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NEL GARGANO DEI GRANDI VIAGGIATORI (13)

Pellegrino di Puglia

1960

Pellegrino di Puglia, pubblicato nel I960, rappresenta il terso diario di viaggio di Cesare Brandi (1906-1988), fine storico dell’arte. Senza indulgenza eccessiva alla trama coloristica che offre “l’alta solitudine della pianura senza alberi”, Brandi dispiega in pagine delicate l’affresco di un Gargano “davvero altisonante, sgom­bro ormai di vapori, azzurro e avoriato, come un enorme baluardo a difesa di una città nascosta”.

La Montagna, dove ancora i pellegrini alla Grotta arcangelica strisciano per terra e fanno le croci con la lingua, che conserva tratti di arcaicità, non cessa di trasmet­tere un impalpabile, segreto turbamento “a chiunque lo percorra né con occhio distratto né con cuore altrove”.

La Foresta umbra

Fu Elisa a pretendere la gita a dorso di somaro. A me, quelle colline impene­trabili di verde come una pelliccia d’inverno, bastava guardarle anche dalla riva, che, in quanto a spettacolo, sembravano a momenti una sponda del Bosforo. Ma Elisa aveva voglia del sole che scende come il semolino dal fogliame fìtto degli alberi, dell’odore dell’umido che esala dalla terra in ombra, come se rac­contasse un segreto, e del puzzo della pelle dell’asino. Fu categorica soprattutto sull’ultimo punto.

In realtà gli asini si rivelarono muli, anzi due muli e un cavallo, avevano dei conducenti giovani e allegri, ancorché fossero stati a lavorare tutto il giorno; ma il piccolo guadagno insperato – non c’era un solo turista a Rodi – li aveva come rigenerati. Eccoci allora, con quel basto durissimo fra le gambe e su dei pendii subito vertiginosi. Presto si lasciò il viottolo sassoso, per entrare nel groviglio stesso della proda. Evidentemente c’era una altezza che andava rispettata: que­st’altezza prevedeva l’uomo a piedi e un carico di legna sul somaro. Se al posto della legna c’era l’uomo, tutti i rami bassi, tutti i roghi, i tralci erano per la sua faccia. Non si faceva pari a scostarli. Di dolce, suadente, vespertino, restava l’odore dell’erba, della terra pesticciata e come in perenne gestazione: e il sole non veniva giù come il semolino, ma in lunghi sottili dardi, aghi più fini dei pinuglioli (Elisa si ostinò a vedere il semolino).

La prima sosta fu sul piccolo sagrato d’una cappellina di montagna: lì si scese, e il mulo di Elio si mise a scalciare con una foga così repentina, che quasi sem­brava tenesse sempre i posteriori in aria: coppiole nel vuoto, di protesta sindaca­le per quell’aumento di lavoro, intervenuto proprio quando solleticava l’odore della stalla.

Di lassù la veduta era altrettanto bella che dal basso, occorre riconoscerlo: e intanto c’era un elemento inatteso, come ad essere in un giardino all’italiana, e cioè i grandi lecci potati a fare spalliera per salvare dai venti gli agrumi. E biso­gnava vedere quelle braccia nodose e scure, allacciate come in un infantile girotondo: dentro il muro di verzura, quatti, quatti, protetti, senza conoscenza, i limoni e gli aranci. La costa sembrava avesse preso la rincorsa, era veloce, linda, e dietro il primo dente, che chiude la spiaggia di Rodi, sporgeva il picco di Peschici (così bello in distanza, quanto modesto da vicino).

Si rimonta sul mulo, e qui Elisa si decide a cavalcare da amazzone, ma preten­dendo che anche noi si facesse lo stesso. Non fu difficile accontentarla, perché quella è la posizione giusta su un basto di legno, e a starci a cavalcioni sono tante le corde assassine, che fiaccherebbero le cosce anche ad averle protette da un’ar­matura medioevale. Si riprese a salire e a scostare rami e spine, non sempre con fortuna, ed io sentivo parlare di una sorgente e non ne avevo nessuna voglia; ma vedendo che, invece di scendere si saliva, e mai avendo incontrato una sorgente su una cima, mi convinsi che la sorgente doveva essere una scusa per comitive più ristrette, e per lo meno non così castamente turistiche come la nostra. Invece della sorgente, si arrivò sul crinale dove finiva la macchia e dall’altro versante ricominciavano ulivi e viti.

Ma la veduta di quassù era così dolce, così sommessa, pur nell’ampia apertu­ra che offriva: i due laghi si vedevano, ma come se ci si fosse giocato da ragazzi, e allora sembravano così grandi e adesso erano così piccoli. Laghi come trastulli, laghi che si possono vedere dipinti nello sfondo d’un pittore umbro, ma non si ha mai la fortuna d’incontrarcisi realmente, fra le rame delle querci e in fondo ad un lento declivo di ulivi. Il sole ormai quasi a metà, aveva quella temperatura di vapori che lo rendeva ancor più un pezzo di pittura, ma questa volta non più umbra, fiamminga. E pittura era il paese tutto, con quel tono verdognolo, pa­reggiato, senz’ombre forti e senza netti scarti di tinte: dal verde si arrivava all’az­zurro dei laghi e di lì al mare, come portati per mano, quasi senza accorgersene.

Così scendemmo per un altro viottolo sassosissimo: in meno che si dica si fu in fondo, con un’allegria giusta, e perfino senza canti. Si arrivò alla fontana donde ci s’.era partiti, e ormai s’era diventati amici e ci offrivano case, camere, per la villeggiatura: a poco prezzo, ma sempre a un tanto a testa, anche se si affittasse tutto un quartiere.

Questa gita, onesto sollazzo di una bambina capricciosa, fu come il preludio alla escursione che facemmo, prima di tornarcene, alla Foresta umbra. E un tal nome sarà sempre fonte di equivoco, perché con gli umbri è quasi, certo che non ha nulla da spartire, e pare neanche con l’ombra, ancorché da un nativo sentissi che la chiamavano Ombra, e forse era soltanto un effetto di pronuncia. Comun­que sia, e tutto dipenda da imber o giù di lì, la Foresta, con quel nome così catastale, così testualmente disusato soprattutto per il Meridione, dove son mac­chie, pinete al massimo, ma foreste sarebbe vanteria chiamarle; la Foresta umbra mi sembrava un tributo necessario, da pagarsi una volta e non pensarci più.

Quel che è sicuro, ad arrivarci, offre un percorso stupendo. Si comincia da San Menaio, che è dentro una pineta così bella, vasta, e a scivolo sul mare. Andate a San Menaio, coppie novellamente formate, e a San Menaio troverete tutto quello che fa dire che un luogo è incantevole.

Così io pensavo che quella fosse la Foresta umbra. Ma non era vero nulla. La pineta, ad una certa altezza finì, e cominciò una campagna che era campagna bella e vigorosa, ma senza l’inesauribile vegetazione di Rodi.

Solo dopo un pezzo, passato un paesello che si chiama Vico, comincia a intravedersi la foresta. E allora è come quando, in orchestra, si accordano gli strumenti e fanno quel brusio. All’inizio c’era brusio di alberi giovani, magri come pali, ed erano castagni, noccioli. Già l’aria era divenuta più densa e più leggera; più densa perché si respirava col verde, con l’umido, con l’ombra; più leggera perché, non si sa come, non sembrava arrivasse in fondo ai polmoni, sfuggiva dalle narici in alto come il fumo di una sigaretta. Erano dunque le avvisaglie. Arrivò il grosso. Silenzioso, subito immenso e altissimo. Tronchi di faggio lisci e diritti come ciminiere, salivano dal fondo valle e mandavano fuori grandi dilatate ramaglie con le foglie stese come galleggiassero. E nell’ombra luminosa quelle foglie trasparivano come membrane, sembrava dovessero riflet­tere il verde addosso, quasi filtri di luce. E poi le palme spalancate degli aceri, e le frappe smerlate, capricciose dei cerri: e noccioli, e sotto tutto questo le felci umide come viste in un acquario.

Dolce foresta silenziosa, altissima nel cielo, profonda dentro la terra, e piena di luce aperta, mediterranea, come se a quel verde fossero mescolate pagliuzze d’oro, come se, con l’alito del terriccio nero, salisse un diverso lume, nato dalle foglie macerate e svaporante nell’aria, donde quell’aria era fresca e tiepida, come, quell’ombra, intensissima e luminosa. E qui faremo punto, perché tutti credono di sapere che cos’è una foresta, e non vorranno mai ammettere, che le vere foreste non sono quelle orride del Settentrione, ma proprio sul genere di questa, miracolosamente salvata nel cuo­re montuoso di un promontorio meridionale, quasi di un’isola, e dentro al mare come la prua d’una nave.

Quando le nuvole dense scendono come ad allattare queste cime fronzute, quando il sole mordente le assapora, quando i venti che s’incanalano nell’Adria­tico le squassano, dentro il Gargano, l’Arcangelo vestito da toro, si stende sotto la foresta incantata, e dorme lentamente sognando il Signore.

cesare brandi 1960