Ai miei genitori garganici
Terra natale, io non ho mai sofferto,
io non ho pianto e non son mai partito,
se alla mesta pupilla,
che ti ritrova, tu sei bella ancora
e sei materna. Forse per selvaggi
mari avanzò la sola mia paura;
forse per venti e per valli e per sere
illuni procedé, sempre sgomento,
il mio pensier soltanto;
ma l’anima, quel sangue tra le vene,
passò per tue radici eternamente
e l’uomo restò bimbo e fu sereno
Serena, sì, tu sei, mia terra grande,
or che sì vergine e vasto l’azzurro
sopra di te tangibile s’espande
e ti chiama sua terra;
e l’onda a te rifluisce, scontenta
delle raggiunte distanze infinite,
ed ecco canta e ti chiama sua madre.
Qui mi son io fermato, su quest’erba
che sempre rigermoglia,
e con l’orecchio trepido ho seguito
nel fiottar del mio sangue il lieve, arcano
crescere della foglia
e l’appressar del tuono di lontano.
E quando poi crosciò sui sassi stridula
tutta la pioggia improvvisa, il tuo volto
ho visto asperso e splendere
d’umida meraviglia,
chetando nelle tue sacre spelonche
il mio terrore fino al nuovo sole.
Ecco il sole è già parte di te, parte
di me, sì basso che quasi ci tocca
con l’ultimo suo dir melodioso.
E sta su quella roccia a brucar l’erba
imporporata la capra (e ci pare
che mangi il sole), e su questo declivo,
che sente il fresco favellar del mare,
sta presso il gregge il pastorel silente,
lieto di regger sull’aperta mano
un cielo d’oro e per la prima volta —
fatto da te, sua madre, madre nostra —
un vestito di raggi.
E son campane lontane e campani
vicini, ed è la sera,
questa cosa tranquilla
che inumidisce la nostra pupilla
all’improvviso e ci fa te guardare
pensosamente prima della notte.
Quando la notte è grigia, e il grillo ed io
sembriamo i soli spiriti viventi
sotto un del ch’or si copre or si discopre
all’occhio malinconico assonnato,
l’ultimo fil di ristoppia che brucia
esala una fragranza di frumento
e fiore. Ah no, veglia lontano e canta
una fiaba di vita un vecchio, e ascolta
un pastorello, ed è religione
questo silenzio della giovinezza
al detto del profeta. Il mare tace,
anch’esso, ad ascoltare, e ancora un poco
il vecchio canta, e sulla stessa pietra,
che serve da giaciglio,
nella mobile notte sono immoti
il bianco capo e i lievi ricci biondi.
Ora il silenzio gli abissi profondi
colma, e la notte l’attonito cuore
che veglia. E vegli tu, Terra d’amore,
anche sul mio pensiero?
lo so che sotto il rigido tuo ciglio
trema pel figlio il tuo pianto di ieri,
il tuo pianto nel sole. E so che dentro
il tuo marmoreo cuore è la speranza
di nuov’erbe e d’uccelli e di pastori,
è la stessa preghiera che non manchi
domani il dolce volo e la pastura
ad ogni tua novella creatura.
Madre, io ti canto la lode notturna
ancora, e tu m’ascolta,
come udivi una volta
il mio canto di maggio !
lo son tornato dai mari lontani,
e se pur sembri in allegrezza spento
ogni anno amaro, non potrà nessuno
annullare il passato e ricondurre
al seme antico il già perfetto fiore.
Era si lieve, ai miei dì, questa pianta,
ch’io con mano piccina ne scotevo
tutta per me la brina;
ed ora è tronco, e la mano robusta
tocca la scorza e non più nuoce ai rami.
Ma in quest’albero forte scorre ancora
l’umore del tuo grembo immacolato.
Immacolato io mi sento tuttora
(eppure m’han fatto rude gli anni e il male)
come si fosse fermato il mio giorno
alla sua prima aurora
senza il declino alla sua prima sera.
E costumi ho veduto
diversi e gente diversa e, per vivere
anch’io, quasi ho dovuto
scordare i tuoi linguaggi e i tuoi silenzi
e le tue selve fiere ed incorrotte.
Ed ho imparato a dormir la mia notte
senza i tuoi cieli, per sentirmi pronto
a correre affannato, il dì seguente,
allo stesso tramonto.
E qui correvan liberi e veloci
i tuoi venti, e sui greppi e dentro i solchi
saltellavano lepri e nascevan viole.
Tu non conosci il mondo sotto il sole,
o severa montagna
che amo. Or, di noi due,
io non so dire chi più sappia o valga:
io, che ho appreso il soffrire de’ fratelli,
o tu, che, sotto la pioggia che bagna
e rode, all’alba nuova ancor possiedi
l’innocenza di ieri.
Io non-lo so, perché sapere il male
è forse un po’ dimenticare il bene.
Ma certo vive senza l’uomo il fiore,
e l’uomo è triste senza un fiore almeno.
Tua la grandezza soltanto, se, al seno
immune ritornati,
si soffre di non esser più frammento
vivo di te, come il boccio dormente
beato, e come quei pastori avvinti
in unico sonno
quasi dolore e amore
stretti per sempre in un’istessa vita.
M’ascolti tu, mia Terra? All’infinita
tenebra (a me sembra infinita, eterna)
il grillo ancora invia
il suo messaggio antico, ed alla luna
esce a guizzar la serpe, e sul pantano
canta la vecchia vicenda la rana,
ed or si sente nascer sulla via
una canzone: è il carrettier che torna.
In questo mondo innocuo e tranquillo,
in pace sì sovrana,
forse son io soltanto
che parlo a te questo linguaggio strano,
questo amarissimo, inutile pianto.
Io so che tu m’ascolti. Ha róso il vento
e portato nell’onda
un masso di tua roccia, e sette inverni
han gravato i tuoi fianchi seppellendo
nelle nevi i tuoi fiori, e sette aprili
hanno ferito di gioia il tuo grembo,
ed hai sofferto lacerazioni
d’uomo e schianto di nembo.
Eppur sei buona ancora e sei materna,
e tutto tu perdoni,
mia terra, e il tuo silenzio è più che voce
al fior che, nato nell’Idea eterna,
questa notte, fra breve, la corolla
aprirà sulla zolla
stupita, a me che, giunto qui per mille
gestazioni amare, qui rinasco
e dico all’aure : “O mistero di gloria,
dove nascere è bello io sono nato! “
Uomini e cose, udite ! Il fiore è nato
e il fiore brama il sole, e vuol l’infante
la vita. Aspetta il vento giù la vela
spiegata e ad esser bella attende il raggio
la rugiada ch’esiste e non si svela
ancora, lo sento ch’è segno d’aurora
questo brusio tra le cime, quest’alito
caldo di rosa ch’è luce e ch’è suono
sopra la vetta più grande, su tutte
le vette, lo ti conosco,
fremer di cento cerri, canto d’arpa
timida e tinnula, ora che ogni sogno
sembra finire in colore, e il colore
sembra mutarsi in cuore
d’uomo. Correte, accorrete alla festa
del monte che si dora,
della foresta che bella si desta
al giorno! E’ tardi già: quel che fu oro
è croco, e cresce già sopra la crosta
glabra un filo di bianchissimo crespe,
e in un mar di candore la notte è naufragata,
e in tutta questa luce il mio dolore.
Giuseppe Tusiani
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CHI ERA….
Joseph Tusiani (San Marco in Lamis, 14 gennaio 1924 – New York, 11 aprile 2020) è stato un poeta, professore universitario e traduttore statunitense, di origini italiane.
Giuseppe Tusiani, Joseph Tusiani dal suo trasferimento in America, è stato un poeta italiano conosciuto anche come “Poeta dei due mondi” scrisse diverse liriche alcune non presenti al pubblico. Il padre, calzolaio, era emigrato negli Stati Uniti d’America pochi mesi prima della nascita del figlio. Giuseppe così conobbe il padre solo per lettera. Da giovanissimo entrò in seminario, ma nell’anno del noviziato abbandonò la strada della vocazione e tornò a San Marco in Lamis per diplomarsi al liceo classico e frequentare poi l’università. Si laureò in Lettere all’Università di Napoli nel 1947, con una tesi sul poeta William Wordsworth.
Subito dopo la laurea partì assieme alla madre per New York e si ricongiunse così definitivamente con il padre. Appena arrivato, cercò subito lavoro nelle università newyorkesi e, dopo aver incassato alcuni rifiuti, nel 1948 firmò un contratto con il College of Mount Saint Vincent (Bronx) dove insegnò per oltre vent’anni. Nel 1972 passa al Lehman College della City University of New York dove insegna fino al 1983, anno in cui si ritira dall’insegnamento e si dedica solo all’attività di scrittore.
Iniziò a pubblicare poesie a diciotto anni e continuò poi negli Stati Uniti. Consigliato e incoraggiato dalla scrittrice Frances Winwar, iniziò a comporre poesie in lingua inglese e vinse il Greenwood Price nel 1955 (unico americano a vincerlo). Continuando a comporre in inglese, scrive anche in lingua latina e già nel 1956 pubblica una prima raccolta di liriche latine.
Intanto pubblica due romanzi e inizia a scrivere anche nel dialetto garganico. Fu molto attivo negli ambienti culturali italoamericani, anche se ormai conosciuto e apprezzato come poeta americano. Partecipò, su invito, a un’attività della ditta di cristalli Steuben: i migliori trentuno scultori d’America interpretarono una poesia dei trentuno migliori poeti americani.
Ha pubblicato numerosi volumi di liriche inglesi e latine, e in dialetto garganico. È anche conosciuto come traduttore di poesia italiana in inglese, avendo tradotto sia moltissime liriche italiane, sia opere intere quali quelle di Michelangelo, la Gerusalemme liberata e Il mondo creato di Tasso e, tra l’altro, il Morgante del Pulci.
Nel 2015, in occasione dell’anniversario dantesco dei 750 anni dalla nascita del divino poeta è stato ripubblicato dalla Levante il romanzo giovanile “Dante in licenza”, a cura e con un saggio di Delio De Martino. Il romanzo è stato presentato presso il Circolo Unione di Bari in occasione dell’inaugurazione del festival Dante, l’immaginario, diretto dal Prof. Daniele Maria Pegorari.
Nel 1999 è stato insignito dalla Regione Puglia del Premio Puglia.
Il 9 gennaio 2016 è stato nominato Poeta Laureato Emerito dello Stato di New York dal Governatore Andrew Cuomo.
E’ mancato l’11 aprile 2020 a Manhattan, dove viveva e da cui ogni anno ritornava nell’amata Puglia in tarda primavera.