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VIVIAMO NELLA SOCIETA’ DELLE BUGIE

Nella menzogna probabilmente risiedono le radici del nostro modo di pensare e di agire
Ogni giorno, ascoltiamo e leggiamo una moltitudine di «menzogne». Durante le campagne elettorali, poi, quasi si gareggia a chi la spara più grossa. L’importante (per chi le dice) è acchiappare voti.
Esistono infiniti tipi di bugie. Quelle convenzionali, quelle caritatevoli, quelle dette per legittima difesa, quelle proferite a fin di bene. Anche le litoti, gli ossimori, le metafore e tutte le figure retoriche – che spesso usiamo per esprimerci – sono, in fondo, delle bugie. Sia pure innocue.
Negli anni ottanta del secolo scorso, per iniziativa di un gruppo di studiosi (tra cui Sergio Bertelli, Giuliano Crifò, Cristiano Grottanelli e Mario Sbriccoli), si costituì, in Italia, una sorta di sodalizio culturale, denominato «Laboratorio di Storia», che studiò, tra l’altro, la «menzogna».
Cominciando dall’indagine sul campo semantico del mentire, l’equipe di studiosi rilevò che dappertutto – nell’etica, nel diritto (con le sue note «fictionesiuris»), nella poesia, nella narrativa, nell’arte, nei rapporti quotidiani, nei gesti, nel linguaggio, nelle idee – la menzogna ricopriva un posto di primo piano.
La menzogna, nel corso della storia, ha perfino assunto una forma di resistenza attiva.
Nell’età barocca, fu, infatti, un qualcosa di più di un semplice atteggiamento di difesa passiva dei più deboli nei confronti del potere. Essa sviluppò un metodo ed un vero programma di resistenza attiva, contribuendo ad orientare la discussione politica ed a modificare le forme ed i fini della prassi seguita dal potere stesso.
Anche il Vangelo consiglia la prudenza del serpente accanto alla semplicità della colomba.
Nella menzogna, nel suo scomporsi e nel suo ricomporsi, probabilmente risiedono le radici del nostro modo di pensare e di agire.
Un modo d’essere che impariamo fin da piccoli, quando i grandi ci fanno osservare che, talvolta, dire la verità può essere “sconveniente” se non, addirittura, “maleducato”.
La menzogna appare, dunque, come il fulcro della nostra società. Se non altro perché, senza di essa, non riusciremo, probabilmente, a comunicare. Chi non è mai ricorso ad una metafora?
Non c’è allora da stupirsi se spesso ci rifugiamo nella molteplicità delle menzogne. E’ la società che, così come strutturata, ci induce a farlo.
A scuola, per esempio, si può parlare con sincerità delle proprie esperienze?
Lo scrittore e filosofo siciliano Fortunato Pasqualino (premio “Ennio Flaiano” per la narrativa nel 1963), in un suo saggio, raccontò l’esperienza di un bambino, cui il maestro aveva dato da scrivere il diario. Sul suo quaderno, scrisse: «Stamattina mi sono alzato con tanta fretta, perché sentivo un po’ di diarrea. Allora mio padre mi ha detto: “Mentre che sei nella stalla, finito il bisogno, tira fuori Regina, la mucca”».
Alla lettura del suo diario, il maestro, con i suoi commenti, fece ridere tutta la scolaresca. «Figliuolo, queste cose non si scrivono», ammonì il maestro.
Allora, chiamò un suo compagno di classe, perché leggesse il suo. «Questa mattina, recandomi a scuola, ho visto un monello che buttava la sabbia sui piedi di un paralitico. Io l’ho cacciato via, mortificandolo davanti alla gente che mi ha ammirato e ha voluto sapere quale scuola frequentassi e chi fosse il mio signor maestro». «Senza “signor”», corresse il maestro.
Il primo bambino ascoltò stupito. Il monello era proprio il suo compagno di scuola, che, ogni mattina, si divertiva ad insultare il paralitico.
Perse così la fiducia nel valore della «verità».
Da quel giorno, il bambino, nella sua vita scolastica, infilzò bugie, una dietro l’altra, convinto che, per far piacere agli altri, occorresse sempre raccontare episodi convenzionali e ben ripuliti. In tal modo, egli ottenne lusinghieri quanto immeritati elogi per racconti il cui contenuto era tutto menzognero.
Provava, però, un profondo senso di colpa. Sentiva un istintivo bisogno di essere sincero e di rifiutare ogni finzione.
«Ma tu stai piangendo, che hai?», domandò la sua nuova maestra.
Il bambino rispose che non aveva nulla e che non piangeva affatto. Ma non riuscì a mentire. Le lacrime si vedevano. Allora, cominciò a confessare le bugie, quelle che fino a quel momento aveva raccontato e che aveva scritto nel quaderno di bella copia; bugie, anche se segnate da “lodevoli”.
Singhiozzava. Temeva di essere cacciato dalla scuola. Invece, la nuova maestra gli si avvicinò con un bel sorriso e gli diede un bacio.
Da allora, la verità gli apparve sempre con il volto sorridente della sua maestra. Riconquistò definitivamente la fiducia nella possibilità di essere sincero nei rapporti con gli altri. Anche se qualche menzognuccia continuò a dirla.
Il problema non è, infatti, dire qualche bugia. Le diciamo tutti. Chi più, chi meno. A tavola, nel lavoro, per telefono. Ma quando esse si incastrano l’una nell’altra, come nel gioco delle scatole cinesi, fino ad avere la meglio sulla verità, la cosa diventa veramente preoccupante.
Ed allora, difendiamo il valore educativo della «sincerità». In famiglia, a scuola, nella politica, per strada. Anche a costo di passare per stupidi (agli occhi di chi si ritiene “furbo”)!
Come ha, infatti, ricordato Papa Ratzinger, «tutto il mondo ha bisogno di verità. Senza, non c’è la libertà».
Alfonso Masselli