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LE ROTTE DELLA FEDE LUNGO L’ADRIATICO: È LA VIA DEL MARE

Ad accomunare, ad esempio, Vieste e Giovinazzo, da un capo all’altro della Puglia, è la stessa dedicazione a Santa Maria Assunta in Cielo.

Vieste e Giovinazzo: a tenerle insieme è innanzitutto una stessa dedicazione, a Santa Ma­ria Assunta in Cielo. Quasi che, a imitazione della Vergine accolta in gloria dall’Altissimo, entrambe le basiliche volessero aspirare all’eter­nità, ascendendo alla sfera celeste con le loro forme imponenti, issate potentemente verso l’empireo, do­po essersi svincolate dal dedalo eburneo che raccoglie stradine rita­gliate fra archi e scalinate, piazzet­te carezzate dal vento e impastate di salsedine, vicoli riecheggianti di dialetto e vibranti di facce cotte dal sole.

Come la Madonna si era libera­ta dalle fatiche terrene, transeunti, per assurgere al Paradiso “in corpo e anima”, nel processo di “assunzio­ne e resurrezione” (che per il resto del genere umano si compirà sola­mente alla fine dei giorni, col Giudi­zio universale), così le due chiese, viestana e giovinazzese, paiono cer­care aria, sembrano volersi divinco­lare dalla morsa delle case addensa­te sui rari spazi praticabili, volgen­dosi, decise, verso l’alta limpidezza Dio, a trovare una dimensione sem­piterna.

E quindi, a ben guardare, c’è un secondo elemento che accomuna le due cattedrali, una solennità che so­lo il paesaggio pugliese, con i suoi inconfondibili borghi marinari, può loro offrire: e cioè l’essere ganglio di pietra, snodo temporale incastona­to sugli assi cartesiani di un’azzurri­tà cangiante, che si dipana lungo le direttrici di un’aria verticale e di una liquidità orizzontale, a seconda delle sfumature che la luce delle sta­gioni conferisce agli orizzonti e alle onde della Puglia.

D’altronde, que­sta è una terra dai confini mobili, do­ve le frontiere si fanno sottili, esili, trasparenti nelle acque adriatiche, che insegnano come le barriere sia­no mobili, come gli argini cambino con un flutto un po’ più lungo o un po’ più corto.

È un insegnamento atavico, che racchiude l’idea stessa di soglia incarnata nel fluire di gen­ti, e che troverà nel Medioevo un momento di straordinaria effervescenza, col brulichio di cantieri ro­manici, col crepitio di scalpelli ine­sausti, col brusio quotidiano di pel­legrini, e mercanti, e crociati, e ca­valli accaldati nell’aria sudata sulle banchine degli scafi di Vieste e Gio­vinazzo.

Sbarchi e imbarchi, gesti e progetti di fede, implosi nell’anima del viandante o esplosi nella mae­stà delle cattedrali vegliate da cam­panili che si innalzano perentori, is­sandosi talora sul giaciglio di ancor più antiche architetture pagane.

È il senso di una cultualità mille­naria, che nei secoli può aver muta­to i contorni ma non la sostanza, e che si rigenera in una ciclicità pe­renne, al crocevia perpetuo di razze e culture, di popoli e speranze, in transito su un ponte gettato fra Oc­cidente e Oriente.

Ed ecco che le cat­tedrali viestana e giovinazzese tro­vano un terzo legame: giacché ten­dono all’infìnito, cercano di sottrar­si al tempo, rinascono su sé stesse per non cedere alla decadenza dei secoli. Entrambe hanno maturato le forme primigenie in età medieva­le, vivacizzandosi nell’età delle cro­ciate, e specialmente fra il XII e il XIII secolo, quando la Puglia costi­tuiva l’immediata retrovia degli Sta­ti latini d’Oriente: quei regni che, di­stribuiti fra Siria, Libano e Palesti­na, erano retti da dinastie europee e abbisognavano di approvvigiona­menti d’ogni genere, in partenza, per l’appunto, dai porti pugliesi.

Per la regione più orientale d’Italia, per le sue basiliche, per la sua eco­nomia e, insomma, per la sua vita fu un momento di irripetibile fermen­to.

Che, tuttavia, comincerà a evapo­rare con la caduta, nel 1291, di San Giovanni d’Acri, ultimo appiglio crociato in una Terrasanta riconqui­stata dai musulmani Mamelucchi. Il declino di un’epoca avrebbe potuto travolgere anche le cattedrali di Vie­ste e Giovinazzo, connesse idealmente e architettonicamente a un Medioevo che si sarebbe fatto sem­pre più logoro, lontano e, a un certo punto, perfino vetusto, stantio, arre­trato al cospetto delle innovazioni sette e ottocentesche.

E invece no: le due chiese hanno nuovamente solidarizzato in un analogo rinnovamento, in una tena­ce resistenza all’usura dei millenni che, pur rivestendole di decori esu­beranti e sfavillanti, pur celando l’intelaiatura primordiale in sovra­strutture barocche, le ha in qualche misura salvate, ne ha prolungato e reiterato il senso, salvaguardando­ne il ruolo e la storia.

A Vieste, la cat­tedrale dovette infatti serbare l’im­magine originale fino al XVIII seco­lo, allorché l’altezza dei muri peri­metrali venne ridotta, le colonne fuori piombo furono incapsulate in nuovi pilastri e la parete meridiona­le raddrizzata con un rivestimento litico, mentre il tetto a capriate del­le navate laterali veniva sostituito con volte lunettate e la navata mag­giore dotata di un soffitto ligneo di­pinto, in una circostante aggiunta di intonaci e decorazioni a stucco.

Nel duomo di Giovinazzo, la ride­finizione del corpo longitudinale e degli elementi decorativi interni fu a sua volta intrapresa nel 1720, e si prolungò fino alla riconsacrazione dell’edificio nel 1757. Sia nell’uno che nell’altro caso, tuttavia, urge an­cora l’anima medievale, riconoscibi­le a Vieste nei dettagli esterni (fra cui due protomi leonine) che ripren­dono motivi di ambito campano, e a Giovinazzo nelle tracce interne del­la cripta, di alcuni lacerti musivi e di affreschi: a ribadire la tenacia di una vicenda comune, di una sacrali­tà inesausta e, comunque, di un pro­cesso storico-identitario assolutamente particolare e prezioso.

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