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Recensione dello storico Lucera per la nuova edizione di “contadini e braccianti nel Gargano dei briganti”

Profondo conoscitore del mondo contadino, del Gargano in particolare, Michele Eugenio Di Carlo ha sempre coltivato studi approfonditi sulla civiltà contadina, dalle sue origini fino alla sua totale scomparsa.

Da questo substrato culturale nasce e prende forma il libro che analizziamo, il cui titolo rientra pienamente in quel grande filone di studi che fu materia dei più impegnati meridionalisti: Molfese, Lucarelli, Villari, Nitti e Pedìo, Zitara, Romano Valentino ed altri a noi più vicini. Senza dimenticare un certo Kulianov (russo sovietico) che in base ai resoconti che Bakunin inviò in Russia (posteriori di circa tre anni al succedere degli eventi) si fece un’idea ben precisa di ciò che realmente era avvenuto in Italia, come del resto accadde allo stesso Proudhon.

Di Carlo non ha scritto un volume sui briganti del Gargano, nel senso classico e storico che richiama il fenomeno del brigantaggio; non compie indagini biografiche di questo o di quell’altro personaggio che seppero distinguersi in quegli anni perché combattente per un’idea, per un valore da difendere o per una nuova dinastia da cacciare e da riportare ai confini della Francia, da dove era venuta. Il suo non è un impegno volto a dimostrare la giustezza o meno o, se vogliamo, l’inutilità di un’Italia unificata, anche se si percepisce, in alcuni passaggi, un certo rifiuto o contrarietà nei confronti del governo di Torino per aver fatto fuori l’esercito meridionale (inteso in questo senso come esercito “garibaldino”); e questo perché, a suo parere, quell’esercito era formato e guidato da elementi democratici, e che tutto ciò che poi sarebbe accaduto nel Meridione avrebbe preso senz’altro una piega diversa da come poi in effetti le vicende si svilupperanno. Di conseguenza, secondo Di Carlo, la presenza di elementi democratici alla guida di quell’Italia unificata avrebbe apportato situazioni molto diverse da quelle che i liberali riuscirono, in modo maldestro e terribile, a creare. Questo convincimento può essere vero, e si può essere, con l’autore, d’accordo o in disaccordo, ma comunque il risultato che si ottenne fu uno Stato tenuto col fil di ferro e spago, dove il fil di ferro era il Nord e lo spago, a mala pena, reggeva il Sud.

Di conseguenza, l’autore non scende nei particolari di quell’evento brigantesco o di quella particolare reazione, cosiddetta borbonica, in quanto ha scelto la soluzione che essa debba essere soltanto lo scenario dentro al quale narrare la sua visione storica del Risorgimento, con le sue lotte intestine, i suoi errori ed anche con qualche pregio, ma che l’Autore, in verità, evita di enfatizzare. E su questo grande palcoscenico nazionale che egli posiziona la vicenda della sua Vieste, e neanche in questo caso, quando parla proprio della sua Vieste, scende nei particolari. La sua, infatti, è una visione più generale di quegli anni, più nazionale, più globale del tempo, anche se poi tale visione finisce col riverberare i suoi effetti su quella locale.

L’autore parte dalla lettura e dallo studio di due importanti documenti coevi redatti da liberali viestani: un manoscritto, attribuito ad un non meglio identificato Anonimo, Il Memorandum o Giornale Domestico, scritto da Alfonso Perrone. Ma su questo aspetto mi fermo qui altrimenti tolgo il gusto al lettore di scoprire il contenuto di questi preziosi scritti coevi, che ho imparato a conoscere, sia pure in modo indiretto, leggendo don Marco Della Malva

In questi scenari, a volte tragici e feroci, a volte prevedibili e a volte anche ripetitivi, l’autore analizza il mondo contadino del tempo, studia il modo di pensare e di agire dei liberali ed ecco che il suo Gargano, la sua terra, la sua gente, altro non rappresentano che lo sfondo, il palcoscenico dove i briganti vengono visti come attori, protagonisti di una guerra sociale tra liberali, borghesi e benestanti e il loro mondo povero, il loro mondo di contadini. Una guerra antica che l’autore, giustamente, con pazienza e proprietà della materia sa tratteggiare in modo sapiente e preparato. Descrive il modo in cui i liberali concorsero a tenere “sotto scorta” le varie aspirazioni di quel mondo e come ci riuscirono, sia localmente, attraverso scontri di famiglie abituate al potere, quanto e soprattutto in campo nazionale: ecco perché i veri vinti del risorgimento furono i contadini. Ed infatti quella particolare situazione sociale sarà mantenuta in questa specie di limbo, fatto di fame, di privazioni e di sofferenze indicibili, con l’unico sfogo dato dall’emigrazione transoceanica, fino alla fine della I guerra mondiale, quando fu necessaria una nuova alleanza dei borghesi e dei benestanti con il regime fascista per frenare ancora una volta la richiesta evolutiva della classe sociale più povera, reduce dalle trincee, lanciati alla conquista di un nord fatto di austriaci, jugoslavi o istriani ovvero serbi ovvero ancora tedeschi. Un fermo, quindi, una stasi, che durava dal 1860 e che durerà per decenni ancora fino alla totale scomparsa di quel particolare mondo.

Una piccolissima nota storica la devo comunque esprimere, ma che vedo più come uno sprone, un invito ad effettuare ulteriori indagini future, e che riguarda un aspetto non proprio marginale del grande lavoro compiuto da Di Carlo: e cioè la repressione attuata in Vieste con l’arrivo del generale piemontese Pinelli. L’autore afferma: “Tuttavia, in nessun atto o documento storico si fa riferimento alla fucilazione a Vieste di decine di persone, tra cui 5 preti e 21 guardie nazionali.”

Infatti, il Molfese afferma che: “il Pinelli fece fucilare alcune decine di persone, tra le quali 5 preti, un ufficiale e 21 militi della guardia nazionale”.

Il Perrone e L’Anonimo, di cui prima, essendo liberali entrambi, non menzionano morti e stragi compiute dall’ufficiale piemontese. Lo stesso don Marco Della Malva, autore di “Vieste e la Daunia nel Risorgimento”, mentre da un lato si intrattiene nell’elencare ciò che fecero i briganti del “Principe” Luigi Palumbo durante l’assalto e la permanenza nella cittadina, poco ci dice circa la repressione. Ed è anche vero che negli Archivi di Stato di Capitanata nulla traspare su quelle morti. Sembra proprio che nulla sia accaduto dopo la partenza del Palumbo (il capo brigante) e l’arrivo del Pinelli (il generale), via mare a Vieste.

In realtà, però, accadde proprio quello che Molfese ha trascritto, e tale circostanza è rintracciabile anche in Michelangelo De Grazia, Rodi Garganico nel Risorgimento Italiano, in “Rassegna Storica del Risorgimento”, anno 1931; cenni sulle reazioni dell’agosto 1861, stroncate dal Pinelli (un termine questo molto esplicito). Anche se Di Carlo, e questo va sottolineato, mette in piena luce le caratteristiche del Pinelli quando ne descrive le famigerate gesta marchigiane ed abruzzesi.

Ecco quindi la considerazione e l’incitamento che scaturisce da questa mia recensione: spero che Di Carlo si cimenti ancora una volta per portare alla luce le modalità di come fu “stroncata” la reazione borbonica di Vieste del 27 e 28 luglio 1861.

Ma al di là di questo piccolo rilievo, qual è il pregio del lavoro di Di Carlo?

Tra un Risorgimento pieno di errori, paure, ataviche ed anacronistiche persistenze sociali; tra una cittadina che vive e pensa di poter continuare a sfruttare il popolaccio, la plebaglia, immergendosi in rivalità familiari e giochi di potere locale e briganti, a loro volta privi di un quadro d’insieme, di una strategia di lotta, ma resi vitali dall’intuito e dalle sofferenze sociali, l’autore mette in luce il vero mondo contadino che in quel momento perse la possibilità di emanciparsi per colpa di una borghesia ottusa e retriva, da una parte e, dall’altra, da un potere reso cieco dalla sola voglia di possederlo.

Un quadro, un acquerello che vale la pena di leggere e di tenere tra i testi più importanti scritti sulla nostra Capitanata.

 

 

Giuseppe Osvaldo Lucera

Storico del Brigantaggio di Capitanata, premio Capone

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