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Anche un po’ di Vieste nella rappresentazione della goldoniana “Trilogia della villeggiatura”

Un Tommaso Ragno strepitoso nella sua ultima interpretazione nella “Trilogia della villeggiatura”.
L’opera del grande Goldoni riportata magistralmente in teatro da quel mostro di bravura che è Toni Servillo. L’opera si rappresenta in questi giorni al teatro Grassi di Milano

Che ogni anno qualcuno allestisca la Trilogia del­la villeggiatura di Goldo­ni è irritante. Che in pochi mi­nuti lo spettacolo di Toni Servil­lo spazzi via la pregiudiziale irri­tazione è un dato di fatto. I bor­bottii dei puristi, che vi siano ta­gli cospicui o che la lingua sia ammorbidita, attualizzata, ven­gono debellati dall'uso che si fa dei «materiali» in scena. La Tri­logia di Servillo, per usare un termine del testo, è strepitosis­sima. Essa svecchia di colpo il teatro italiano ed è di gran lun­ga migliore del pur notevole Sa­bato, domenica e lunedì dello stesso regista. Il suo lavoro è eminentemen­te stilistico. Voglio dire che è ora alle spalle tutta l'analisi di tipo ermeneutico fatta dalla ge­nerazione precedente. Per Ser­villo il testo ha una sua eviden­za, recata dal corpo degli attori nel loro divenire; e questa evi­denza, va da sé, si sviluppa lun­go l'arco di una comunicatività non già naturalistica, ma di ela­borata naturalezza. Si tratta di un lavoro portato ad una tale precisione, in ogni particolare, senza averne l'aria, avendo l'aria opposta di disinvoltura, da strappare l'applauso ogni cambio-scena. È quanto ho con­statato avendo avuto la fortuna di assistere ad una replica po­meridiana, con un pubblico di studenti. I processi di identificazione scattavano schietti: la lo­ro esperienza di vita era quella che si vedeva accadere in quel momento, amplificata. Paolo Graziosi, che è lo svagato Filip­po, scende le scale, dice buon­giorno (cioè una sola parola) e sale l'applauso, meritatissimo. Marco d'Amore, che è Tognino, dice di Sabina (Betti Pedrazzi) «la vecchia», dice cioè la verità che tutti occultano, facendo fin­ta di nulla, e viene giustamente applaudito. In termini di sviluppo delle vicende rappresentate Servillo va al nucleo della storia, raccontata da Goldoni in tre comme­die. Il nucleo è rappresentato da una donna divisa tra due uo­mini. Esso diventa drammatico perché, al postutto, Giacinta per mere ragioni economiche sposerà, come promesso, non come desiderato, il bel Leonar­do (Andrea Renzi, un bullo sof­ferente, applaudito quando ap­pare a torso nudo!). Invece il Guglielmo abbandonato alle at­tenzioni di Vittoria è un soffe­rente Tommaso Ragno, cici­sbeo d'arte sopraffina. Toni Servillo, che a se stesso ha riservato un personaggio se­condario (lo «scrocco» Ferdi­nando), in una scena spoglia e con una direzione d'orchestra veloce, pone in luce i due temi di fondo. La villeggiatura è la villeggiatura, come ancor oggi ne parliamo: tu, quest'estate, dove vai in vacanza? È cioè un dato di realtà. Ma è anche un simbolo (uno status symbol). Ed è una metafora: è il princi­pio del piacere contrapposto, appunto, al principio di realtà, rappresentato dagli umani sen­timenti stretti nella morsa del mondo economico. Essi si possono vedere in due modi. O dal punto di vista di chi ama e soffre (Giacinta – Anna Della Rosa – Leonardo, Guglielmo), che in uno schema arcaico o in uno schema roman­tico, sono pura e semplice dépense. O dal punto di vista di chi non ama e ragiona (l'ottimo borghese Fulgenzio di Gigio Morra), che accusa tutti di vive­re, come noi viviamo – a furia di mutui – al di sopra dei no­stri mezzi. Alla fine la Trilogia, in un contesto di moralismo classico, è una commedia sul vi­zio di scialacquare. Per questo, nel ricordo del sole strehleria­no che appare nel secondo tem­po, tanto più lancinate è l'ab­braccio finale di due vittime di questo vizio, i due esseri co­stretti ad unire i propri destini.