandata per generazioni e generazioni, la Via Crucis di Peschici ha conservato in gran parte ritmi e cadenze antiche e presenta sfumature originali che è bello cogliere e gustare.
Il contenuto fa riferimento alle singole raffigurazioni della Passione di Gesù. Riassume l’idea del pellegrinaggio e della sacra rappresentazione: le meditazioni davanti alle singole Stazioni, officiate dai confratelli, sono intervallate da “quadri cantati”. Voce narrante è un pellegrino, il quale segue la passione di Gesù: “Signore, con te vorrei oggi portare la Croce, nel tuo atroce dolore, vorrei seguirti. Ma sono malato e stanco, dammi tu il coraggio per non smarrirmi nel grande Viaggio”. I “quadri” più significativi sono quelli che focalizzano il ruolo della Madonna durante la Passione del Figlio. Nella IV Stazione avviene il primo incontro con Gesù. Ricca di pathos è l’immagine del pianto della madre, che “gira tra la gente” in cerca del suo “perduto ben”.
La VII Stazione rappresenta Gesù che cade per la seconda volta. La voce narrante commenta: “Sotto i pesanti colpi della scellerata scorta, un nuovo ostacolo fa inciampare e cadere a terra il mio Signore” ed esorta i sassi, che ostacolano il cammino di Gesù, a essere più pietosi degli uomini: “Più teneri dei cuori degli uomini siate voi, o duri sassi, non ingombrate più i passi al vostro Creatore!”.
La IX Stazione ci fa rivivere il drammatico momento della terza caduta, provocata a Gesù dal pensiero che la sua salita sul monte del dolore, il suo sacrificio, saranno forse inutili. Originale è la personificazione dell’ispido Monte Calvario che, profondamente commosso, osserva la scena: “L’aspro Monte guarda il Redentore sofferente, sa che per molti la sua salita sarà inutile, il suo sacrificio vano. Quest’orribile pensiero così al vivo gli tocca il cuore, che languido gli trabocca e si sente morire”.
La XI Stazione – Gesù inchiodato in croce – è senz’altro la sequenza più drammatica di tutta la Passione. La “voce narrante” ci descrive i particolari: “Vedo il mio Diletto disteso sul duro tronco della Croce; e aspetto il primo colpo della sacrilega crudeltà. Quelle mani divine, tanto perfette che sembrano levigate al tornio, ahimé il martello le inchioda, senza pietà”.
La scena è visualizzata (come tutte le altre d’altronde; ndr) nella relativa stazione della Via Crucis realizzata in stile Bauhaus da Alfredo Bortoluzzi per la Chiesa Madre di Peschici. Fu l’ultima tela a essere eseguita dall’artista e senz’altro la scena più difficile da realizzare. Quando don Giuseppe Clemente, arciprete del tempo, nel contare le tele si accorse che mancava proprio la Crocifissione, lo fece notare al pittore. Bortoluzzi rispose: “Non è che manca, ma ci vuole molto tempo per convincere me stesso a eseguirla, perché mettere dei chiodi alle mani del Cristo non è poca cosa”. Gli sembrava di uccidere Gesù per la seconda volta, di commettere un’azione empia nei confronti dell’«uomo Dio».
Nella XII Stazione, il Sole, la Terra, il Cielo, perfino i marmi si personalizzano per poter piangere la morte di Gesù: il Sole non vuole assistere a questo orrendo spettacolo, si oscura in segno di dolore. La Terra, commossa, trema, il Cielo è spezzato dai fulmini; piangono persino “i marmi più duri”.
Nella XIII Stazione c’è la sequenza più drammatica, che dà vita al “Planctus Mariae”, col personaggio-chiave della Via Crucis: la Madonna Addolorata che tende le braccia verso il Figlio appena deposto dalla Croce. Afflitta prende in grembo il suo “morto ben”, attraverso gli occhi “riversa il suo cuore ormai sciolto in lacrime”, bacia quel freddo Volto e se lo stringe al seno. Un’immagine toccante: nella metafora del cuore che si scioglie in lacrime e quindi sgorga attraverso gli occhi, in questo bacio sul freddo volto del suo amato bene, in questo prendere in grembo e stringere al seno il figlio morto, la Madre divina si umanizza e diventa simbolo della sofferenza di tutte le mamme quando perdono un figlio.
Nei riti funebri di Peschici e dell’area garganica è presente questa figura di madre che, sul letto della morte, piange il proprio figlio, descrivendolo come una persona ideale. E continua a parlare con lui, di quello che ha fatto, magnifica la bellezza del suo corpo perfetto, in un disperato tentativo di negare la realtà della perdita irreparabile, di accettare la realtà della morte.
La sera del Venerdì santo, due cortei processionali, uno con la statua del Cristo morto, accompagnato da tutti gli uomini del paese e l’altro con la statua dell’Addolorata seguita dalle donne velate a lutto, percorrono nei due sensi, senza incontrarsi, le vie del centro storico e del paese. Si incontreranno alla fine, sotto la Torre del Ponte, all’ingresso del borgo antico. Il sacerdote reciterà un’accorata omelia che ha per tema il dolore della Vergine Addolorata che ha finalmente ritrovato il figlio morto dopo una lunga e affannosa ricerca. E’ questo il punto culminante del dramma della Settimana Santa: il sacerdote svolge in tal modo una parte importante del “lavoro del dolore”, la cosiddetta “elaborazione del lutto”.
L’omelia del sacerdote ha una funzione di rinforzo del “Planctus Mariae”, cioè del pianto della Madonna Addolorata per il figlio morto, cantato dalle donne alla fine della Via Crucis e durante la processione. “Stava Maria dolente”, libera versione italiana dello “Stabat Mater” di Sant’Alfonso De Liguori, ha l’andamento di una nenia: la melodia si snoda nella forma caratteristica del lamento, con tutti i suoi aspetti terapeutici. Le donne, eseguendo il ‘planctus’, sanno trovare parole, suoni e gesti per svolgere il loro personale “lavoro del dolore”. Lamentano la perdita del Cristo che rappresenta simbolicamente le proprie perdite.
Trovare i modi per “dire” il dolore attraverso parole, gesti e suoni, è il primo passo verso la sua trasformazione, il suo superamento e la reintegrazione nella realtà delle persone colpite dal lutto. Ed è l’esperienza del dolore che rende l’Addolorata una figura così umana, così vicina a tutte le donne del Mediterraneo cristiano che si trovano alle prese con la sofferenza nella loro vita quotidiana. Non possiamo dimenticare la massiccia incidenza del fenomeno dell’emigrazione in questa regione che ha rinforzano la grande sensibilità femminile di fronte ai temi del distacco e della perdita. Una bella raccolta di “pianti di Maria” effettuata da Tullia Magrini, musicologa dell’Università di Bologna, la quale ha studiato testi e canti dell’area calabra e sarda, conferma questo dato.
Chiudiamo con una piccola nota etnografica: le donne di Peschici, come quelle pugliesi e dell’intero Sud, per ornare i sepolcri, mettono alcune piante di grano in una camera senza luce in modo che perdano il colore naturale e diventino il simbolo del corpo morto di Cristo. Queste piante, poste in piccoli vasi, sono collocate nei sepolcri o sugli altari assieme alle statue di Cristo Morto e della Madonna Addolorata. Rappresentano il grano che non è potuto crescere, le vite precocemente spezzate da secoli di fame e povertà.
teresa maria rauzino