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Vieste – Festa a San Giorgio: origini e tradizioni della venerazione

Nel libro "La città visibile – L’odonomastica di Vieste dall’era antica all’epoca contemporanea", l’ultimo lavoro del maestro Matteo Siena, la minuziosa descrizione della figura del Santo e delle tradizioni che ne accompagnavano i festeggiamenti. E finalmente viene data una risposta alla domanda "Ma perchè si mangia la frittata a San Giorgio?"

San Giorgio, originario della Cappadocia (Turchia), è stato un valoroso pretoriano al seguito dell’imperatore Diocleziano. Durante una sanguinosa persecuzione scatenata dallo stesso imperatore, si professò cristiano e morì martire nel 303 a Nicodemia. Per il sul luminoso esempio di fortezza, di lealtà, di fede e di amore a Cristo gli è stato riservato, specie nei Paesi del Medio Oriente, un culto particolare e molti Stati l’hanno invocato loro patrono, fra cui la Russia e l’Inghilterra. La diffusione della sua santità nei Paesi occidentali è dovuta essenzialmente ai Bizantini.

Non si sa quando e da chi sia stato introdotto il culto a Vieste, se dai Bizantini o dai Normanni: chiunque sia stato ha mirato a stabilire un equilibrio politico con la Chiesa di Benevento e con quella di Costantinopoli. Infatti si giustificherebbe così la presenza di due compro tettori, S. Giorgio e S. Ponziano (anque questi fu martirizzato a Spoleto tra il 156 e il 165 e il suo culto venne diffuso durante la dominazione longobarda) che occupava il Beneventano.

Secondo il gesuita p. Enzo Ruggieri (si veda "Il Miracolo X greco di S. Giorgio (de libo) e la citta di Vieste" in "Archivio Storico Pugliese", a. XLVII, fasc. I-IV Gen-Dic 1994, Bari, p. 232) l’introduzione del culto di San Giorgio potrebbe essere stato introdotto dai genovesi o dai veneziani, nei secc. XIII e XIV, quando cioè la loro attività commerciale con l’Oriente era molto rigogliosa.

San Ponziano è, ormai, caduto nel dimenticatoio e nessuno più ricorda il giorno della sua commemorazione (13 agosto), mentre la venerazione verso San Giorgio è stata sempre particolarmente sentita, forse perché la sua festività (23 aprile) coincideva con la fiera del bestiame (soppressa poi durante il periodo del governo francese), una delle maggiori del Gargano, che aveva la durata di una settimana. In quella occasione il Decurionato di Vieste eleggeva il Mastromercato, quasi sempre nella persona del Sindaco, che assumeva i pieni poteri. A lui venivano consegnati il vessillo regio dal comandante del Castello, il bastone della giustizia dal governatore e dal giudice regio e le chiavi delal città da Camerlengo, vale a dire assumeva ed esercitava in questi sette giorni tutti i poteri militari, della giustizia, dell’ordine pubblico e quelli amministrativi. Egli doveva provvedere alla difesa della città in caso di incursioni, giudicare tutti coloro che commettevano ogni sorta di delitti, ma non quelli di omicidi, fari rispettare lo Statuto della città, assicurare che i prodotti, specie quelli alimentari, che venivano venduti, fossero di ottima qualità, provvedere che il bestiame, condotto per la fiera, venisse provvisto di acqua e di mangime sufficiente e decidere sull’orario dell’apertura e chiusura delle porte della città. […]

Durante questo periodo si organizzavano i festeggiamenti in onore del Santo Patrono, che senz’altro culminavano con la corsa dei cavalli, che fino a qualche anno fa avveniva senza sella. Il fantino che ha lasciato di sé grande fama per aver collezionato il maggior numero di vittorie è stato certamente Strisciott (Leonardo Pagano), morto qualche anno fa negli Stati Uniti.

La processione si svolgeva come adesso, con un’unica differenza: San Giorgio non era rappresentato su un cavallo ma era solo un busto scolpito nel legno. La prima statua sul cavallo è arrivata a Vieste verso la fine del 1800 o agli inizi del 900 e ad ordinarla è stata la confraternita di San Giorgio che venne eretta proprio in quel periodo. L’antica statua non aveva una cappella e insieme all’altro busto di San Ponziano costituiva un elemento decorativo dell’altare maggiore della Cattedrale. Di questi due busti se n’è persa la memoria. […]

In questa occasione (della processione, ndr) i viestani, specie le donne, i giovani e i ragazzi, approfittavano per fare acquisti e divertirsi. Si usciva dalle case con "u mugghje", cioè un ampio fazzoletto o un tovagliolo, fatto a fagotto legato con i quattro angoli, con dentro fette di pane, fave tenere, qualche dolce avanzato a Pasqua, taralli, mustazzule, castagnette, casatìdde…, e l’immancabile frittata, che si consumava dopo la Santa Messa sugli spalti della collina. Poi c’era la possibilità di girare tra le bancarelle e fare acquisti. La fiera del bestiame, invece, doveva svolgersi al Pantanello, dove gli animali avevano la possibilità di dissetarsi.

A proposito della frittata, p. Ruggieri  vede una coincidenza o affinità con la tradizione di un paesino della Paflagonia, zona a Nord della parte terminale dell’Asia Minore, forse non molto lontano da Amasra, vivo centro ecclesiastico e commerciale. Da documenti rinvenuti nell’Archivio Vaticano e confermati da vari autori che hanno fatto pubblicazioni, il nostro gesuita ci fa conoscere il miracolo della frittata avvenuto in questo paesino, dove vi era una chiesetta fatiscente dedicata a San Giorgio, il cui sagrato era campo di giochi per gruppi di ragazzi. Uno di questi perdeva sempre e i compagni tentarono di allontanarlo, ma egli insistette, specie dopo aver invocato la protezione di San Giorgio e la promessa di portagli una frittata se lo faceva vincere. E quando questo miracolo si verificò, egli assolse il voto deponendo in chiesa la frittata davanti al Santo. Dei mercanti di passaggio che vi entrarono per una preghiera, stuzzicati dal profumo della frittata, dissero "Il Santo non ne ha bisogno, mangiamola noi", lasciando in cambio sul posto dei grani di incenso. Quando vollero riprendere il viaggio, furono misteriosamente impediti di uscire. Capirono che la loro offerta era una inezia e ognuno vi lasciò una piccola moneta, ma anche allora non potettero uscire. Depositarono quattro monete di valore maggiore, poi l’offerta fu raddoppiata e solo quando depositarono le quattro monete del massimo valore potettero riprendere il cammino. Con quelle somme si realizzò il restauro del Santuario.