Oggi 16 agosto 2024 ricade il 100 anniversario del ritrovamento del cadavere di Giacomo Matteotti, il deputato socialista unitario brutalmente assassinato il 10 giugno 1924 dagli squadristi fascisti della Ceka assoldati da Mussolini, e ritrovato 16 agosto 1924 a Riano Flaminio nel bosco della Quartarella, a una ventina di chilometri da Roma.
È significativo leggere la cronaca di questo triste evento nelle pagine della “Cronistoria” scritte dal giudice Istruttore del Processo Matteotti: Mauro Del Giudice.
«Il lavoro istruttorio cresceva di giorno in giorno ed aveva raggiunto una mole imponente. Il numero degli imputati aveva oltrepassato la cifra di trenta, tutti detenuti, venti dei quali, dopo l’esame di numerosi testimoni indotti, dovettero essere scarcerati per mancanza di seri elementi di prova.
Verso la metà del mese di agosto fu rinvenuto il cadavere di Giacomo Matteotti, il quale era stato seppellito in una vecchia carbonaia della selva detta “La Quartarella”, di proprietà di un principe romano, sito sulla via Flaminia, nelle vicinanze del cimitero di Riano, a una ventina o poco più di chilometri lontano da Roma.
Ci dovemmo recare sul posto per il riconoscimento della salma e il lavoro di autopsia della stessa.
È impossibile descrivere lo spettacolo che offriva quell’ammasso informe di carne umana e il puzzo orrendo che, sotto il solleone, si sprigionava da quella fossa, dalla quale venne estratta la misera salma dell’infelice deputato socialista. Facemmo trasportare quelle spoglie nel cimitero di Riano e rimandammo al giorno dopo le operazioni di autopsia.
Durante le operazioni dei periti, dottori Massari e Belluzzi, non potendo reggere al fetore insopportabile, lasciai Tancredi a presenziare alle operazioni dei periti settori ed andai a sedermi nel punto opposto del cimitero, all’ombra dì un grande albero, sopra un mucchio di grosse pietre, colà accumulate.
Fra i cinque o sei deputati socialisti, chiamati per il riconoscimento, vi era l’on. Filippo Turati, capo del gruppo socialista alla Camera ed amico intimo di casa Matteotti. A un certo momento, Turati si avvicinò a me e, sedutosi anch’egli su quelle pietre, mi rivolse la parola dicendomi: “Signor Presidente, avrebbe mai creduto che saremmo giunti a siffatti tempi?”.
Gli risposi sottovoce, nella tema che persone, le quali si potessero trovare dietro il muro del cimitero, ascoltassero il nostro discorso: “Verranno tempi ancora più calamitosi di questi. Ascolti questo mio fraterno consiglio: cerchi al più presto possibile di varcare la frontiera e si vada a rifugiare all’estero. Però non dica a persona alcuna di avere ricevuto da me questo consiglio, per motivi facili a comprendersi”.
Poi continuammo a parlare a lungo intorno alla situazione politica.
Non mancai fargli comprendere essere stato un grave errore l’abbandono del campo della lotta, dopo l’assassinio di Matteotti, come avevano praticato le opposizioni riunite, composte di deputati socialisti popolari e repubblicani, attendate sul Monte Aventino.
Bisognava invece rimanere inchiodati nell’aula della Camera, mettendo in stato di accusa Mussolini, quale mandante nei reati di ratto ed assassinio di Matteotti e, in ogni caso, iniziare l’ostruzionismo, cercando in questo modo di scuotere l’apatia in cui era caduto il popolo, trascorsi i primi giorni di indignazione e di protesta collettiva e, nello stesso tempo, lavorare fuori della Camera con ogni mezzo di propaganda per spingere le masse alla sollevazione.
Così, dicevo io, si erano regolati i francesi nella loro grande Rivoluzione ed erano riusciti a sbarazzarsi della Monarchia. Egli conveniva in parte in queste mie idee, sembrando quasi pentito di avere aderito all’aventinismo.
Avevo consigliato a Turati di porre in salvo, con la fuga, la propria vita perché, attraverso i risultati istruttori e da qualche frase, sfuggita di bocca a qualcuno dei testi esaminati dopo la chiusura del verbale, ero venuto a conoscenza che, qualora l’assassinio di Matteotti fosse riuscito secondo i piani della Ceka, uguale sorte avrebbero subìto esso Turati, Modigliani, Don Luigi Sturzo, ed Alberto Giannini; quest’ultimo perché sul “Becco Giallo” (rivista satirica degli anni Venti ndr) poneva in atroce caricatura i principali gerarchi fascisti, e particolarmente Mussolini, Farinacci ed Acerbo, esponendoli all’odio e al disprezzo pubblico con l’arma terribile del ridicolo.
Circa una dozzina di giorni prima dell’assassinio di Matteotti, un foltissimo gruppo di facinorosi, guidati da Giovanni Marinelli, s’era recato sotto la terrazza del Circolo della Stampa in piazza Colonna per fare una clamorosa e minacciosa dimostrazione contro i giornalisti di opposizione. Alle urla dei dimostranti erano usciti sulla terrazza i giornalisti che in quell’ora si trovavano al Circolo e fra di essi c’era Alberto Giannini.
Alla vista dell’odiato direttore del “Becco Giallo”, il Marinelli con voce stentorea aveva gridato: “Giannini, preparati la bara, preparati la bara!”.
Se il piano, preparato con tanta diabolica cura, di rapire e fare scomparire per sempre il cadavere di Matteotti, fosse riuscito, gli altri personaggi avanti menzionati, avrebbero subìto eguale sorte, fino a che i più accaniti oppositori di Mussolini fossero scomparsi. Ma, come dice l’adagio popolare, il diavolo insegna a fare la pentola ma dimentica il coperchio: il piano prestabilito dalla Ceka di Mussolini, Marinelli e compagni fallì per impreveggenza degli esecutori materiali del delitto.
La vettura automobile prestata da Filippelli agli assassini, come risultò pienamente accertato da elementi di prova generica e specifica, al momento della sua partenza da Roma aveva una provvista di benzina sufficiente per un percorso di oltre quattrocento chilometri.
Il che conferma solennemente la voce sparsa per Roma fin dai primi giorni del delitto. Si diceva infatti insistentemente che i sicari avevano avuto ordine, rapito il deputato socialista, di conservarlo in vita fin tanto che non avessero raggiunto qualche foresta dell’Umbria, colà trucidarlo e seppellirne il cadavere nel punto più nascosto e recondito, in modo da renderne impossibile la scoperta. E invece, che cosa accadde?
Matteotti fu ucciso dopo appena due o tre chilometri di strada ed il sangue della vittima, abbondantemente versato, imbrattò l’interno dell’automobile, le mani ed anche parte degli abiti degli assassini. Costoro, inoltre, che non avevano avuto l’accorgimento, prima della partenza da Roma, di fornirsi di una solida zappa per potere scavare il terreno fino alla profondità di tre o quattro metri, pensarono di non proseguire più oltre il viaggio e si fermarono nel bosco della Quartarella, di proprietà di un principe romano, in un punto ove non potevano essere scorti da persone che transitavano sulla strada rotabile Roma-Riano-Civitacastellana.
Venuta la sera, seppellirono la misera salma in una vecchia carbonaia posta a quaranta o cinquanta metri dalla strada rotabile, servendosi, per scavare il terreno, di alcuni ferri della stessa vettura automobile. Ripartirono poi per Roma, dove giunsero poco prima delle ore 22. Dumini e Putato, lasciata la vettura nell’atrio del Viminale affidata alle cure di un fedele fascista, si recarono all’Ufficio direzione del “Corriere Italiano” a raccontare i fatti rivelatici poi da Filippelli nel suo interrogatorio e confermati nei due confronti col Dumini».
Pagine tratte da “Il Magistrato che fece tremare il Duce. Mauro del Giudice: Memorie e Cronistoria del processo Matteotti” a cura di Teresa Maria Rauzino, Amazon 2022.
Link https://www.amazon.it/magistrato-che-fece-tremare-Duce/dp/B0BGKZD42C