“Sanno rispondere a tutto. Ma contano le domande”. Come le macchine sono diventate intelligenti senza pensare in modo umano.
Nello Cristianini è un fisico che da anni si occupa di informatica, in particolare di machine learning. È professore di Intelligenza artificiale all’Università di Bath. Nel suo saggio La scorciatoia (il Mulino, pagg. 216, euro 16), che presenterà al Salone del libro di Torino giovedì 18 maggio (ore 12.15, Sala Rossa), spiega «Come le macchine sono diventate intelligenti senza pensare in modo umano». In collegamento Skype da Bath ascolta le risposte che la chat di intelligenza artificiale ha scritto alle domande del collega Matteo Sacchi (una su tutte: se potrà mai prendere il nostro posto), che avete letto nella pagina qui accanto, e dice: «Non ci ha detto niente… Del resto, povera macchina, che cosa può dire?».
In che senso povera macchina?
«È addestrata a rigurgitare testi, a partire da altri testi che le sono stati forniti: non può neanche capire la domanda. Ma è sbagliata l’idea di qualcosa più o meno intelligente dell’essere umano».
Che cosa c’è di sbagliato?
«L’intelligenza non è come la temperatura dell’acqua in una pentola. Ha così tante dimensioni che non può essere confrontata: è più intelligente il corvo o il polpo?»
Dipende?
«Esatto. Dipende dall’ambito e dall’ambiente. In fondo al mare, l’intelligenza del corvo non serve a nulla. Ma il punto è questo: l’intelligenza non è una capacità esclusiva dell’essere umano. È la facoltà di comportarsi in modo appropriato in situazioni nuove, non previste, quindi tutto dipende dall’ambiente in cui sei».
Il risultato qual è?
«Che l’intelligenza è più importante per la gallina per attraversare la strada, che per il poeta per scrivere i suoi versi. Però noi pensiamo di avere una forma generalissima, universale e suprema di intelligenza, così come abbiamo pensato, per secoli, che la Terra fosse il centro dell’universo».
Questo però significa anche che l’essere umano non è solo la sua intelligenza, bensì molto di più?
«Certo. Non ricaviamo la nostra dignità dalla nostra forza fisica o dall’intelligenza: la potenza del gorilla o la memoria spaziale dello scoiattolo non ci tolgono valore. Questa confusione va chiarita, per eliminare le tentazioni antropomorfiche: smettiamo di cercare l’intelligenza umana ovunque e accettiamo che Amazon, Facebook o Youtube abbiano una loro forma di intelligenza, che riesce a fare il suo lavoro e che migliora strada facendo. Solo così sapremo che cosa aspettarci dalle macchine e come trattarle».
Ovvero?
«Una cosa è dire a ChatGpt di non discriminare, un’altra è capire come funziona e, quindi, che non ha nulla dentro di sé per capire che cosa le stiamo dicendo. È come ordinare a Youtube di non mostrare filmati cospiratori a un ragazzino: non può capire. Quindi: l’intelligenza è una facoltà non esclusivamente umana; le macchine hanno questa facoltà; questo meccanismo, che è in Youtube, Facebook o TikTok, non implica autocoscienza e comprensione del contesto».
Quindi come dovremmo trattare le macchine?
«Regolamentandole. La macchina farà tutto il possibile per raggiungere il suo scopo, ovvero far collegare quel ragazzino, senza preoccuparsi se abbia poi problemi emotivi o di dipendenza».
Come si può regolamentare l’Ia?
«Con le leggi. Al Parlamento europeo c’è una proposta che suddivide i casi di uso di Ia in quattro categorie di rischio. E secondo me è intelligente perché non regola la tecnologia, bensì il suo uso».
Che cos’è la «scorciatoia» del titolo?
«Tre modi, semplici, per capire queste macchine. Primo, la macchina è diventata sovrumana, in certi ambiti: il gioco del Go, la dama, gli scacchi… In ogni gioco da tavolo, la macchina è migliore del migliore degli umani. Così come nel ricordare numeri di telefono e, presto, alla guida delle auto. È così: non sarà questo che ci rende speciali».
Secondo?
«Abbiamo provato a programmare le macchine secondo regole logiche e grammaticali, ma non ha funzionato. Abbiamo iniziato a trarre dei vantaggi quando, dentro le macchine, abbiamo inserito meccanismi statistici. È così che funziona ChatGpt, attraverso un modello di linguaggio statistico basato su miliardi di testi grazie a cui essa genera testi, riassume, traduce… E, per farlo, servono dati, cioè testi, esistenti in natura: ChatGpt si è letta tutto quello che c’è sul web. È una scorciatoia che fa venire le vertigini, e che spiega, anche, perché abbiamo problemi, visto che prende le frasi da ciò che trova su internet».
Terza scorciatoia?
«Per capire gli interessi e gli scopi dell’utente, la macchina lo osserva. Non gli fa domande: guarda quello che fa, si ricorda tutto, e da lì cerca di offrirci quelle cose che, in passato, ci hanno spinto a cliccare. Perciò, se rivelo le mie debolezze, le sfrutta per ottenere dei clic: se sono sensibile ai titoli scandalistici, alla violenza, alla pornografia o alle cospirazioni, ne riceverò sempre di più. Ma una dieta così cambia la persona».
Scrive che, per coesistere con l’Ia, ci servono «anticorpi culturali». Quali?
«La risposta non è la tecnica. È un’illusione che un algoritmo possa bloccare le fake news, o capire che un contesto non è adatto a un bambino. È la cultura che deve risolvere. Non sarà un gruppo di ingegneri a imporre i propri valori. Credo che per le risposte alle domande più importanti ci vogliano il fisico, il filosofo, l’umanista, l’avvocato, il politico: la sfida del futuro è mettere tutti insieme».
I rischi però restano?
«Sì. Ma non puoi regolamentare in modo sbagliato quello che non esiste. Il robot che ci insegue o la macchina autocosciente che si vendica sul suo creatore sono cose interessanti, ma che non accadono. Uno sciame di cavallette che invade il mio orto e mangia tutti i miei broccoli è un pericolo molto più vicino, ed è un tipo di intelligenza con cui non posso discutere. Allo stesso modo, l’idea di ragionare con la macchina non è razionale: con YouTube o Facebook non ci si parla».
Quindi l’Ia prenderà il nostro posto oppure no?
«In certi casi sì, ed è un bene: per selezionare le email, o per fare lavori pericolosi o degradanti. Ma una conversazione con la macchina non la farei».
La macchina spesso dà – molto velocemente – le risposte giuste, ma lei scrive che è molto più importante porre le domande giuste.
«È qualcosa in più dell’intelligenza: è creatività, è spirito umano, ed è qualcosa che ci dà speranza. C’è gente che guarda il mondo come è, lo vede come potrebbe essere e si chiede come lo si possa cambiare: e questo la macchina non credo possa farlo, così come comprendere in modo empatico, mettersi nei panni altrui, crescere i figli…».
eleonora barbieri