Menu Chiudi

NEL GARGANO DEI GRANDI VIAGGIATORI (10)

Indicazione del Gargano a uno straniero dubitoso

1925

“Un’Italia di mezza luce” è quella che Antonio Baldini (1889 – 1962) propone ad un turista d’oltralpe nell’elzeviro pubblicato nel Corriere della Sera del 18 giugno 1925. Già nel titolo “Indicazione del Gargano a uno straniero dubitoso”, la sottile vena maieutica dello scrittore, tra i fondatori e fine rappresentante della Ronda, dichiara il tono autobiografico e nel medesimo tempo la capacità di proiettarsi fuori dalla soggettività accesa dalla conoscenza di un lembo incomparabile di terra.

Tra fantasia, visione critica e rievocazione, Baldini restituisce la trama di taccuini, appunti, impressioni che costituiscono la nuova curiosità degli intellettuali del Novecento.

Paese incrostato di storia

E così non siete mai stato in Italia,

  • Oimè signore! è mio desiderio, studio e proposito antico conoscere perso­nalmente vostra bella Italia.
  • E, di grazia, che aspettate a decidervi? Sento che conoscete già così bene la nostra lingua e mostrate d’essere informato delle cose nostre antiche e moderne assai meglio di tanti italiani.
  • Grazie. Qui sta il male. Intanto vi dirò che una delle ragioni che mi tiene dal venire in Italia è che Alinari l’ha già tutta fotografata.
  • E che male vi ha fatto con questo il povero Alinari?
  • Che oramai l’Italia, senza esserci stato mi pare di conoscerla lo stesso.
  • Che mi dite!
  • – Che vi dico? Venezia e la Ca d’oro, va bene? Firenze e il Ponte vecchio, va bene? Napoli, Pompei, il cratere che fuma, la grotta azzurra, va bene? Il dolze far niente, il campanil di Pisa, pergole d’Amalfi e di Sorrento, il Colosseo, templi di Girgenti e di Pesto sotto la luna, va bene, – sono oramai cose troppo conosciute, troppo suonate, sempre e dovunque sentite dire, da mio padre, da mio nonno, da mio suocero, e passate e ripassate per tutte le salse di colore e di parole; e io conosco per prova, signore, la delusione di ritrovar sul posto la cosa che c’erava­mo immaginata né più né meno di come proprio ce l’eravamo immaginata.

Vostra troppo famosa Italia mi desta molto affanno, signore. Domando: non ci sarebbe forse modo di entrare in lei da una porta di servizio dove non fosse nulla di famoso da vedere? Non avreste, tanto per cominciare, un paese senza cono­sciute rovine, senza gondole, senza Garibaldi, senza torri che pendono, senza grotte che parlano, senza monti che fumano, senza tarantella, senza pescatore che accomoda le reti, senza tramonti al sugo di tornate? Scusate come parlo, mio signore.

Non è detto che anche io a tempo e luogo non stimerei dovermi incon­trare con vostri panorami e monumenti universalmente noti, ma un momento di respiro nel principio, oh pregherei molto, signore! Arrivarci di fianco, di sor­presa, incognito, quasi per combinazione, questo vorrei: non capitargli incontro a suono di musica, come in viaggi di nozze, ciceroni in testa e vetturali in coda, mio signore.

E il campanile pendesse pure quanto gli pare, il Vesuvio fumasse pure con tutto il suo comodo, e la grotta fosse pure azzurra a suo talento, ma vorrei che venuto per me il momento di vederle, tutte queste meravigliose cose non avessero aria di darla a intendere come a un primo venuto. So bene, signore, che il difetto non è tanto nelle cose quanto nella memoria già guastata da troppe letture sull’argomento e nei miei occhi che hanno già veduto troppi quadri, troppe stampe, troppe oleografie, «Santuzza credimi», troppo Alinari.

Voi, mio signore, avete l’aria di ridere; ma io torno a domandarvi: non avre­ste, per anticamera del mio soggiorno in vostro paese, da consigliarmi un’Italia di prova, di mezza luce, senza storia, per soli amatori, fuori delle zone troppo illustrate, bella senza cornice e all’insaputa di Alinari, di Dante, Carducci, Gregorovius, d’Annunzio, Bertacchi? da poterci fare un po’ di quarantena in­nanzi d’affrontare la gran trappola aperta al forastiero? Vi siete reso conto, signo­re, di quello che senza offesa per nessuno io voglio dire?

  • Perfettamente. E vi dirò che io credo d’aver avuto per le mani quanto di meglio farebbe al caso vostro e di altri che si possano trovare nelle vostre condi­zioni. Ascoltate. Che ne direste, se invece della grande Italia allungata da N. a S. pei viaggi di nozze coi grandi Espressi, vi dessi, come voi chiedete, una minusco­la Italia di prova, che andasse invece da O. ad E., ancora «nuova per queste scene» e senza la più piccola traccia di strada ferrata? una piccolissima Italia, ancora inedita, quintessenziata, con degli abitanti sui generis, con un appennino e dei laghi tutti per lei, e con un assaggio assai compendioso e istruttivo (sopra una lunghezza di settanta e una larghezza di quaranta chilometri circa) del colo­re e delle caratteristiche di paesaggio e di cultura di molte, se non di tutte, le altre terre italiane di maggiore spicco: voglio dire con un poco di Liguria e un poco di Sicilia, un poco d’Istria e un poco di Toscana, un poco d’Umbria e un poco di Calabria, un po’ di Capri e un po’ di Ciociarìa? Che ne direste?
  • Accettato. Ma esiste questa terra veramente?
  • Pensate dunque che bellezza! una piccola Italia così poco conosciuta dagli

Il Convento dei Cappuccini a S. Giovanni Rotondo, nella prima metà del Novecento.

stessi italiani che anche tra le persone colte molti non sanno, facendo il suo nome, dove lasciar cadere l’accento; una vera piccola Italia ricca di boschi, di storie, di santità, di leggende, della quale il Baedeker non dice nulla e probabil­mente lo stesso Alinari s’è dimenticato. Vi va? si combina?

  • Corpo di mondo, io domando se esiste veramente la terra che voi dite.
  • Esiste. Un’ora di mulo vi fa salire, dalla regione dei fichi d’india, dove ab­bondano i capperi sulle mura arroventate dal sole, a quella delle carboniere nelle gole umidissime del monte. Una mezz’ora di carrozzavi trasporta dalle agrumifere terre ancora profumate dalla canzone di Mignon alla rada turchina delle ecloghe pescherecce del Sannazaro.
  • Una corsa a ruota libera in bicicletta, per ottime strade, attraverso pascolo e foresta, vi fa riuscire, giù da un grigio e scorbutico villaggio di Schiavonìa nella piazza deserta e abbagliante d’un paese tutto arabo sul mare. Gli ulivi che accuratamente coltivati per tutto un fronte di colline fanno tornare a mente certi dolci aspetti dell’Umbria francescana, per poco che salga la costa voi li vedete uscir di terra grandi e selvaggi come quelli del gebel tripolitano.

E voi, voi che mostrate d’aver in tanto sospetto i motivi troppo pittoreschi della nostra vita regionale, dove io vi voglio portare potrete lasciarvi servire tran­quillo. Le facce che incontrerete per le vie di quei monti è difficile che le abbiate viste in altre vetrine.

Nel paese che dico debbono far presto a invecchiare, perché i giovani se ne vedono pochi: e invecchiando non pigliano quell’aria arzilla, benigna, quella comune dolce figura d’attaccabottoni che sullo scenario d’una qualunque piazzetta italiana si può sempre facilmente figurare in polpe goldoniane di scrivano pubblico o in berretta di «pescatore-affonda-l’esca»; ma dal loro viso di serio e buon galeotto tutto tagliuzzato di rughe traluce una certa chiusa illirica tristezza.

Quello che offrono è un figurino assurdo, come chi dicesse un barcarolo di montagna. Essi e le loro famiglie vanno a bisdosso dell’antico cavallo pugliese, che nei tempi dei tempi fu incrociato coll’arabo; e quando il cavallo memore dell’antica generosità fa uno scarto escon dal gruppo nugoli di mosche.

Paese incrostato di storia più di qualunque altro; ma con questo di buono, che lì la storia non fa più rumore di quanto ne possan fare nei meriggi estivi le onde del mare e le fronde del bosco: e quando tutto tace anch’essa tace e schiac­cia il pisolino dell’erudito locale nella libreria senza pretese. I monumenti che ci sono cercano di non farsi vedere o spuntano con tutta discrezione da un verde di giardini profumati.

Per lo più sono vecchie torri alzate un giorno invano sul litorale contro i pirati turchesi che desolarono a varie riprese la regione, e che ora, rimbiancate di calce, servono d’alloggio alle guardie di finanza. Potete fidar­vi, signore. Qui la storia non abbaia e non morde. Sonnecchia.

Ma come talora il buon vino dà forza mirabile a quei sapori misti di cedro, di fragole e di popone che son chiusi nella polpa dell’ananasso, così nell’ardente silenzio di questa re­gione voi potrete a momenti gustare senza troppa fatica come un sapore misto delle varie civiltà che lentamente una dopo l’altra vi si sono posate nel fondo, ogni volta lasciandovi qualche cosa di nuovo e d’inconfondibile per secoli dei secoli sulla faccia dei più poveri abituri, nell’aria stessa, nei visi degli abitanti, nei costumi, nella favella e fin nella bardatura degli animali domestici: trasmissioni e influenze longobarde, bizantine, normanne, saracene…

  • Che favola mai è questo vostro paese?

Garantisco che potrebbe fornire ottimi scenari e argomenti a qualunque favola, leggenda o romanzo, ecloga o poema, tanto è vario, animato, risentito, pittoresco; e non ancora sfruttato. Chi voglia vederlo, c’è il sasso dove prima apparve all’Occidente Michele Arcangelo ancora sonante del suo lungo volo attraverso il mar di Venere. Chi voglia ricorrervi, c’è perfino un santo in carne e ossa e con tanto di stimmate, in un bianco convento di Minori Cappuccini.

Chi li preferisca, troverà sul monte scenari di bosco e caverne, dove ancora non s’è bene spento il ricordo dei briganti che sul primo tempo del Regno assaltavano la corriera postale italiana al grido di viva Francesco secondo! E ci sono castelli e torri in rovina che la sera della domenica s’empiono di suonatori di chitarra con dei berretti che non avrete mai visto gli uguali sulle stampe che dite. E ci sono i grossi paesi del monte, candidi sulla roccia a ottocento e più metri sul mare, colle più capricciose accostature e incrociature di casa con casa, di scale esterne,

FOTO

arconi, terrazze, poggiuoli, che sia dato vedere per tutto l’Adriatico. Vanno le nere capre per le strade e le piazze, pare impossibile, senza insudiciare. La gente coglie tutti i pretesti per portare le seggiole sul marciapiede e siede soddisfatta guardandosi attorno. Le ragazze restano in piedi sull’uscio o sedute sul primo scalino.

Tra le bianche case senza cornicione il giorno non finisce mai di tramon­tare e attorno alle minuscole finestre filze di bucce d’arancio messe a seccare pare che trattengano per loro conto la luce del sole fino a scuro. Secca allegria, questa per tutto diffusa decorazione di bucce, che sta a significare né più né meno che questo: che una delle più invidiate ricchezze del luogo non potendo essere inol­trata per mancanza di mezzi di comunicazione nei vari mercati di consumo marcisce sul posto e la gente non ne riesce a salvare e utilizzare che la sola cortec­cia.

Secca allegria che lega meravigliosamente con quella dei balestrucci che rigano indefessi l’aria tra le rocche dei camini. Sull’ora più fresca finalmente anche le famiglie della borghesia tiran su gli storini dipinti e comparendo colle sèggiole sul poggiuolo si assidono in ordinata mostra.

  • Il bel paese che voi mi dipingete!

Scendiamo alla marina, signore. Verdi, allegri, lucenti d’agrumi s’affacciano uno dopo l’altro sul mare deserto i colli del buon lavoro e deliziosi viottoli vi si perdon fra mezzo salendo. Su pei colli si vedono qua e là fìtte incannucciate difendere i giardini dai crudi venti del nord, e dietro l’incannucciate, gli alberi punteggiati d’oro e caldi di sole sorridono come donne dietro il ventaglio.

Però sulla strada litorale che il mare lambisce fanno miglior difesa contro i venti e il sale lunghe mura arcate che pel tesoro ombroso e profumato che celano al no­stro sguardo possono con una certa insistenza far pensare anche alle bianche mura di un harem. Vi dico che di notte, alla viva luce delle stelle, quando un’arietta vagante porta in giro mescolati odori di pino e d’arancio e nel silenzio cullato dal mare fa cigolare un fanale che rabesca d’ombre strane quel muro di clausura, vien davvero la voglia di dargli la scalata…

I paesi costieri scoprono i lumi un dell’altro protesi sul vuoto mare e vedono alterne accendersi e spengersi le luci dei fari. Davvero non so in qual altro paese d’Italia possa esserci un silenzio così alto. Il treno più vicino si ferma a settanta chilometri. I pazienti coltivatori dor­mono in pace nelle loro villette in cima ai colli e dimenticando la frutta andata a male per anni e anni nei fossi ascoltano in sogno il fischio lontano della ferro­via che il sottosegretario deputato del luogo ha promesso in questi giorni alla nobile terra del Gargano (1925).

Antonio Baldini (1889 – 1962)