Menu Chiudi

NEL GARGANO DEI GRANDI VIAGGIATORI (5)

Nelle Puglie

1882

“Anche noi ora, nel maggio dell’anno 1874, andiamo in pellegrinaggio sul Gar­gano”, con queste parole di esordio lo storico tedesco Ferdinand Gregorovius (1821 -1891) dà finalmente appagamento al desiderio di conoscenza dei luoghi dell’apparizione arcangelica.

Il viaggio per le terre del “Promontorio sull’Adriatico, il vero Hagion Oros dell’Oc­cidente”, di cui è straordinario emblema il racconto L’Arcangelo sul Gargano, viene affrontato dal Gregorovius con il fratello e con Raffaele Mariano. Tradutto­re dei resoconti di viaggio, quest’ultimo fa precedere il volume da sue ampie “noterelle”, che scatenano una vivace polemica su Puglia e Pugliesi.

Sulle tracce degli Svevi, come fanno negli anni l’inglese Janet Ross e il direttore dell’Istituto Storico Prussiano a Roma Arthur Haseloff, il Gregorovius rimane tra i viaggiatori di più alta sensibilità e cultura storica.

L’Arcangelo sul Gargano

In sul primo albeggiare del 17 di maggio eravamo già usciti in carrozza da Manfredonia. L’umanità pellegrinante ha trovato modo di compiere anche i suoi uffici religiosi più comodamente che non facessero gli antichi progenitori. Al promontorio, dove un tempo non si saliva che a piedi o sull’asino, ora si va per una spaziosa strada carrozzabile, tagliata nel calcareo alabastrino, la quale conduce sino in cima del monte, alla città dell’Arcangelo. Da Manfredonia al principiar dell’erta s’impiega un’ora circa; e di qui poi, sino alla grotta, occorro­no ancora due ore.

La strada comincia attraversando le estese e deserte campagne che costeggia­no il golfo, e passa accanto a pochi oliveti e ad alcuni poderi, le cui fattorie devono quasi tutte l’origine loro a vecchie torri medievali. Innanzi a noi il pro­montorio, che di mano in mano s’erge sempre più maestoso. Le sue immani rupi rossastre si spingono molto innanzi nel mare, e chiudono a ridosso e na­scondono la rada di Viesti, dove una volta sorgeva un tempio di Vesta. Qui il Gargano piglia proprio le forme di un promontorio, del vero sperone d’Italia, quale comunemente si usa chiamarlo. Guardato da Foggia o da San Severo, apparisce invece non come un capo, ma come una fila lunga di montagne che non ha estensione minore di trentasette miglia. Quando in sulla sera s’imporpora tutto delle tinte calde del sole cadente, lo si crederebbe una rocciosa parete fiam­meggiante, messa dagli Dei a custodia di un paradiso.

Ma la massa, in realtà, forma un sistema compiuto di monti e di valli del circuito di centoventi miglia. Dal lato del settentrione va leggermente digradando sino alle coste pianeggianti, dove si formano i due laghi di Lesina e di Varano. Attraverso il primo scorre, innanzi di andare a scaricarsi nel mare, il Fortore, che è il confine occidentale del Gargano e al tempo stesso il limite che separa la Puglia dagli Abruzzi. Verso il mezzogiorno invece, sul Tavoliere, solleva ripido ed erto il suo calcareo dorso. Da questo lato le giace ai piedi il lago di San Giovanni Rotondo; mentre più in là, e in basso, il Candelaro va, serpeggiando, a versarvi nel Pantano Salso.

Sicché, a settentrione come a mezzogiorno un lembo di coste, tutte frastagliate di paludi, corona il Gargano, il quale poi verso oriente si slancia e scosceso si sprofonda nel mare. Qui, sul cocuzzolo di Monte Calvo, al di sopra di Sant’An­gelo, raggiunge la massima altezza di 1800 piedi. Da questo lato raro s’incontra un po’ di spiaggia: solo qui e là, fra le rupi, qualche picciolo seno. Pure vi sono due paesi, Matinata, un villaggio a ridosso del monte Sant Angelo, con una rada; e, più in là della Punta della Testa, il porto di Viesti, o, come lo si chiamava nel medio evo, Vestis, antica sede di un vescovo. Sul littorale, dal lato del setten­trione sorgono anche Peschici e Rodi, due luoghi di approdo. Dal lato del mez­zogiorno giace infine il più gran porto della regione garganica, Manfredonia.

Oltre questi paesi lungo le coste, ve n’ha parecchi altri sulle pendici nordiche e meridionali San Marco in Lamis, San Nicandro, Monte Saraceno, Rignano, San Giovanni Rotondo, Monte Sant’Angelo, Vico, Cagnano, Carpino e Ischitella.

Sin nell’antichità il nome del Gargano suonava famoso per la sua flora ma­gnifica e per le sue negre foreste di pini e di querce. Orazio fa menzione de’ Querceta Gargani. Oggi le foreste sono di molto diradate; pure rivestono ancora lunghi tratti del monte, specie nella parte centrale, ove è il gran bosco di querce chiamato Bosco delle Umbrìe. Nelle valli dominano l’agricoltura e la pastorizia; nelle pendici, ridotte la più parte a terrazzi, fioriscono la vite e l’olivo.

Una popolazione robusta, da’ costumi semplici, abita queste contrade. Il modo di vestirsi, soprattutto degli uomini, ha qualcosa di singolare e di pittoresco: un’ampia giubba, che ha quasi del pastrano, di grossa stoffa in lana bruna con cappuccio, di solito foderato di vello nero; una fascia rossa alla cintola; e in capo un berretto frigio di color cilestro. E un costume nazionale bello davvero. A molti dal colorito abbronzito e da’ nobili lineamenti del volto porge certa aria di distinzione, specie quando la giubba è di stoffa più fine. Era domenica, e di codesti uomini così vestiti ne vedemmo a schiere andar per la strada.

Questa, che noi appunto battevamo, salisce costa costa e si sviluppa tanto ardita e comoda insieme, quanto un passaggio alpino nella Svizzera. Tra rocce bianche come neve procede spingendosi su su, per giri e rigiri, fiancheggiata da’ pali del telegrafo. Veramente, questi pali formano il più acuto contrasto con quel mondo misterioso lassù in vetta e con la millenaria leggenda che vi si è abbarbicata. Non rappresentano forse questi semplici apparati, composti di tra­vi mal piallate e di fili di ferro insieme congiunti, un miracolo dell’umana coltu­ra, più grande e più prodigioso di tutte le leggendarie gesta dell’Arcangelo? Ma, via non muoviamo a sdegno l’eroe celeste, che ha trionfato di Tifone e delle tenebre! In fine, appunto al servizio della luce stanno qui questi fili. Spiriti di luce, di libertà e di pace scorrono per essi come baleni invisibili. Forse il giorno, ora lontano, dovrà pur venire, in cui il cherubo divino si farà vedere di nuovo dall’umanità, librantesi sulle ali e riponendo la spada nel fodero. Allora forse le tenebre saran vinte del tutto, e si cesserà una volta dal guerreggiarsi per qualche misera zolla di terreno o per ornarsi della porpora cenciosa e insanguinata del potere e della gloria.

Tratto tratto si può scorgere la vecchia strada non carrozzabile. Essa certa­mente risale al tempo degli Angioini, e fors’anco a tempo più remoto. Ora è un semplice sentiero, buono solo per cavalcature, e serve in alcuni punti ai pellegri­ni per scorciare il cammino.

Il promontorio era animato appunto dall’andare e venire di gruppi di pelle­grini. Benché il gran giorno di festa dell’Arcangelo ricorra l’8 di maggio, pure il pellegrinaggio continua tutto il mese. Molti andavano a piedi col loro bordone ornato del ramoscello di pino. Codesto distintivo era sicuramente già in uso al tempo di Ottone III. Altri invece andavano a cavallo, e parevano soldati in marcia, ma senza ordine e, s’intende anche, senza cantare.

Più si andava in su, e più bello, più magnifico si dispiegava giù, nel fondo, l’azzurro golfo e il mare Ionio e gli elisii campi pugliesi con le loro innumerevoli città. Era uno spettacolo di una grandezza incantevole, che noi però non potem­mo goderci che in parte soltanto. Il vento, che già soffiava gagliardo, si fece via via fiarioso; sicché ci fu addosso un freddo mattutino e addiacciante, sino a diventarci insopportabile. Le nostre estremità erano intirizzite tutte. A nulla giovò lo scendere di vettura e il fare a piedi un tratto di strada. Non appena la via torceva ad oriente, l’infuriar della tempesta, ululando e strepitando, ci batteva in viso; onde fummo costretti cercar di nuovo ricovero nella carrozza.

Con crescente impazienza spingevamo in alto lo sguardo, alla città di San­t’Angelo, al termine della nostra fortunosa ascensione. La città appariva ora con la sua grande casa comunale dipinta in rosso, con le abitazioni imbiancate, e le negre torri e le mura, in una linea lunga, quasi penzoloni sopra erti precipizii. A noi però sembrava di non approssimarci mai, e che fosse quasi impossibile il raggiungerla. Forseché l’Arcangelo respingeva noi eretici dal suo santuario? Così, in verità, egli sera nel medio evo comportato con un vescovo eretico, il quale, per fare ammenda de’ peccati suoi, era andato pellegrino penitente al Gargano, ma non meno di un anno intero stette li a tentare invano la salita del sacro monte. Fortunatamente, io potei fare animo ai miei compagni di viaggio, per­suadendoli, che per noi destino simile non ci era da temere. Imperocché a que­sto buon demone io ho avuto sempre grande venerazione. Per quattordici anni, dall’alto delle mie finestre, l’ho visto tutti i giorni con le sue grandi ali di bronzo, spiegate al sole e raggianti, dominare Castel Sant’Angelo e Roma. Ed ora, com­piendo un desiderio lungamente nudrito, vo a visitarlo sul suo monte stesso. Certo, io non posso recargli auree corone, ma come offèrta del pellegrino gli dedico almeno alquante pagine.

In fine ci eravamo avvicinati all’altipiano, e potemmo esser certi che lo scopo nostro era raggiunto. Su quell’altura, su quelle pietre rese friabili dall’intemperie, in quella regione melanconicamente e sublimemente selvaggia, il mugghiar del vento aveva una potenza e un effètto che mettevano orrore. Guardando da un lato della strada, vedemmo accovacciato sotto ad una rupe un pellegrino con un bambino in braccio, che cercava riparare dal furore della procella. Inclinato sulla povera creatura che piangeva forte, con l’espressione tutta propria dell’amore paterno, la confortava e racconsolava. Sotto l’impeto della burrasca, come avrà fatto il meschinello a scendere col bambino l’erta e raggiungere il piano! E mi tornò in mente una vecchia canzone: «Vengo dalla montagna: la tempesta fi­schia, muggisce il mare.» — Ich komme vom Gebirge ber, es heult der Sturm, es braust das Meer. — È una poesia di Schmidt da Lubecca, tutta piena di melanconiche assurdità; ma la melodia di Schubert l’ha resa immortale: «Nella foresta degli spiriti l’eco risponde: là ove tu non sei, ivi è la felicità!» — Im Geisterwald ruft es zuriich: Dort, wo du nicht bist, da ist das Gliick!

E così, battendo i denti, giungemmo alfine nella città del Gargano, che deve all’Arcangelo la sua origine e il suo nome. Essa ci appariva, come se si tenesse arrampicata al raso cocuzzolo del promontorio, in mezzo ad una solitudine gran­diosa, col mare di sotto: un ammasso di bizzarre case imbiancate, sulle quali s’innalzano fumaiuoli innumerevoli delle più strane forme; e il tutto dominato da un’alta e scura torre. Le case poggiano sulla nuda roccia: alcune seguono a scaglioni il digradar delle rupi, e folti arbusti di quercia fan loro corona.

Nell’entrare in città, sbattuti dal vento e avvolti in un turbinio di polvere, noi potemmo immaginarci di esser come arrivati alla dimora di esseri favolosi. La popolazione maschile sembrava esser tutta fuori, in istrada, ed aveva aria di una moltitudine di demonii che andassero su e giù taciturni. Ciascuno di quegli uomini, causa il gran freddo, s’era imbacuccato nel suo oscuro pastrano, e tirato su il cappuccio. A vederli così tutt’insieme si sarebbero presi per una grande riunione di cappuccini o d’incappati. E così mutoli s’aggiravano a caso; mentre le campane del santuario, che ancora non vedevamo, suonavano a distesa.

 

E del santuario andavamo impazienti in cerca, dopoché in una sudicia cànova di vino, che aveva qualcosa di un covo di malfattori, ci fummo alquanto riscal­dati. La via che conduce alla cappella, passa per la piccola piazza della città. Ivi, su di una colonna, sorge una figura in marmo dell’Arcangelo, lavoro che viene attribuito a Michelangelo. Da un de’ lati s’innalza una grossa e nera torre a due piani, bella costruzione di Giordano da Monte Sant’Angelo, l’architetto di Car­lo d’Angiò. La piazza rigurgitava di gente. Frotte di pellegrini facevan ressa alla porta del santuario, dove, nella grotta, la messa era sul punto di cominciare. Il vento fischiava violentissimo intorno e al di sopra di noi. Una banderuola in ferro, attaccata alla croce del campanile, un San Michele girante, scricchiolava e strideva in modo da mettere ribrezzo. Come fra il gridìo e lo strepito di spiriti elementari, noi ci avviammo a scendere nel misterioso regno delle ombre.

La grotta giace profonda nel seno di una rupe, le cui pareti sono nascoste da’ sacri edifizii, e nella sommità è un vecchio arbusto di quercia, a’ cui rami i pellegrini son soliti appender pietre.

Per scendere giù ai santuarii nella caverna si entra per una porta gotica, pog­giata su due colonne da ciascun de’ lati. Nel mezzo dell’arco acuto siede la Ma­donna col Bambino, tra San Pietro e San Paolo, gruppo in marmo eseguito con molta nobiltà di sentimento. L’epigrafe, ond’è fregiata, in cambio d’invitare il pellegrino ad entrare, sembra fatta apposta per incutergli terrore ed allontanarlo, quasi fosse qui proprio la Sancta Sanctorum d’Iside: Terribilis Est Locus Iste, Hic Domus Dei Est Et Porta Coeli. La porta conduce ad una spaziosa scala discenden­te, in pietra di cinquantacinque gradini, al basso della quale si apre una seconda porta gotica. Poiché avemmo varcato la soglia della prima ci vedemmo dinanzi la grande scala, tagliata nella pietra viva, coperta di archi gotici, fiocamente illu­minata dalla luce del giorno, che vi penetra pe’ fori lasciati dalla roccia stessa.

Attraversammo prima parecchie stanze, gremite di rivenduglioli di mille gin­gilli tutti relativi all’Arcangelo: amuleti, medaglie, corone del rosario, rami di pino, conchiglie a mucchi, immagini rozzissime, e specialmente statuette rap­presentanti San Michele; insomma, una fiera a buon mercato. Lungo le pareti, sopra tavole ed assi, codeste statuette eran disposte a centinaia e delle più svariate grandezze. Sono di marmo friabile del Gargano e fatte di pezzi: ali, capo, coro­na, scudo, spada, anche il piedistallo di legno giallo, si possono staccare pezzo a pezzo, e riporli in una cassetta. Questo modo tenni io per portarmi felicemente a casa il mio San Michele, che mi sta ora dinanzi sano e salvo.

Non avevamo fatto la scala, che una torma di sciancati, di storpii, di pitocchi ci fu intorno, levando alte grida, e impedendoci l’andare oltre. Linalmente ad uno scaccino riuscì aprirci il cammino, offrendosi pure a servirci da mentore in quel mondo sotterraneo.

Nello scendere avevamo notato in più luoghi su’ gradini e sulle pareti della scala l’impronta incisa di mani e di piedi, ciò che destò in noi un senso di orrore. Ora sapemmo, che sono segni per antica tradizione impressi da’ pellegrini. Così pure le pareti, come nelle catacombe di Roma, si veggono tutte imbrattate e scarabocchiate de’ loro nomi.

Per la porta da basso entrammo quindi in una piccola corte quadrata, e qui rivedemmo di nuovo la luce del giorno. Questo è il più antico cimitero de’ pellegrini. Alle pareti sono addossate alcune tombe; ma niuna di esse va più in su del secolo XV.

L’atrio mette alla chiesa, la quale è situata in lungo innanzi alla santa grotta. Vi si entra dal lato orientale della corte, per una porta in stile romano, con imposte di bronzo che il ricco amalfitano Pantaleone fece costruire, nel 1076, a Costantinopoli. Sopra ventiquattro tavole contengono figure lavorate in niello in istile assai primitivo e ingenuo, ma piene di espressione, le quali rappresenta­no tutte apparizioni di angeli: la cacciata dal paradiso de’ primi progenitori, gli angeli in presenza di Abramo e Giacobbe, di Daniele e Zaccaria, la liberazione di San Pietro dal carcere, e scene simigliami, sino all’apparizione di San Michele innanzi al vescovo Lorenzo in Siponto. Sulla porta si leggono le parole leggenda­rie che l’Arcangelo avrebbe dette a quel prelato: Ubi saxa panduntur, ibi peccata hominum dimittuntur. E poscia: Haec est domus specialis, in qua noxialis quaeque aedo diluitur.

La chiesa fu edificata sotto il primo Angioino. Non ha che una sola navata, ardito lavoro di architettura gotica, per metà tagliato nella roccia. A sinistra è illuminata dalla luce del giorno, e da questo lato è pure il coro con i suoi banchi e stalli in legno pe’ canonici. A destra si apre l’accesso alla Sancta Sanctorum, alla famosa e miracolosa grotta, al punto centrale del culto dell’Arcangelo in tutto l’occidente. L’apertura ha quaranta piedi di larghezza e sedici di massima altezza.

Mentre eravamo lì dinnanzi, una strana, una indescrivibile scena ci si offrì allo sguardo, quasi fiaba la cui azione si svolgesse nelle visceri di una montagna incantata e illuminata. Se Dante avesse potuto assistervi, n’avrebbe, di certo, fatto tesoro nella Divina Commedia. Folte schiere di pellegrini, che circondati da incerta e fioca luce parevano spiriti, gremivano la scala di marmo, che dalla chiesa mette su alla grotta. Si pigiavano e spingevano per salire, o stavan fermi, o anche ginocchioni. Nell’oscuro fondo della spelonca, sull’altare coperto di por­pora, ardevano candele, che irradiavano la bianca figura dell’Arcangelo, il quale pareva battesse le ali. Un sacerdote con un chiericozzo si muovevano in qua e in là, innanzi all’altare, compiendo fantastici inchini e genuflessioni. I preti in chie­sa cantavano con stentorea voce, e di laggiù venivano pure a ondate gli accordi dell’organo. Le ombrose vòlte della chiesa, di sopra la gola oscura della caverna, il baglior tremolante che ne pioveva fuora, la solennità de’ canti e de’ suoni, quella calca di gente silenziosa, mutola: tutta questa vita misteriosa e sotterranea produceva un’impressione che non si lascia esprimere con parole. Si sarebbe potuto credere che fosse nient’altro che un sogno.

Il prete dell’altare aveva appunto dato principio alla messa; epperò noi erava­mo peritosi a spingerci più in là. Ma lo scaccino, che ci accompagnava, c’invitò a tenergli dietro. Con modi sgarbati e grossolani, senza riguardo di sorta, come se si fosse stati nella baracca del saltimbanco, ci fece largo tra la fitta moltitudine. Superata la scala, ci fece penetrare sin presso al jerofante, e lì, quasi dietro all’al­tare, dovemmo rimanere.

Veramente, lo stare colà non era per noi poco penoso. Ci eravamo cacciati, quasi invasori, in quel luogo, dove si compivano misteri che non ci riguardava­no; e ciò senza nostra intenzione. Del resto, potemmo presto farci accorti che quella tolleranza senza limiti, comunissima in quale che siasi chiesa d’Italia, per cui l’elemento profano può, come meglio gli pare e piace, andare e venire e aggirarsi nella dimora del santo, anche qui era ammessa ed esercitata. Dall’alta­re, è vero, il prete ci volgeva tratto tratto un’occhiata curiosa, investigatrice; ma si vedeva pure, che, più che con un rimprovero, l’accompagnava con un sorriso fuggitivo.

La grotta era piena zeppa di pellegrini. Uomini e donne, che ci stavano vici­ni, o immersi nelle loro divozioni o intenti a fare le loro sacre gesticolazioni, non ci guardavano che con piena indifferenza. Infine, se pure qualche scrupolo an­cora in noi rimaneva, venne a liberarcene l’incredibile ingenuità del nostro scac­cino. Malgrado della sua condizione officiale di custode del tempio, egli riguar­dava tanto poco il Granduca celeste come un essere che bisognasse trattare col dovuto rispetto, che trovò affatto naturale l’accendere ad uno de’ candelieri, che ardevano sull’altare stesso, un moccolo attaccato ad una canna, e con esso illu­minare in qua e in là, dal di dietro, la figura dell’Arcangelo, onde noi avessimo agio di vederla in modo più spiccato. E tutto questo nel momento appunto, che a due passi da noi il canonico compiva il sacrifizio della messa innanzi alla figura dell’Arcangelo! E non valsero a nulla i nostri segni di rifiuto, ché egli non vi badò. Certo, la sconcia azione non potette sfuggire al gran sacerdote dell’Arcan­gelo; ma il fatto è che nessuno se ne mostrò sorpreso!

Così presso com’ero, io osservavo la scena meravigliosa con la stessa intensa curiosità, con la quale Erodoto e Plutarco assistettero un tempo ai misteri in Egitto, nella Siria e nella Grecia. Spettacolo più singolare non avevo mai visto in mia vita! Come quadro, illuminato alla maniera di ffonthorst, avrebbe rappre­sentato il sublime del fantastico. Noi stavamo nella più riposta profondità della spelonca, dalla cui negra volta trapelavano e cadevano su noi gocce d’acqua. Intorno intorno pellegrini genuflessi ed oranti. Dinanzi a noi l’altare illuminato con sopra la figura dell’Arcangelo. Poi il prete e il chiericozzo che cantavano, intercalando il canto con inchini e riverenze. Più in là, in fondo, vedevamo la scala, letteralmente coperta di devoti, e sulla oscura massa che formavano, e anche oltre nella chiesa, scorreva leggiero e tremolante il barlume delle candele.

Quando pensai che questo culto per un essere creato dalla fantasia, o addirit­tura per un fantoccio, venne celebrato identicamente, sempre nella stessa cap­pella, per tredici secoli; eh’anzi per la sua origine semitica, superando il nascimento stesso del Cristianesimo, va a perdersi nella notte de’ secoli remoti; non devo negare che l’impressione in me fu grande. Questo Arcangelo, prima di assumere la figura che ora ha, è trapassato per una serie di miti cosmogonici. E la stessa figura presente ha per sé una storia ignota. Forse l’effìgie di San Michele è qui, su questo altare, sin dal VI secolo. Al tempo della persecuzione iconoclasta bizanti­na sarà stata abbattuta; e poscia nel secolo Vili rimessa su di nuovo. Tale qual è oggi, è un lavoro della fine della Rinascenza: una statua di marmo, alta forse tre piedi. L’Arcangelo è coperto di corazza, con un’alta corona sulla chioma inanellata, le ampie ali distese, nella destra la spada, sulla sinistra lo scudo, e di sopra alla corazza una clamide che cade all’indietro.

Tuttoché armato cosi marzialmente, pure, al pari di tutti gli angeli, San Mi­chele fa un’impressione infantile. E tutto il culto per lui riveste il carattere mede­simo: una bambineria messa su per baloccarsi. I misteri nella grotta del Gargano non hanno in verità nulla in sé di orrido o di spaventevole. Essi non sono che una fiaba fantastica, come quella del Castello d’Arturo, di Dornroschen, del Venusberg e del Kyffhàuser: soltanto una fiaba elevata sino all’idealità religiosa. I fedeli qui convenuti a pregare, non parevano dominati né agitati da tetre immagini. Solo una vecchia donna che era accanto a noi, dava qualche segno di movimenti convulsivi: senza posa s’assestava violenti pugni al petto, mentre una giovane, che le stava vicino, aveva in cambio ogni ragione di trattarsi con dolcezza e riguardo.

Io credo che tutti questi pellegrini sotto l’immagine dell’Arcangelo alato non si rappresentino che un essere celeste, amorevolmente disposto, un salvatore e un patrono, e soprattutto un genio tutelare. Egli siede presso il trono di Dio, e la dimora sua è la luce. Che cosa è qui la grotta tenebrosa? Stando alla ingenua credenza del pellegrino, è il simbolo della terra o del mondo umano, nel quale è piovuto dall’alto un raggio del divino. Ma, anche quaggiù, nella caverna, il pen­siero del devoto pellegrino va cercando il suo genio non nelle spaventose tenebre delle catacombe, bensì nelle regioni eteree. E a lui s’offre un’immagine bella e graziosa che lo rallegra e solleva, e cui non si mescola alcuna rappresentazione del deforme e nulla che ricordi il tormento, gli affanni e la morte…

La messa era finita e la grotta andava sfollandosi. Allora potemmo osservarla a nostro agio. Presso l’altare è una pila, che pe’ pellegrini che vi attingono, è una vera fonte benedetta. Le si leva accanto una vecchia figura dell’Arcangelo ed è in una pietra l’impronta di una sua pedata, l’unica reliquia che si abbia di lui. Vedemmo anche una vecchia cattedra in marmo con una effigie di San Michele ed un’antica figura di San Giacomo, il cui tempio a Campostella gareggiava nel medio evo con questo del Gargano. Il pavimento della grotta non è di pietra naturale, ma coperto di marmo bianco e rosso.

Poiché fummo usciti fuori dall’antro a rivedere le stelle, la procella sera cal­mata; e noi andammo un po’ in giro per la città di Sant’Angelo. Originariamen­te essa non comprendeva che ospedali pe’ pellegrini, de’ quali alcuni rimangono ancora oggi. Già nell’XI secolo era diventata un ragguardevole luogo fortificato, e insieme con tutto il paese del Gargano formò il centro di un feudo regio, del quale grandi signori portarono il titolo. I diritti che vi erano annessi, furono chiamati: l’onore di Monte Sant’Angelo. Federico II ne investì per testamento l’amato figliuolo suo, Manfredi.

La città conta oggi più di 10.000 abitanti. Le sue case tinte a bianco, ornate pressoché tutte di una piccola nicchia con entro la figura dell’Arcangelo, sono del più bizzarro stile: la maggior parte a un sol piano, con scale di pietra scoper­te, che per un uscio a volta menano su di una terrazza. La facciata d’ordinario forma un quadrato, dove la porta d’ingresso serve al tempo stesso di finestra. All’interno riboccano di sudiciume. Non una che avesse aspetto alquanto bello e pulito; eppure di persone ricche non dev’essere difetto in Sant’Angelo. Ci fu raccontato che tengono sepolti sotterra mucchi d’oro e d’argento, e che traggo­no la vita più miserabile che possa immaginarsi; mentre mandano poi i figliuoli a studiare a Napoli.

Dove la città verso l’interno della montagna si termina, si può gettare uno sguardo sulla grandezza selvaggia e deserta del Gargano. Negre foreste di pini e di querce vanno così avallandosi fra i profondi burroni. Pure quasi da ogni parte sono pezzi di terreno disposti a terrazzi ove vegetano viti ed olivi.

E più in fondo vi sono anche campi di biade, ed orti innaffiati da sorgive che nel monte non mancano.

Dall’anno 1860 al 1869, questa regione montuosa, al pari degli Abruzzi, brulicava di briganti: oggi è stata purgata di siffatto malore. Il Governo è intento a congiungere insieme tutti i paesi del Gargano con una rete di strade e di fili telegrafici; il che forse è il mezzo più sicuro per provvedere l’appartato mondo alpestre di elementi di più alta coltura.

Con un certo tal quale desio spingemmo l’occhio entro gli ascosi recessi delle montagne e delle valli a noi sconosciute: il poterle percorrere a cavallo dovrebb’essere un vero gusto. Ma con maggior desiderio ancora guardavo io quell’ammasso di rupi selvagge, che dal lato d’oriente va a sprofondarsi nel mare. Colà sotto è Viesti, la remota, la perduta dal mondo. La sua solitudine dev’essere un incanto; ma a noi non fu dato visitarla. Da Sant’Angelo ci parve meglio tornarcene a Manfredonia, lieti di aver potuto felicemente compiere il nostro pellegrinaggio alla sede dell’Arcangelo sul Gargano.

ferdinando gregorovius